Brucoli era splendida di sole, comprato il pesce fresco per la sera, una corsa a casa e salimmo in auto per la gita sull’Etna. I bambini erano piccoli, noi grandi e ancora pieni di giovinezza, le auto, erano quelle che ci potevamo permettere, la mia 128 Fiat con cambio modificato (ma questa è una storia diversa) e una Lancia Flavia. Tre persone in una e quattro nell’altra. L’avvicinamento a Catania cantando, poi il caffè con i cannoli in via Etnea e guardando gli orologi a il sole ormai alto, via di corsa verso le pendici del vulcano. L’Etna è una presenza quasi umana, ben lo sanno i siciliani, noi ci avvicinavamo senza vederlo, perduti sotto alberi e per strade sconosciute, ma lo sentivamo. Si sentiva qualcosa che toccava dentro, una presenza che attirava e nel frattempo parlava per suo conto. Noi eravamo immersi in un’arcaica fase di approssimazione a un desiderio, presi da una spinta che ci faceva svoltare per strade e luoghi che preparavano all’incontro.
Alle 11, in un paese non identificato, ci imbattemmo in una corsa ciclistica, le deviazioni sul posto erano ben visibili, i vigili e l’organizzazione, solerti. Ma era entrare in un labirinto di deviazioni e stradine, dove nessun cartello corrispondeva più alla carta e alla meta confondeva le idee. Non c’era google maps a quei tempi, bensì una enorme carta Michelin, interpretata dalla cosa più fallace che l’uomo conosca: l’intuito. Dopo molto girare in tondo e dopo aver visto per tre volte scritto su un muro a caratteri bianchi cubitali “vota Bianco”, dopo esserci fermati e sfamati. Prima i bimbi e poi gli adulti. Finalmente nel sole a picco apparve, un po’ sbiadito, un samaritano, definito come tale perché sapeva cosa cercavamo. E infatti con poche indicazioni e un solo votaBianco, la strada verso la presenza amica del vulcano fu ripresa.
Arrivammo al rifugio un po’ in ritardo sui tempi previsti, ma intanto il vulcano era dilagato ovunque, sopra e intorno a noi, tangibile, ricco di rumori intestinali, di cui ci fu detto di non preoccuparci perché c’era sì un’eruzione in corso, ma tranquilla e da una bocca larga la lava fluiva lenta e regolare. Il paesaggio era strano, tagliente, casuale nei pinnacoli che sembravano usciti dalla mano di un bimbo che faceva uscire la sabbia e l’acqua, dalle mani per creare statue. Era impressionante perché mai visto eguale, senza neppure un ricordo delle montagne dolomitiche che lo potesse approssimare. C’era il nero e il corallo acceso delle rocce, qualche cespuglio, rade macchie gialle tendenti al rosso. Anche i bambini erano meravigliati e parlavano piano, ma volevano vedere il fuoco e la lava incandescente, lo chiedevano con cortesia ritrosa, quasi intimoriti dalle domande che facevano.
Trovata una guida, partimmo per l’escursione, in calzoni corti, scarpe da ginnastica e maglietta maniche corte. I bambini con i k-way per il vento, noi forti e impavidi ai limiti del freddo. La nostra guida era gentile, precisa nelle istruzioni sui pericoli, paziente nel raggrupparci in modo che tutti potessero sentire. Con i bimbi a mano, cominciammo a camminare. Noi sette eravamo assieme, un unico gruppo, parlavamo veneto tra noi e italiano con la guida. Erano tempi strani, in Veneto, la lega scriveva sui muri forza Etna o forza Vesuvio, ma a noi sembrava un modo per ridere all’osteria perché poi in fabbrica si lavorava tutti assieme, così non ci pensavamo. Anche perché noi eravamo comunisti, mica della lega, e ai nostri vicini a Brucoli chiedevamo dei parenti al nord, cercando di scoprire conoscenze comuni.
Il mio amico, compagno di banco e di università, risiedeva in Sicilia da un paio d’anni, faceva il direttore pro tempore di uno stabilimento chimico dell’Anic in provincia di Siracusa, era una persona squisita per modi e gentilezza, un compagno integerrimo e se non si vedeva dal sorriso allegro, noi lo sapevamo bene. Questa notazione ci servirà per il ritorno. I bambini erano felici di camminare in mezzo a tutta quella graniglia nera, su sentierini strani che si stagliavano appena e in mezzo a una polvere sottile che s’intrufolava ovunque. Si grattavano e si toglievano le scarpe ogni 10 passi, noi resistevamo stoicamente cercando di fare domande intelligenti. Il paesaggio che banalmente si definiva lunare, aveva sole e colori nitidissimi, era impressionante, come i brontolii del vulcano, cosa viva che forse qualcosa voleva dirci, ma si distraeva per ragioni sue. Capivamo tutta la letteratura epica greca, la meraviglia degli antichi, il timore e l’ estraneità umana del posto riservato agli dei. Visto che Vulcano era tranquillo, si capiva che non ci voleva male, ma quello era un posto solo da ammirare con creanza e cercare di capire quello che si poteva del mistero e della forza della Gea primordiale, non una terra da considerare per umani. La guida ci propose di arrivare, con i bambini a debita distanza e ben tenuti a mano, fino alla distanza di sicurezza dal fronte della colata lavica. Accettammo con entusiasmo come fosse un regalo.
Tra noi commentavamo sottovoce la singolarità dei luoghi e due alla volta fummo accompagnati fino a una strana roccia grigia, larga come un torrente, che si muoveva con un fronte arrotondato come in un film di fantascienza da paura e che dalle crepe mostrava vene rosso fuoco. Tutto era quieto, non un uccello o un verso d’animale, la roccia faceva un rumore come masticasse il terreno su cui avanzava e se c’era un arbusto o qualcosa di infiammabile sul suo cammino, immediatamente questo prendeva fuoco. La guida ci raccontò le temperature, la velocità di uscita, sentivamo il calore come davanti a un camino senza fiamma, poi cominciammo ad arretrare. Qui subentrò una strana impressione, ossia che la graniglia nera e grigia e la polvere si attaccassero ai piedi molto caldi, infatti guardando le scarpe da ginnastica queste erano diventate stranamente larghe, palmate come quelle dei paperi. Arretrando con una certa fretta constatammo che avevamo un paio di pinne ai piedi, io in particolare, e che la graniglia nera si era incorporata nelle suole fuse. La cosa aveva non pochi lati ilari per i bambini ed era allegra anche per noi, che scherzavamo, pensando di ripristinare le suole togliendo quella sovrastruttura come si fa con il fango. Ebbene, non era così, anzi raffreddandosi, suola e sasso diventavano un tutt’uno. Avevamo le suole di pietra, belle larghe e stabili: una nuova moda. Con discrezione, sulla via del ritorno, considerato il peso crescente delle scarpe, ne parlammo con la guida, che in modo allegro ci confermò l’inadeguatezza del nostro equipaggiamento, già oggetto di osservazione alla partenza, e si lasciò scappare che se si incoraggia l’Etna, il vulcano benevolo, si dava un po’ da fare.
Capimmo il sottointeso, il parlare veneto era diventato un linguaggio poco gradito a chi ogni giorno faticava per guadagnarsi la giornata proprio su quell’Etna che veniva incoraggiato. Ci sperticammo nei distinguo, e credo fummo convincenti, anche perché i bimbi era così allegri mentre noi ciabattavamo verso il rifugio, così subentrò il dialogo e il perdono. Restavano le scarpe da paperi, ma quelle avremmo tentato di aggiustarle nella discesa. Cosa non semplice perché ritagliammo il profilo con il coltello e con le nuove suole, dopo saluti e pacche sulle spalle, ci avviammo verso le auto. Il sole stava calando, illuminava il nero dei basalti, con bagliori che si rincorrevano su pagliuzze che ad occhio nudo non si erano viste, l’immanenza dell’Etna era sopra e sotto di noi, un animale che dormiva vigile e sognava, così lo raccontavamo ai bimbi e a noi stessi. Si faceva fatica a staccarsi da quella sensazione di meraviglia ma il pesce fresco ci attendeva a Brucoli e con i calzini e le ciabatte, perché le scarpe erano da buttare, ci accingemmo al ritorno. E qui comincia un’altra storia di vulcani e gentilezza.
Scendendo verso Catania la Flavia del mio amico ebbe un comportamento strano. Era il crepuscolo e accendemmo i fari, io ero dietro e vedevo la sua auto rallentava procedendo a sussulti. Se spegneva i fari il motore riprendeva e le cose sembravano normali, ma non si potevano avere entrambe le cose: motore acceso e fari accesi. Passai a condurre e lui mi seguiva a fari spenti cantando Battisti, continuammo per un pezzo a scendere, ma le curve , le strade sconosciute, non illuminate e povere di indicazioni, ci persuasero che era pericoloso continuare in quel modo. Arrivammo, credo, in pianura in un paese di cui ci sfuggì il nome, parcheggiammo la Flavia lungo una lunga recinzione in muratura che portava la scritta VotaBianco e pensando di tornare l’indomani, tutti salirono sulla poderosa 128 Fiat berlina. Eravamo in sette in auto e ritenendo la cosa stretta ma normale, tornammo cantando, cercando di evitare i luoghi e le strade troppo affollate. Naturalmente sia chi era alla guida, cioè io, e il mio amico cercavamo di imprimerci bene in mente la strada del ritorno, per tornare in fretta il giorno dopo.
Tra canzoni, sfottò, sonni dei bimbi stanchi, superammo Catania, e a notte arrivammo a Brucoli. Finché friggeva il pesce cominciarono le docce e la ripulitura dalla polvere, non ho ancora capito come ne avessimo così tanta addosso e come mai non si intasò lo scarico, posso dire che dopo tre giorni alla doccia serale restava ancora una traccia di polvere nera. La serata continuò tra racconti, impressioni, giochi e vino, finché tutti stremati, andammo a dormire con l’appuntamento per la colazione, il giorno dopo di buonora, con il nuovo viaggio per il recupero della Flavia, ma questa è altra storia e la continuerò se avrete pazienza.
Ho vissuto tre anni sull’Etna, a quasi mille metri, davanti ad un castagno che sembrava dieci alberi.
Che meraviglia. Dovresti raccontare 🤗
Ciao, Willy, mi hai fatto rivivere luci, profumi, emozioni che ho provato per 45 anni vissuti in Sicilia, proprio a Catania, ai piedi d’u Mongibbeddu. Grazie di cuore. Aspetto che mi racconti le avventure per ritrovare l’auto. Sarebbe per me bellissimo se riuscissi a ricordarti i nomi dei paesi che hai attraversato. Anche per loro e in loro tanti miei ricordi e dolci malinconie.🤗
Caro Marcello, oltre ai luoghi dove ho soggiornato sull’Etna, solo per qualche giorno purtroppo, cerco di ricostruire precisamente il tragitto per ritrovare l’auto. È una esperienza di vita aver vissuto sull’Etna per te e per molti che non lo lasciano. Sono sicuro che sono ricordi molto belli, i tuoi.
Grazie per questo racconto, aspetto altre storie. Amo la Sicilia e l’Etna è un po’ come mio fratello Vesuvio 🙂