giù dalle colline verso la pianura


Posted on willyco.blog 31 ottobre 2013

Sono colline estenuate, stanche d’appennino. Riottose quel tanto da mostrare ferite di antiche gare geologiche, calanchi, che si gettano in mari che non esistono più. Ma verranno, oh sì che torneranno i mari, la terra è un galantuomo ( strano si metta al maschile le cose che si mantengono, le donne mantengono assai di più, forse pensare oltre il genere fa capire quanto poveri siano i modi di dire a fronte della realtà), ha tempo e si riprenderà la terra data a prestito, la riconsegnerà ai pesci, e attenderà che altre insensatezze la facciano reagire. A suo modo, certo, con quella pacatezza che si scorge in queste colline che contengono l’uomo e non ne sono contenute. Le città di pietra presa dai colli, le cattedrali meravigliose di marmi, il pavimento più bello del mondo, le opere d’arte, le torri arroganti, i palazzi rossi di mattoni, tutto questo immane ingegno profuso, si scioglie nel paesaggio. Perché basta un cipresso a fermare il passo. Un dorso di collina che si staglia contro il cielo, le scie di colori d’autunno giocati sulle variazioni del verde. l

La natura e l’opera dell’uomo, rallentano l’andare, presi dalla quantità di bellezza e bisogna lasciare tempo per accoglierla, per esserne pervasi. Poi magari ci si accorge che mancano i colori del nord, che non ci sono i viali di platani che spingono frotte di foglie giallo marroni verso le auto, che i marciapiedi e i bordi delle strade non crocchiano sotto le scarpe, che l’aria è priva del mulinare nel vento di fine ottobre. Mancano perché questo è il regno dei sempreverdi, e le piante decidue, che pur ci sono, sembrano complemento al verde, mai protagoniste. Ma tutto manca distrattamente e rende lontano e privo di senso ogni confronto, qui e ora non può che essere così. L’immanenza dell’esistere nel momento qui trova la sua realizzazione, non nella piccola ricerca dell’attimo, nella soddisfazione che si esaurisce.

Scendere a Siena come Guidoriccio da Fogliano è semplice, i paesi sono un po’ più grandi dei castelli del ‘300, ma le colline sono le stesse. Mancano i nomi bellissimi dei condottieri e dei popolani (chissà che fine ha fatto questa capacità di dare ai bambini nomi originali, che tracciavano destini ed erano già un segno dell’essere, sostituendoli con le pletore di Katie, Samanthe, ecc. ecc.), ma se si scava nelle parole dei luoghi, Montaperti è ancora una ferita per una parte e una gloria per l’altra. Anche sui partiti, su quei guelfi (bianchi e neri, con non pochi distinguo, perché in Italia avere una posizione duale è praticamente impossibile e chi propugna sistemi politici binari dovrebbe rendersene conto che questo è il paese in cui ci si dilania sulle sfumature per non giungere mai al contenuto) e ghibellini che fanno parte del nostro modo irrisolto di gestire e separare la cosa pubblica dal credo spirituale delle persone. Scendere è facile dalle colline, meglio per le strade secondarie, meglio evitare le superstrade che puntano a obbiettivi lontani e tolgono la vista, meglio restare nel silenzio, fermarsi al ciglio e guardare. Prima guardare e poi fotografare. E non di rado tenere solo dentro sé l’impressione, perché quel verde, quel colpo d’occhio, quel profumo di legna bruciata, quell’eco di parlata nel borgo, quell’azzurro distante, e soprattutto quell’essere travolti dalla bellezza di esserci e vivere, non verrà mai in una fotografia. Ma dentro di noi, invece, resterà la sensazione a lavorare sui particolari, che penserà alle colline belle come il duomo di Siena, che restituirà una sensazione di equilibrio nella gara del meraviglioso.

Era una partita, l’uomo ha dato il meglio, ma il tempo non l’ha mai avuto dalla sua parte e le colline, piano piano hanno inglobato tutto, la cornice si è presa il quadro, rispettando le singolarità, i guizzi di genio, ma alla fine ciò che resta è la sensazione di essere immersi in un tutto in cui l’uomo si inchina, mostra la sua esistenza e si sente parte. questo è il vero equilibrio, la pace, la vittoria della bellezza che non ha vincitori.

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