giallo e grigio

Nella piazza ci sono tavolini ovunque. Le persone sedute godono del primo pomeriggio e del sole ancora tiepido. Aperitivi e chiacchiere con un brusio che si riflette nei palazzi bianchi del potere e nella mole del palazzo della Ragione. Questa è una delle più belle piazze della città dedicata alle erbe che arrivavano dal contado. Divisa dalla grande mole del Salone e simmetrica alla piazza dei frutti, anch’essa dedicata i prodotti agricoli che alimentavano la città senza terre e proprietà. Entrambe le piazze, come le altre vicine e strade e vicoli sono immolate ai riti dello spritz e del cibo veloce. E’ come se nella città governassero i baristi e il commercio, il potere politico è accondiscendente e il voto, invariabilmente, estende l’occupazione del suolo pubblico. I commercianti sono una faglia che vanta diritti d’occupazione e confonde la vita con la capacità economica, pretende l’uso esclusivo di ciò che è di tutti, ma nulla fa perché la città sia più bella. E così nulla viene offerto allo sguardo che compensi la bellezza della piazza vuota.

Nell’angolo della piazza, negletto, vicino alla fontana dove per gioco, bimbi e colombi si bagnavano i piedi, c’è un piccolo sopralzo giallo con l’addobbo che riporta all’Afghanistan. Un palchetto che viene attorniato da chi ricorda che c’è una tragedia in atto. Giovani e meno giovani mostrano cartelli per dare un messaggio a chi passa od osserva distratto dai tavolini. Si succedono discorsi che riportano i numeri di una tragedia che dura da talmente tanto da sembrare un sempre, ed è immane negli adulti senza speranza, devastante nei bambini. Si muore di freddo a Kabul, di sete, di fame e di regole senza appello, né ragione. Scorre nelle parole, un riepilogo della disperazione e della miseria di luoghi senza pace. Tutto è confinato in queste 50 o poco più persone, mentre attorno le conversazioni continuano sorridenti e tutto l’armamentario seduttivo della vita opulenta si svolge tranquillo.

La piazza è lastricata di trachite grigia, in rettangoli regolari e il giallo del palco risalta formando un’armonia che ingentilisce le parole delle testimonianze, ma non toglie loro un significato terribile, giallo come un’epidemia che invade i cuori, grigio come il pensiero che non vede altri che se stesso. Intanto i tavolini più vicini al palco si sono vuotati, l’altoparlante, forse le parole, infastidiscono. Solerti i camerieri spostano altrove tavoli e sedie: prima che scenda la sera il fatturato dovrà avere il senso del giorno di festa.

Adesso sul palchetto, c’è musica dal vivo, una cantautrice si accompagna con la chitarra e narra storie di donne. Una parla di violenza subita, un’altra di un amore difficile e negato, ancora il desiderio di essere altrove emerge dalle parole: le donne che fuggono vorrebbero restare. Sembrano cose d’altri tempi, momenti di ribellione che hanno attraversato i giovani e tutto ciò che era nuovo e cultura in occidente. Interessi improvvisi per civiltà di cui si pronunciavano a fatica i nomi. E quel meditare, protestare, chiedere basato sulle libertà negate altrove portava nuove consapevolezze e libertà nella società in cui si viveva. Senza un internazionalismo di sentimenti, il mondo greve e incrostato d’ottocento e d’imperialismo in cui si viveva, sarebbe rimasto eguale. Quindi il mondo dei vinti ha regalato non poco a tutti, ma ora questa consapevolezza si è perduta.

Resta la minaccia ambientale che dovrebbe rimettere in ordine i sistemi produttivi predatori e lo scialo immane della terra su cui posiamo i piedi, è strano che debba essere il pianeta a ricordarci le iniquità che vengono perpetrate. Ciò che è apparentemente inanimato si anima e con una sua intelligenza ricorda che siamo piccola cosa. Procedere per ecatombe e disastri non ha nulla di razionale, l’umanità lasciamola come processo che deve investirci se vogliamo avere giustizia ed equità nel vivere, ma comunque sia il pensiero profondo della terra esso porta inevitabilmente a ciò che è necessario perché vi sia vita degna. E allora mi chiedo in quest’aria chiara e tiepida se l’umanità non abbia gradienti che non solo sono inversamente proporzionali alla distanza ma se anche nel vicino, nel pianerottolo di casa, non si chiudano le orecchie alle parole e tutto si chiuda in piccole vite che non lasceranno traccia. Come per la riva del mare, la terra s’incarica di alzare la voce e spianare i castelli di sabbia, ogni sera e qui, nell’indifferenza la luce scema ed è sera.

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