Si vuole andar via da un’insufficienza sentita come una colpa, da un giudizio, oppure seguendo una incoercibile curiosità, un bisogno di sapere chi si è. E il bisogno in qualche modo s’intreccia al giorno, genera insoddisfazione e poi rende meno vero ciò che si fa. lo rende inutile e non finisce finché non ci si trova, cosa che forse mai potrebbe accadere. Per questo molti se ne fanno una ragione e restano dove non stanno bene, dove non sono.
Quando si capisce che si fugge da sé, dalla radicalità delle domande e delle scelte che dovrebbero essere compiute, non si sa più dove andare e il sauro che è dentro di noi vorrebbe mimetizzarsi, sparire in uno sfondo dove nessuno ci veda come si è. Diventare erba, foglia, asfalto, folla. Diventare apparenza e basta restando ciò che da vita. Essere in un luogo e pensare di vivere altrove. La chiamano fantasia, ma è una dislocazione del sé, un trovarsi che segue un sentiero, una strada. Quale sia il percorso non è chiaro perché si inoltra dentro dove sembra regni l’oscurità e invece è il confronto con ciò che si poteva essere ma non si è stati e quindi, sembra, non si sarà mai. Questo confronto, questa accettazione del limite invece apre una finestra, una porta, induce ad andare oltre e trovare le ragioni della differenza tra ciò che si è diventati e tutte le scelte che l’hanno determinato. Non c’è una definitività in questo, è il bello della vita, il suo infinito procedere che lascia tutto il tempo necessario. Non è mai tardi anzi riconoscere ciò che ci approssima e il fare ciò che serve a diventarlo, spalanca il tempo. Nel flusso si segue una corrente che trasporta il mondo, il suo divenire, ma come si diventa in esso dipende da noi. Sembra il contrario, ma pensare di avere tempo consente di cominciare, infinitamente cominciare ad assomigliarci. Approfittiamo di questi giorni di silenzio forzato, di apparenza inutile per entrare in noi e capire cosa ci fa bene.