Dalle orme che scendono declivi dolci di neve, attendo il comparire dei cacciatori di Brueghel. Mi metto in disparte e immagino la fila scompostamente ordinata, le facce rubizze di freddo e fatica, le piccole perle di sudore che ghiacciano nelle barbe. Nei sacchi e a penzoloni, ci sono gli abili trofei e il cibo del giorno dopo, nei volti il sorriso ansioso di casa e calore. Mostrano il ritorno; quello che scava negli occhi dei vicini, rallegra la testa e già immagina e gusta lo sfogonar di fascine per rendere calda la sera e la notte. Tutto avverrà prima del sonno, ma intanto c’è un tornare che prefigura i destini iscritti nelle voglie, nei pensieri non detti. Così, mentre la neve scivola il suo bianco verso l’azzurro e si ostina a catturare la luce per sue recondite notti, mentre il cielo rosseggia e i passi affondano in cerca di ghiaccio, mentre uccelli tracciano il cielo e confondono il nero di gridi, mentre tutto questo e molto d’altro avviene, l’attesa nel pensiero arresta il tempo. Lo seduce, lo porta in alcove dove il calore dei corpi rende infinito l’attimo, lo innalza fino a rompere il fiato e si sospende, là dove c’è attesa d’un dopo che dovrebbe essere un oceano di tenerezza. Là attende o precipita nella realtà, mentre tutto ricomincia a scorrere. Sarà il momento del sopore soddisfatto o del ricordo tralasciato che percuote con i pugni la porta. Là, in una capanna calda dove si compiono i riti quieti dell’essere assieme, ci sarà il ritorno che è immagine di ogni tornare.
E il nulla. Del nulla che si conosce dell’altro resta il presumere del bene, la gelosia del possesso, la vacuità del tradimento. Restano i passi affondati nella neve e le certezze di un quadro che può racchiudere ogni ritorno e ogni nostra inquieta sera. Resta ciò che si rinnova e par di riconoscere, il tempo dell’andare e quello del tornare sovrapposti di medesime ansie specchiate. Resta, e si fa in ogni attimo che certifica, la coscienza del presente. E si fa con pazienza sospesa dall’indecisione del passo successivo. Si fa perché una traccia è rimasta nella memoria, nella mappa, nella neve, e così resta la conoscenza di un andare che è un saper tornare.
Dell’altro non si sa nulla o quasi e la sera è il momento in cui tutto sembra più chiaro: basta avere dentro di sé un posto dove tornare che è un luogo in cui sognare, mentre una fascina alza stelle verso il cielo. Basta sapere che ciò che si è cacciato e portiamo con fierezza è parte di noi e che non verrà vilipeso d’indifferenza, che resterà onorato.
Dell’altro non si sa nulla e di noi poco. Ciò che vogliamo sapere è ciò che misura la voglia di tornare e quella di andare, infinite volte. È ciò che ci tiene prima di volare ed è ogni libertà che sapremo contenere. Dell’altro non si sa nulla e nulla si può dire. Certo non giudicare, ma sentire l’infinita propria pena in lui e ritrarsi impauriti di non poter abbracciare, condividere, assieme lacrimare.
E di te non so nulla, pensa il cacciatore, ma non saprei che fare con me diviso, eppure mi capisco solo nell’andare. Nell’avere una traccia da seguire e un tempo che permetta di tornare. Questo conosco ed è meno di quanto un altro può sperare.
Forse per questo siamo propensi a deludere, sia nel dire e dare e sia nel trattenere. Siamo in cerca di noi stessi e ci viene chiesto con insistenza di dare identità. Noi che stiamo tornando con poche certezze e meno verità, stiamo tornando per un poco, e poi la smania ricomincerà nel cercarci altrove, non qua . Come un’abitudine da disfare, un luogo sicuro da vedere con occhi nuovi che non si sapeva di avere. Ecco a che serve tornare: ritrovarsi nuovo nell’amare.
Impronte d’uomini e cani
e discoste, sparse come semina,
zampe di lepri, scoiattoli e fagiani,
e neve che racchiude tracce
e pensieri per tornare: come again,
ogni volta che il gelo scende al cuore
perché senza te non so più stare.