era del cartaceo

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Oggi ci sono i nativi digitali, io appartengo al cartaceo, era sporca d’inchiostro, inchiodata alla dimensione delle pagine. Meglio l’A4 per scrivere, ma più o meno, senza sottilizzare, ché già il formato americano è troppo lungo. Meglio la carta pesantuccia, facciamo oltre i 90 g/mq. Facciamo, ma in realtà è un piacere scrivere ovunque: sulle buste in verticale, sul verso di fogli stampati, sullo spazio bianco lasciato dai sintetici adulatori dei comunicati, sui fogli A4 piegati per lungo, a metà. E chissà in quanti altri luoghi si può scrivere, tenendo una penna con tre dita e senza percuotere una tastiera con sette, otto. Eppure sia un pennino o una sfera (preferisco il primo o almeno l’inchiostro liquido) ad accarezzare la carta, tirare file lunghe di caratteri, riconoscersi, nelle volute, nel taglio delle t, nella chiusura delle vocali, nel cancellare (bello riconoscere il proprio modo di cancellare, ché in questo si coglie dove è svoltato il pensiero, tornato indietro, c’è la traccia della scelta barrata nella parola oppure il diniego a leggere, che si vergogna di ciò che era sfuggito. Dove leggi questo nei nativi digitali?), in tutto questo c’è il procedere spinto dalla forza incoercibile di un pensiero, da una voglia che si somma, che trabocca, che prende per mano. Eh, già, per mano. Controllare i muscoli della mano, del braccio, la pressione è diversa, segue le emozioni, si vede. Non potrei con una tastiera, dovrei descrivere ciò che è impalpabile e che vale per me, per la mia sensibilità, per il peso dei miei pensieri. Non potrei per me che ammiro i calligrafi cinesi e giapponesi, che scorro un testo cercando il carattere di chi l’ha scritto. Oltre, dentro, tra il testo. Già, il testo. Vanno bene i testi a stampa per tutti, per quegli schizzi di endorfine e adrenalina che provocò l’emozione dello scrivere e che ci tornano addosso, ma leggere un testo scritto a mano è qualcosa che supera il limite della pudicizia, espone la nudità perché mostra una nascita.

Il calligrafo si ferma, si bea, si perde nel carattere e come per il lessicografo, seziona dentro di sé per farlo, taglia il resto, mostra il particolare, sembra trascurare la storia, mentre si ferma su chi scrisse e scrive, e legge negli spessori, nelle distanze, l’umore, l’arte veritiera ed esigente dello scrivere. Arte, perché propria e senza veli che non siano i propri, ma spesso oltre questi trasuda e non c’è tecnologia che freni, si sovrapponga, insegni e guidi, ma solo qualcosa che estrae, espone ciò che risiedeva in fondo ad un’anima. E sarà riconosciuto da molti come propria cosa, quel descrivere, oppure così dissimile da essere unico, e importa poco se l’una o l’altra condizione si verificherà: qualche sintonia, in qualche luogo, sancirà la magia di un incontro senza fisicità, solo sensazione comune.

Ci fu un tempo in cui questo non c’era e ci sarà un tempo -lo è già questo- in cui sarà diverso. La tecnologia rende differenti, cambia l’uomo, e ciò che c’era prima diviene obsoleto come l’abilità per farlo, ma le idee e il modo di produrle, resta. Cambiano solo i limiti in cui tutto questo avviene. Così chi usa la propria calligrafia si bea un poco dell’abilità inutile che possiede, come facevano i suoi nonni che sapevano convenientemente scrivere ciò che serviva e raccontavano a voce ciò si poteva narrare con una abilità che faceva sembrare sempre nuovo e attuale ciò che già si sapeva. Storie vere, senza caratteri scritti, che sospendevano il fiato o facevano esplodere il sollievo e quel raccontare gli bastava perché era pieno di segni, di sospensioni, di voce che mutava, che sarebbe stato impossibile mettere nei fogli, nei caratteri, nelle pagine da leggere faticosamente. Ci fu un predominio dell’oralità, poi venne la scrittura, ma coesisterono entrambe a lungo, oggi è più difficile.

Sono un nativo cartaceo, molto inchiostrato, e il mondo è già digitale, insomma una curiosità antropologica tra poco. Mi sembra strano non sentirmi fuori posto, continuare a provare il piacere sensuale di scrivere con una penna, tener da conto questa condizione come una diversità che conta, considerare che ciò che scrivo ora su una tastiera, è qui a fianco e ha i suoi caratteri allineati sulla carta. Mi sembra lo strano che provoca la meraviglia, non la paura d’essere superato, ma lo stupore di vedere come procede il mondo e cosa perde per strada. C’è la tirannia dell’utile come possono sopravvivere le abilità manuali? Però in questo angolo di passato mi trovo bene, e mi avvicino a cose e persone per me un tempo inimmaginabili, al calligrafo cinese o giapponese che ammiro nel suo dipingere, alle parole che perdono senso se non sono scavate nei caratteri, al riconoscere i propri simili in ciò che lasciano come tracce, al fermarsi con curiosità davanti a una pagina scritta a mano. Mi basta e avanza.

chissà se ho chiuso il gas e altri 100 modi per tornare sui propri passi

In attesa della perfezione d’un recinto, un quadrato di novanta caratteri di larghezza e quaranta cinque righe d’ altezza, torno sui miei passi. Verifico con minuziosa attenzione ciò che non vedo, mi pongo domande urgenti del tipo, ho chiuso il gas? e la porta, ho poi chiuso la porta? Come se dei gesti, delle abitudini, divenissero magia di scongiuro: la sicurezza, il tenere gli affetti, il conservare integro il me, e che per un gesto, di ciò che è, non restasse traccia, perché una vita nuova si fosse rappresa in una fobia che parla d’altro.

Basta scrollare il capo, scavalcare con lo sguardo il momento, per sanare un pentimento e già la vita si ricompone ordinata, come un caleidoscopio in cui, non il disegno ma,  il colore diventa importante. (e qui vorrei che le parole cadenzassero, acquistando il ritmo loro di battuta, staccate ed eguali scendessero nella tua, come nella mia mente)

Trattare le paure con paure più piccine,

scomporle in singole perle, fidando che la collana potrà riprendere splendore,

inseguire l’idea che le cose, come le parole, possan divenire scabre;

non definizioni di vocabolario, ma duri pezzi di bambou pronti all’uso d’astuccio.

Fibra che s’addensa. Non fa così la vita? S’addensa,

in qualche sfera che c’appartiene e non si condivide davvero, se non per lucentezza

e preziosità, sapendone difficile il racconto del suono nel rimbalzare, il suo correre veloce, l’essenza di luce e madreperla dura e fragile,

così che un bicchier d’aceto potrebbe dissiparla per farla definitivamente nostra.

E a che servirebbe allora, aver bevuto l’essenza? se tutto si riduce a fisiologia di desideri, scariche di liquidi ed ormoni,

dov’è la preziosità nostra? Lo dico a te, essenza di conoscenza,

che non sai trattenere e dissipi pensando che sia questo il modo di fuggir la morte che t’ impaurisce,

te che non credi d’essere eterna e percorri di corsa ogni parete di stanza.

Non sono le stanze tue, forse ricordi di ciò che non sei? di ciò che vorresti essere e mortifichi

in tratti ben più semplici di vita?

Mi viene in mente che solo gli scolari negligenti non cessano mai d’essere tali e quella sensazione di colpa per non aver appreso a tempo debito, li accompagna e spinge a sapere e mai accontentarsi. Ed al tempo stesso hanno sensazione che la loro inutile fatica riempia le vite, ma dia loro una continuità che ammette l’eterno. Nel finito l’eterno, nella fobia la paura d’altro, nel tornare sui propri passi il sentore di miele amaro che rivede ciò che è stato, ciò che potrebbe essere, ma non ciò che sarà. La fobia e il vivere disordinato, il desiderio d’ordine, di sequenze accoglienti, di punti fermi e bricole a cui attaccare la propria barca e la prigionia d’un mare dove la terra è sempre in vista.

C’era un inizio fulminante, poi il romanzo m’ha condotto altrove, lo so, lo ricordo eppure non sapere cosa sia stato meglio, mi consente d’andare, d’avere altre possibilità, di mescolare  la permanenza dei sentimenti con la mutevolezza del vivere.

Così mi sovvien l’eterno andare, e la certezza che porta mia è chiusa, che nulla verrà di me sottratto ch’io non voglia, si riposa nella sensazione di pace del riaprirla.

Gesto bello e salvifico del tornare.