Finisce l’età dei ninnoli che fan ridere, dei candelabri allegri, delle mille candele colorate, delle ceramiche raccolte assieme nei mercatini, del bricolage condiviso. Finisce l’età in cui una stampa, un manifesto, un piccolo quadro, una cornice, sono un’avventura. Finisce l’età dei libri che bisogna assolutamente leggere, dei cataloghi delle mostre viste e poi sfogliati assieme. Finisce l’età delle domeniche che non finiscono, delle merende sui prati, delle canzoni cantate in coro, della scoperta delle osterie fuori porta. Finisce l’età perché muta e l’andare è diverso, se ancora si cammina assieme. E’ un palpitare che si semplifica. Oppure si complica di vite intorcolate.
Vorrei un verde nuovo ogni primavera, un andare incurante di pioggia. Lo vorrei per te oltre che per me. Vorrei il grigio che scurisce gonfio in cielo e il sole che trabocca dalle nubi. Vorrei il sudore che vela la pelle, i piedi che seguono i piedi, il calore d’un muretto a cui seduti vicini appoggiarsi. Vorrei il silenzio e poi le due voci che cominciano assieme a dire e la risata, e il bacio che ne segue.
Finita l’età dei ninnoli tutto è diverso, quasi tutto, perché ciò che prima faceva palpitare, scambiare, desiderare c’è ancora, ma non eguale. E’ quell’ineguaglianza da scoprire, così poco banale, stratificata di ricordi che la coprono alla vista. Quella diversità da mettere nell’andare assieme, l’intensità con cui stringe una mano, il né troppo né troppo poco che racconta molto. Ad un certo punto, non importa con chi purché sia quello giusto, è ciò che stupisce oltre l’abitudine, ciò che gira le cose e le vede differenti, ciò che trasmette calore alla giusta distanza, a fare la differenza. Ecco che oltre l’età dei ninnoli c’è l’età del calore che dura.
I platani capitozzati sono tirati a pergolato, e scendono con fiumi di glicine azzurro e bianco verso il castello di Miramare. L’aria è piena di profumo, l’azzurro viola riempie il cuore, le nari, il cervello. Si può riempire un cuore di colore, di profumo? qui si può fare , così anche i pensieri, poi a Barcola, davanti al mare, sono meno assillanti e la mia vita, le cose che faccio fatica a chiudere, anche quando non ho evitato il dolore, divengono storie.
Una storia, tra le altre, mi è rimasta da pensare, perché non l’ho capita. Ora ho certezza di essere caduto in una volontà senza decisione, così la cosa è rimasta sospesa, il mondo è andato avanti e le cose, il mondo, le vite sono cambiate, ma ciascuna per suo conto.
Pensavo: ecco in questa mancanza di comprensione profonda si consumano molte storie, noi proclamiamo la leggerezza come strumento per non lasciare orme sulla vita, pensando di danzare, mentre in realtà siamo fermi e simili ad alberi nei nostri percorsi. E se guardassimo bene l’albero del nostro vivere, vedremmo infinite ramificazioni che, al più, finiscono in una foglia, rami che non saranno mai fusto, ed un tronco, solido, piantato nel terreno in cui ci è dato vivere. Il tronco ha un bisogno enorme di crescere, di essere albero – quell’albero- e il resto che compie, con volontà e leggerezza, sono tentativi di luce. Essere albero esige determinazione per la propria vita, e pur vivendo del rapporto con gli altri, donando profumo e ricevendo luce, la determinazione alla fine riguarda solo noi stessi.
Pensavo, mentre il mare e il profumo di salso avevano tracce di glicine, a quanti silenzi chiudono un lasciare qualcosa per cui si è patito e gioito, e quanta forza è necessaria per dare espressione a quel silenzio, che è un nostro parlare e serve a dare senso ad una sofferenza, che sarebbe annacquata dalle parole. Forse solo la consapevolezza del perché si soffre chiude le sofferenze, pensavo, e ci riporta a noi e ci fa capire cosa amavamo davvero in quelle storie che si chiudono. Soffrire non dà una ragione, ma un significato a ciò che si prova.
Io, pensavo, per anni non ho capito che la parte maggiore di ciò che mi impediva di essere sereno nell’ andarmene era il senso del fallimento, e siccome non l’ accettavo, riprovavo, come se una sconfitta avesse una prova di riserva. E’ la sindrome del giocatore che pensa sempre che la prossima mano gli permetterà di rovesciare la fortuna avversa e di riprendere se stesso. Ma in realtà non è così, quando subentra la comprensione, il gioco, quel gioco, è perduto, non coinvolge più. Resta un buco dello strappo e si deve attendere che si riempia. e qui, pensavo, che cercare di capire perché non si è soddisfatti sembra sia la necessità di colmare quel buco. Ma un riempire è un fatto statico, non considera la vita come qualcosa che procede. Ecco, avrei voluto ricordarmi sempre che la vita procede, che quello che avevo era meno di quello che mi stava attorno, e che sentivo nel colore, nel mare, nella sensazione di ben essere. E che guardandomi esclusivamente dentro, mi perdevo molto della vita che pullulava e chiedeva di essere letta.
Non c’era tristezza in questa percezione di essere fuori e dentro altro, anzi il confronto con il molto di buono e bello che avevo conosciuto, portava allegria, fiducia. L’allegria che ci permette di sbagliare e poi di riprovare, con mezzi uguali, e diversi, con attenzioni che ci sembrano nuove, con il senso che davvero c’è molto più fuori di noi che dentro i nostri piccoli razionali, pensieri, che prevedono il futuro.
Siamo solo maghetti di pianura consegnati alle arti magiche del già visto, provato, vissuto, all’ illusione di vivere che si consuma, se ci si sofferma in questo sapere senza meraviglia.