autunno

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Ciascuno di noi ha un suo autunno personale. Come per tutte le stagioni, una è particolare e diventa un contenitore di sensazioni, colori, profumi, leggerezza dell’aria. E’ una sorta di campione depositato nel nostro ufficio internazionale dei pesi e delle misure, quella su cui tutti gli autunni verranno confrontati e con un giudizio un po’ crudele si attenderà che un altro prenda il suo posto, ma persuasi che ciò sia difficile. 

L’auto corre veloce sull’autostrada, è mattina e non c’è traffico. Quando è accaduto ancora qualcosa di simile?

Il ricordo rende uniche le stagioni, ma tende a sovrapporsi per cui una stagione è quasi il riassunto dei fatti di tutte le precedenti. Come vi fosse una contemporaneità del passato. In fondo la vita è rappresentazione e l’unità di tempo, luogo e spazio, permette di capire noi come sommatoria di tutto ciò che è accaduto e che sarebbe potuto accadere.

Andare verso Belluno è accedere alle dolomiti, tutto quello che c’è prima sembra sminuirsi. L’altezza, i colori, la scabrosità della roccia nuda, le persone montanare per davvero, le spigolosità che generano i silenzi e gli inverni freddi, le valli che legano strade verso i paesi e le case abbarbicate. Tutto questo fa dimenticare che prima c’è una bellezza eguale, dove ciò che non è aspro è dolce, dove a qualcosa si innalza verso il cielo, corrisponde ciò che s’ abbassa e accoglie. Sono arrivato dalla pianura, e questa e le prealpi, inizia a tingersi d’autunno e e ciò che è vivo muta colori che la roccia non riuscirà ad eguagliare.

Il sole a mezzogiorno illumina il lago di santa Croce. Dal Fadalto, il lago è sotto i nostri piedi. Siamo arditi e sicuri sulla terrazza che si getta sul vuoto. Le tavole sono apparecchiate, è ancora bello pranzare fuori. C’è profumo di legna e di arrosto. Stamattina, venendo, c’era una nebbia gialla, molliccia e veneziana, più da canale di valle che da terraferma. La prima nebbia di stagione, ancora incerta se essere fumo. L’ho poi vista in basso, ma era già bianca e forse nube, ai lati dell’autostrada che s’inerpicava sulle arditezze impudiche dei ponti. Su, finché s’è aperto il cielo e si è chiuso l’orizzonte, incassato tra valli e il bruno verde degli alberi. C’era già qualche macchia di giallo. Muta la stagione e adesso il lago è vapore sospeso di luce e di indeterminatezza. Fa caldo, guardiamo muti, ciascuno per suo conto. Dopo ci saranno parole, piccole nervose risate, necessità di scomporre la bellezza per ritrovare le nostre piccole identità soverchiate. L’autunno, in montagna arriva prima, eccede di sensazioni e colori molto più che al mare dove invece ingrigisce. Qui la luce diventa sottile, un filo che lega le cose, lì si spampana in mille rivoli e riflessi d’acqua.

Per l’ animale di città, l’autunno scende tra palazzi e campi, mescola l’acqua di fiumi nervosi, ha il fumo delle caldarroste, si scioglie nelle nebbie bianche che colmano le piazze di pianura. Guardo ancora il lago, siamo già alti e c’è più luce, ma la sera viene prima e non ha la stessa accoglienza per gli amanti di città. Qui il calare della luce spinge verso le case, le strade si vuotano, le finestre si accendono. E’ un bisogno di calore, cibo, di sicurezza nel sentore di cose conosciute. Adesso in città, ci sarà un rincorrere l’ultimo tepore della giornata, i ragazzi resteranno tra i tavolini nelle piazzette, e riempiendo di voci l’aria cancelleranno i gridi degli uccelli tra le case. Sul fiume il sole darà spettacolo e gli sguardi passeranno da un volto cercato, amato, all’albero sul greto, fino al rosso che trionfa veloce verso la notte. 

E’ autunno.

ciò ch’è difficile scambiare

Se a volte la cortesia impone parole, solitudini interrotte, il fare necessario, ciò non significa nulla più che un fastidio leggero, un’insofferenza celata quel tanto da far dire: non ha il suo solito umore. L’autunno chiude nelle case, le parole si fanno rade e dense di significato, l’orecchio è attento, ma più alla pioggia sul tetto (che ben si fonde con lo scorrere dei pensieri) che alle urgenze, che tali non sono.

Coltivare il proprio hortus conclusus, ammettere poca vista sulle proprie cose piccole e preziose, finalmente colte nella loro perfezione, ascoltare ciò che si vuol sentire. Una sordità così selettiva da essere assenza. Eppure esserci. Anche nel condividere ciò che altri fanno, gli impegni forti delle vite, il senso di alcune passioni che giungono d’altrove (si può leggere l’animo altrui e gioirne, senza innamorarsene un poco?), e tornare alle proprie giornate, al proprio tempo, circoncluso per sé, mentre le mani fanno altro. Impastano farina e uova per un dolce, sistemano carte, scorrono una carezza, svolgono un bacio. L’inverno incipiente aiuta, come un camminare sul confine, e non è forse questa la gioia paurosa che mette il bimbo nel percorrere uno stretto cammino in equilibrio? La tavola sul vuoto percorsa con paura, il piacere dell’essere riusciti, non sarà mai compensato da altri che da sé. Così i piccoli piaceri, che mostra il sorriso accennato, sono la sostanza del rischio di vivere, e la dimensione delle cose che posso scambiare si farà sempre più piccola tanto più aumenta la condivisione. A chi potrò parlare senza vergogna, di questi miei tesori, frammenti di colore, sensazioni così intime da essere pezzi di sentire che soli hanno accesso all’anima?