non possiamo permettercelo

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C’è il sole, i ragazzi, gli operai, il corteo lunghissimo, le bandiere, e molte sono rosse. Tanti giovani. C’è allegria e protesta, e messe assieme sono voglia di cambiare. Bello, no? La piazza è piena, qualcuno lo conosco, molti no, e anche questo è bello. Tra quelli di un tempo si sono sopiti i contrasti, le storie contano ma poi non contano più quando si è dalla stessa parte. Ci sono quelli che vendono lotta comunista, ed è una tenerezza per chi ha la mia età, un ritornare a un tempo esaurito. Ma siamo tanti: ci sono i precari, molte donne, insegnanti, operai, studenti. E striscioni, bandiere, cartelli, musica che ha ritmato il corteo, slogan, sorrisi.  Dalle casse esce la voce di Caparezza che dice: non me lo posso permettere.

E tutti concordano, saltando a ritmo di rap: che venga rubato il futuro, non possiamo permettercelo.

certezza

Da qualche parte nascerà, non dubitatene. Scorre nel sangue, si annida nei pensieri, la realtà lo alimenta e lo fa crescere. Lo portiamo con noi oltre la convenienza, oltre la cupidigia, oltre l’egoismo. Tutti sentimenti singoli, che hanno misura nell’individuo non nell’essere assieme. E’ un bisogno, non un desiderio e così emergerà, dapprima, come grido di pochi, ma crescerà e farà battere i cuori, scaldare le tempie ed esercitare le intelligenze per essere soddisfatto. Emergerà e mostrerà l’evidenza a chi non vuol vedere. Del resto lo vediamo, lo subiamo, lo sentiamo cosa produce un capitalismo senza dialettica. Lo viviamo nell’ambiente che si deteriora, nel lavoro che manca, nelle crisi che non trovano soluzioni, nel distacco sempre più forte tra chi ha e chi non ha. Lo sentiamo nei diritti che si affievoliscono, nell’uomo che conta di meno, ma soprattutto lo vediamo nella diseguaglianza che cresce, nella povertà senza riscatto, nelle contrapposizioni tra poveri per strapparsi un diritto. Perché consumata la democrazia, il rispetto, la dignità degli uomini, il denaro lucra sulla crisi, sui settarismi, sull’intolleranza. Nascerà da qualche parte, avrà un nome antico, rivoluzione, e parlerà ancora con parole antiche: uguaglianza, fraternità, libertà, ma tutto sembrerà nuovo a chi lo vivrà. Non è una speranza, è una certezza, è sempre stato così, la storia non si ripete ma obbedisce alla spinta verso l’essere assieme, verso il costruirla assieme. Non prevalebunt è l’equivalente del no pasaran, sempre le stesse parole, sempre gli stessi bisogni. Profondi, radicati, incoercibili, certi.

gli uomini del fango

Se fossi in loro mi offenderei.

Per l’assenza di soluzione ai loro problemi e per la somma di luoghi comuni di cui sono oggetto. Per la fuga dei cervelli, per le bombe d’acqua, per la tragica fatalità e per il tutto era già previsto che gli raccontano. Mi offenderei per la presa in giro d’una realtà raccontata, così pelosa e inconsistente da essere sui giornali per tre giorni e poi archiviata. Come si potesse archiviare la realtà…

Angeli del fango. Chissà cosa significa?

Che non si sporcano a spalare merda e fango? Che sono buoni e che rappresentano una sorpresa positiva nell’indifferenza di chi è stato graziato dall’incuria o dalla sorte? I giovani che stanno dando una mano a Genova, sono quelli che abbiamo attorno tutti i giorni. Che troviamo per strada e sono allegri o tristi, che vediamo a piedi, in bicicletta, in motorino. Che vivono in una scuola indecisa su cosa dargli, tra datori di lavoro che invece sanno cosa dargli, cioè poco o nulla. Sono gli stessi giovani che vogliono divertirsi, ma anche avere un futuro. E se credono sempre meno nella politica è perché la politica gli ha detto che hanno meno speranze dei loro padri. Però sono giovani, non ancora consumati dall’indifferenza di chi comunque ce l’ha fatta, e allora si rimboccano le maniche in cerca di un posto di lavoro, studiano, s’impegnano sperando che davvero serva per avere un mestiere.

Nello spalare fango e liquame c’è il massimo della solidarietà e il minimo dell’efficienza. Per spalare con efficienza vanno bene le ruspe, ma se non ci sono o non hanno conducenti, che si fa? Si rispolvera la solidarietà e ci si mette a spalare. Solo che lo stato sono le ruspe assieme alle braccia dei cittadini e se mancano le prime allora è lo Stato che manca. Questi ragazzi non se ne rendono conto, ma ciò che buttano nei rivoli verso il mare è il prodotto di quello che ha reso difficile la loro vita. Uno Stato che interviene a posteriori, che non provvede all’evidenza, dove chi governa il territorio ha paura o peggio, altri interessi, dove la fragilità non è il fatto idrogeologico, ma la vista e la memoria. Uno Stato che sta per adottare un provvedimento che renderà ancora più facile il cemento e l’ha chiamato sblocca Italia, ma non ha ruspe, non ha giudici efficienti, non ha condotte fognarie, canali che portino a mare, non ha coscienza collettiva.

Quello che ci tiene assieme è il minimo dell’efficienza, lo sperare che vada bene. Questo fa parte della coscienza che nasce in famiglia e riguarda i beni comuni, ma a tutti, fuori, i principi che vengono insegnati riguardano il successo di sé, e sono la competitività, la velocità, l’efficienza, la brevità, la resilienza. Sì, anche la resilienza perché in un autoscontri vince chi reagisce meglio alle botte. Qualcuno parla anche di solidarietà, ma sottovoce perché non è di moda come fondamento della politica e così sembra riservata all’antica carità cristiana: la pietà per chi non ce la fa, non il mettersi assieme per cambiare le cose. Renzi non è ancora andato a Genova, luogo difficile in questo momento, Grillo ci va domani, aveva la kermesse 5 stelle a Roma. I due non sono la stessa cosa, preferisco chi proverà a fare, non chi distrugge ogni cosa che tocca. In questi giorni parlare di peste non è bene, abbiamo tutti una vaga inquietudine per Ebola, e abbiamo visto troppi film di fantascienza. Credo che mettere assieme sia la cosa più difficile, che urlare e additare nemici sia più facile. Chi amministra è marginale nel movimento di Grillo, vorrà pur dire qualcosa. Confesso che la mia generazione ha molte colpe, una è quella di non aver ascoltato, o visto, o provveduto. Nel ’66 a Firenze ci potevano pur stare gli angeli del fango, già nel ’70 a Genova (eh sì, accade spesso) era difficile, ma se i figli e i nipoti di quelli di allora sono ancora a spalare, qualcosa nella coscienza ce lo portiamo. I ragazzi di quasi 50 anni fa, una speranza l’avevano, ora questa non c’è, si deve creare. Può nascere una speranza dal fango? Sì, se una coscienza di un giorno, di una settimana, diventa una coscienza comune, se si crederà alla realtà e non alle parole, se quelli che ora sono angeli diventano uomini. Ben più terribili degli angeli, e sporchi di realtà, gli uomini. Un esercito di giovani determinati al cambiamento può cambiare la fatalità, i luoghi comuni, la protezione civile con l’aspirina, la metereologia che non c’è, l’Italia. Sono grandi gli uomini del fango.