punti di vista

Dall’alto sono una scaglia argentea di questa coda. Il rettile è fermo, persone scendono dalle auto e dai camion, ci si prepara all’attesa sotto il sole. Se continuassi a vedermi dall’alto sarei parte di un mostro sbucato dai colli, risvegliato da chissà quale cava e che ora giace assonnato sulla pianura.

La primavera si mescola agli scarichi: per non perdere utenti l’autostrada ha lasciato aperti i caselli ed adesso la bestia senza corpo occupa almeno 9 chilometri di asfalto in doppia fila. C’è uno spregio agli utenti e all’ambiente inverosimile, questi motori divorano ossigeno, tempo di lavoro, appuntamenti, affari. E sputano veleni azotati, radicali liberi, monossido di carbonio, ansia e stress. Non c’è confronto tra i pedaggi ed il danno arrecato, ma non ci sarà sanzione, solo un brontolio e qualche bestemmia, quindi non vale pensarci.

In fondo non m’importa nulla o quasi, cancello impegni, mi godo una sottile vendetta sull’autostrada e prenoto un treno per Milano. Rinuncio ad un viaggio in auto per domani, fisso un incontro. Il tempo passa, mentre guardo attorno e sonnecchio. Penso che con altre motivazioni, avrei comunque usato l’auto.  Riordino la vita, guardando ciò che ho attorno, e stamattina i colli sono un’incanto di verde e segni armonici; una bellezza nuda ed assoluta, offerta al sole. Scrivo, adesso, come qualche giorno fa sulle attese e sui semafori rossi. L’inutilità del dire è un buon insegnamento. Come gli sbagli, che in realtà non fanno apprendere davvero, ma in compenso bruciano.

Per farsene ragione, basta sapere che ciò che sei davvero passerà inosservato, che basta guardare dall’alto e sei diverso. E che mutano totalmente le possibilità se muta il modo di percepire. Ma tu resti tu, non cambi, è solo il modo di percepirti che muta.

Già.

Andando ho visto i due camion incastrati, l’auto fracassata contro il cemento, l’elisoccorso in attesa. E’ stato tre ore fa e l’autostrada non è stata chiusa, non è stata liberata, si è saturata come una vescica, gonfiandosi di auto e camion. Penso alla fatalità che mette insieme coincidenze. Alle persone coinvolte. Sembra tutto lontano, come una guerra senza sangue dove le vittime sono mute. Abbiamo vite parallele che comunicano poco, sentono poco, vedono poco. Portati dalla corrente delle necessità ci si trova oltre agli anni, oltre le attese, oltre l’aver vissuto.

Mi aspettano due ore di fermo e non lo so. Le autostrade non chiudono, incassano tutto. Attendo.

Dall’alto sono una scaglia di serpe e luccico al sole.

carnevale alla Fenice

 

Tra gli ori e le luci, gli spettatori ascoltano il comunicato del teatro. Parla di agonia delle fondazioni teatrali, di accordi disattesi, di ultimi spettacoli: morirà la Fenice e il melodramma.

Nella buca dell’orchestra, gli strumentisti ascoltano attoniti, il comunicato parla anche di loro, delle orchestre stabili, delle loro vite, della musica così come la conoscono.

Fuori c’è il carnevale, una festaccia senza capo né coda, ma necessaria alla città e a chi partecipa sotto la pioggia fredda. Fosse solo per la fatica, i disagi, la spesa, bisogna divertirsi, fare il conto delle maschere, di chi si rappresenta per farsi vedere, e di chi guarda la meraviglia, anche dove non c’è. Va bene, va tutto bene, è una festa. Chiunque trova quello che cerca, come nella vita. Non era forse questa la funzione dei carnevali, ovvero trovarsi nell’alterità che viene conculcata dal quotidiano?

Il comunicato, prosegue per ipotetiche, afferma e conclude. Il pubblico è in silenzio, non crede che la Fenice morirà, ma è serio e preoccupato. Qualcuno mormora, e sento dire: ma chi è il carnefice di tutto questo? Chissà dove vivono. Non importa. Alla fine l’applauso sgorga forte, lungo, esorcizzante.

Ed inizia la musica.

Qui dovrei fermarmi perché cambio argomento, ma i nostri pensieri non vanno forse da un capo all’altro, senza obbligo di unitarietà di tempo, luogo e spazio? Non siamo noi ovunque, con i nostri pesi, raffronti, pensieri fissi e mobili?

E così continuo, perché così è stato.

Il melodramma ha una forza incredibile. Semplice, stereotipato, banale, ma senza che lo si voglia, muove sentimenti e lacrime. In un’opera come Boheme, almeno tre carichi da asso vengono calati: la giovinezza che si conclude, l’amore e la gelosia, la voglia di libertà e la voglia di amare. Alla fine il mix di musica, contesto e parole tocca le corde sensibili e commuove. Si pensa a sé ed alla vita e c’è tutto, anche il carnevale che impazza fuori, la tragedia del reale, la sua relatività, le vite che continuano, i rimpianti. Nulla sarà mai più come prima, eppure la vita troverà nuove strade.

Si esce con la musica in testa, compartecipi e non solo spettatori. Ecco la differenza, quello che rende vera la finzione e la fa agire sulla realtà. Ci riuscirebbe con questa forza il virtuale? Il melodramma e la musica che va al cuore, vince nel bisogno di epicità nel vivere, di proiezioni lunghe, nei programmi che, come a teatro, si concordano per gli anni a venire. Il discrimine è questo: vivere nel presente ed avere un futuro.

Non morirà la fenice, rinasce dal fuoco. Infinitamente rinascerà.

 

altstadt

C’è silenzio nella città vecchia, stanotte.

Piove e non si sente rumore. I canali di pietra raccolgono l’acqua che scivola come carezza, anche le luci sono solo riflesso. Tendendo l’orecchio si sente il ritmo di un pulsare silente, è fuori ed entra, muove e riempie l’aria della stanza.

Lo conosci il pulsare del silenzio? E’ un sorso lungo di vocali aperte, mischiate con l’aria. Le e, le o, al limite del suono, una sospensione che sembra non finire, poi un scivolare  lento verso l’esterno.

Aspira. Sospendi. Fermati a lungo. Espira.

E’ il silenzio del passato, una sentina gelida di cose non fatte, occasioni buttate, domande colpevolmente uccise. Uccise perché potevano mutare comode soluzioni, consuetudini senza motivo, soddisfazioni momentanee, voli senz’ali, estasi senza futuro.

Ma non è questo. Non solo.

E’… E’ che questo silenzio sottrae, adesso preme sui vetri, guarda dentro, fa trasalire e chiudere gli occhi sotto piumini caldi di corpo e di sudore.

Sembra un silenzio senza portatori. Muto di figure vuote, che sembrano, seguono e non sono.

Fantasie!

Eppure questo silenzio consolida davanti al viso. Indaga. Si vedono le domande fondamentali: chi sono, cosa voglio, dove vado. Non ci sono più nascondigli, non una mano che possa essere stretta, il calore di un palmo, una indicazione esterna. Non ci si può sottrarre, bisogna lasciar entrare questo vortice che risucchia senza rumore, entrare in sintonia con il respiro. Aspira. Sospendi. A lungo. Espira. Man mano spariranno i pensieri, il silenzio divorerà i bordi ed avanzando spezzerà pezzi portatori di crepe. E di sé.

Ma non darà risposte. Non subito.

Bisogna lasciarsi portare oltre quello che si è, che si crede di essere, il ricordo che non si è stati.

Tutto assieme.

Tutto mescolato.


C’è silenzio nella città vecchia stanotte, le vecchie vite non parlano, la nostra vita ascolta.

Lasciarsi andare al silenzio come ad una amante accogliente, severa ed amorosa, gelosa del futuro, conscia del passato.

Il tempo non conta, non c’è rimpianto, né attesa, la coscienza si svuota di consuetudine, l’abbandono.

 


la solitudine dell’opera d’arte

L’opera d’arte è spesso sola. Nei musei, nelle case dopo l’investimento emozionante, nei giardini o sui muri delle città, il prodotto del sentire, del vedere, del percepire diviene muto.

L’opera d’arte comunica per sensazione, si alimenta di sguardi interroganti.  Ma vive e muore nella sua immortalità, perché spesso l’immortalità pospone, genera indifferenza al sentire qui ed ora, diviene numero prima che testo, rimando a favore di altro. Tanto l’opera si potrà ritrovare quando ci sarà tempo, attenzione diversa, non scappa. Capisco i pre raffaelliti, il dipingere su biacca con colori che si decomponevano,  l’introdurre la caducità come elemento fondante del parlarsi, perché il deteriorarsi è mutevolezza, necessità di non rimandare.

C’è troppo di tutto e in questa bulimia è solo l’urgenza che comanda. E se invece fosse il sentire, non il numero che conta? Il sapere che non ci sarà un’altra volta perché dopo sarebbe diverso? Il raccontare il marginale perché dell’eccellenza parlano tutti?

 

 

L’opera è di Fontana, il museo è il Mart di Rovereto, la mostra principale in corso  -non me ne voglia Botta o l’arte concettuale-  è sulla scultura di Modigliani. Mostra che vi consiglio davvero. Le opere delle altre sale soffrono della compresenza di troppa attrazione dei nomi, delle cifre dell’ultima asta, dell’esserci oltre il tempo delle altre opere a prestito. E lo sguardo distratto è dietro l’angolo.

laguna d’inverno

 

Ieri mattina c’era un sole pretenzioso, corretto dall’ombra e da qualche lama di vento gelido, ma al mare si stava bene. La val Lusenzo è valle di laguna, acqua e case, incastonate tra Chioggia e Sottomarina. Si cammina su un percorso vicino alle barche, attraccate ovunque. Barche da diporto, barche da lavoro, pescherecci immersi in una atmosfera da città che lavora. Gli alberghi vuoti sono sul lungomare, qui c’è vita tutto l’anno. Non ci sono turisti, e ieri le persone si godevano i percorsi semifestivi. E’ impressionante la quantità di bar, tutti vicini, tutti pieni che si contano lungo il corso. Le città di mare d’inverno hanno un fascino almeno pari alla solitudine della spiaggia, da un lato la vita pullula, dall’altro si cammina su montagne di alghe, alberi e plastica, pesci morti, scarti di civiltà. Due giorni fa una mareggiata s’è portata via 450 mt. di spiaggia e dune, gli albergatori protestano sui giornali. Contro chi? Come fosse possibile chiedere alla natura di seguire le nostre regole economiche, le stagioni turistiche, gli scempi ambientali senza pagare il conto. Qui la sabbia è stata portata e tolta dal mare, in un ritmo paziente, incessante che costruisce e ridisegna la costa, è come se il mare fosse un architetto scontento che fa un passo indietro, guarda e poi modifica il suo lavoro. E’ così da sempre. Ma la protesta contro il mare non è da tutti, è cosa da marinanti, ex ortolani che si sono trasformati in albergatori negli anni ’50, i pescatori scuotono il capo, sorridono, hanno continuato a fare il loro mestiere. Rispettano il mare, ne conoscono il temperamento, sanno che sembra prevedibile, ma li sorprenderà sempre e non bastano le radio, il satellite, gli eco-scandagli per essere amici, bisogna conformarsi al mare, assecondarlo, seguire il corso dell’onda. E le onde dicono tutto del mare, descrivono il suo pensare, mobile, possente,  quasi sempre dolce, solo a volte irato per furie sue.

Percorrendo la valle, il rumore di fondo è il suono dell’onda, delle sartie delle barche, il respiro quieto dell’animale che dorme in laguna. Poi, oltre la sabbia e il forte, si arriva al mare aperto, alla diga. Il rumore sale, c’è folla quasi come d’estate. Ragazzi, anziani, reti che vengono sollevate dai capanni di pesca, vuote di pesce, e piene d’interesse per i gabbiani. Altri gabbiani rincorrono i pescherecci che rientrano, molti aspettano sulle bitte, sulle bricole pronti nel loro ruolo di iene di mare, a mangiare il buono ed il guasto. In fondo, al faro, una fila di anziani chiaccherano al sole. La cantilena la conosco, ogni tanto si imita per ridere, ma è cosa loro, solo loro. Ben diversa dal veneziano, è ricca di termini da barca, da mare, da vento, è lingua di popolo. Goldoni ne faceva uso per staccare due popoli confinanti e diversi, l’uno sanguigno, godereccio, povero e fiero, l’altro conscio del declino di Venezia, aristocratico, estenuato dal lunghissimo potere esercitato.

E’ rimasto poco d’una cultura millenaria, vive ancora nei gesti dei pescatori, nelle abitudini ripetute senza intenzione, nella passeggiata sul corso la sera, negli ori ostentati nei bar, come fanno gli zingari, nella parlata fatta di vocali grosse e musicali. Non c’è da rimpiangere nulla della povertà senza limite d’allora, del freddo, delle case inondate dall’acqua delle maree, ma forse è mancata una direzione al nuovo, un recinto in cui mettere il pensiero buono e vero di sé, di come ci si vede e non di ciò che si ha. Il percorso della valle ha rive importanti, porfido e marmo senza economia, panchine stranamente integre, un sentore da fondi europei, perché è un percorso ricco, bello per ciò che si vede e si sente. Ma la cultura attuale è scritta sul marmo: 6 il mio amore da un anno e non finisce, tu x me x sempre, mai sorelle ci amiamo ora nel mondo, cinzia 6 mia x sempre, ecc.ecc.  Si mescola l’amore con l’eternità, le paure che un tempo avrebbero provocato sofferenze ed ostracismi sono esibite, esorcizzate. Il mare con il salso farà sbiadire l’indelebile, come sbiadiranno tutte queste storie, è la vita, ma non è ancora cultura di qua. Chissà cosa resterà tra 100 anni di questi luoghi. Di sicuro ci sarà il mare, quello che è a rischio sono gli uomini che erano in grado di parlargli e di ascoltarlo. 

 

Carlo Michelstaedter

 

“L’assoluto non l’ho mai conosciuto, ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce.”

Carlo Michelstaedter

Se passate per Gorizia, oltre a godervi la città, assolutamente mitteleuropea in questo periodo, passate alla Fondazione Cassa di Risparmio, c’è una mostra sulla vita di Carlo Michelstaedter. Ne vale la pena per ri scoprire un giovane senza tempo che pensava in greco antico, ragionava e viveva nel presente, sentiva l’Italia come patria e non cessava di essere tedesco e giuliano assieme.

si, viaggiare

Viaggio sempre più spesso da solo. Non mi pesa, devo solo regolare i tempi con la stanchezza. Stanotte ero tra i monti della Barbagia: ho incontrato 4 auto in 70 chilometri. Il viaggio era iniziato con un’ immersione nei verdi e nei marroni d’autunno, masse di colore nella luce diffusa del pomeriggio; si respirava una solitudine da assenza, come se l’uomo se ne fosse andato da poco. Al ritorno, il bujo senza luci rendeva i volumi delle rocce e degli alberi, compatti, l’auto seguiva la strada e i suoi fari, era semplice: bastava lasciare che si accordassero pensieri e guida. C’è equilibrio in questo assecondare movimenti e pensieri, la malinconia o l’allegria scompaiono, basta non opporsi ed il ritmo trova l’ accordo. Apprendere la morbidezza che abbiamo e la guida diventa un dettaglio, le emozioni covano quiete. Non mi sento solo in questo andare, magari un po’ orso, mi da fastidio quando mi viene imposto ciò che non cerco, non le mie scelte. Almeno non sempre. Segno degli anni. Ma forse è conseguenza del distacco consapevole  tra ciò che si può essere e ciò che abbiamo lasciato da parte in attesa. Si riordina la vita, la misura cambia, anche il bisogno d’essere assieme.

Le curve, il lago, la notte densa. Guardo. Ad ogni scollinamento, paesi si stagliano sullo sfondo: Macomer, Nuoro, frazioni, casolari, macchie di luci a mezza collina. Ma è la litania musicale dei nomi dei paesi che attraverso che mi risuona come un mantra: Ottana, Orzai, Tiana, Ovodda, Ollolai, Teti, Austis. Nel pomeriggio coglievo i resti di costruzioni, qualche nuraghe. Dopo un attimo geologico le pietre tornano ad essere pietre: quelle accatastate dall’uomo si confondono con quelle  spinte dall’immane cozzo dei continenti e giacciono accanto, frantumate dalle sequenze di sole, pioggia, gelo. Tutto acquista un posto, una ragione, ed è buffo pensare che non c’è senso, solo continuità.

Guido e passo accanto al campo della tosse, non gioca nessuno, solo caldo e qualche folata di scirocco. E’ sera ormai. Le finestre cominciano ad accendersi, sono ancora aperte, la notte le farà chiudere. Se mi fermassi sentirei il profumo di minestra, ma sarebbe lasciare entrare il mare del vissuto nella diga del presente. Seguire la strada, accordare i pensieri: non c’è nulla che si ripeta, non c’è nulla da ripetere. Ogni volta è nuovo, ogni volta il presente manifesta i suoi diritti sul passato e confina la solitudine. Già. La solitudine è il passato che prende alla gola il presente. Una rissa di tempo in cui si soccombe. Basta accordare i pensieri e la guida. La strada, le curve, sinistra, destra, sinistra. Come un ballo. Canticchio ad alta voce, seguo un pensiero, la strada, guardo, sorrido, guido.

 


 


pomerania

 

E’ bionda come solo i popoli del nord-est sanno esserlo, i polacchi e i russi in particolare. Ha una coroncina di fiori in testa, intorno le autorità, nel corteo verso la chiesa. La banda suona durante la messa, e davanti all’altare, addobbato con fasci di spighe, ci sono i dolci, il pane, i fiori, le messi da benedire. E lei. Riti arcaici, inglobati nel cristianesimo, rimasti oltre ai popoli, quasi prescindessero dall’uomo. Perché sarebbe così, e lo sappiamo, le estati avrebbero comunque colori, fiori e frutti, anche senza i nostri occhi. Forse questo riconoscono le biologie sociali dei riti arcaici, che le religioni rispettano e li sentono precederle nel rispondere ai bisogni ancestrali dell’uomo: il cibo, la riproduzione, l’amore, la prosperità, la continuità del ciclo del tempo che non deve finire. Avere tempo, come continuità superiore e connessa alla vita di ognuno ed il ripetersi delle stagioni, delle attese positive, è questa continuità proiettata oltre il giorno. Qui si sono alternati i tedeschi, i polacchi, i danesi, gli svedesi, di nuovo i tedeschi e i polacchi. Nessuno di loro sapeva bene chi era davvero, le famiglie si mescolavano, il biondo dei capelli screziava e il bianco della pelle scuriva. Neppure i nazisti erano ben sicuri delle ascendenze e, se potevano, sorvolavano. E i riti, più forti delle stragi, venivano ripetuti: le messi, i pesci, il pane, i fiori. Tutto benedetto ed asperso e condiviso con  la donna giovane a testimoniare il rito di fecondità.

Anche il nome di queste terre evoca suoni antichi: Pomerania. Il Baltico, le foreste immense, l’Oder, la sabbia grossa, le lagune, la pioggia a folate ed il sole a seguire. Qui gli uomini baciano la mano alle donne e stringono forte quella dei maschi. I ragazzi si ammucchiano negli angoli delle feste, tra birra, zuppe di patate e pesce affumicato. Il sindaco del paese, in maglietta sotto la pioggia, serve in tavola, balla, canta e ride tra la gente, non c’è potere, la  prosperità è di tutti.

Nowe Warpno, Dobra, Police, il fiume, la foresta che entra in città, arrivare a Stettino. Il suono italiano della parola fa ritornare ai libri di storia, al rumore degli stivali chiodati, al fumo delle navi e della pece. Il nome polacco è uno scioglilingua, ma venendo dalla Germania, come d’incanto, la frenesia d’occidente si attenua, i parchi sono pieni di mamme giovani e coppie di ragazzi, è come se l’europa avesse rallentato e pensasse a quanto sta accadendo, al senso della corsa. I caffè sono pieni di parole, di gesti senza fretta. Tra poco il sole accorcerà il tramonto e le notti saranno più fredde e luminose. Appena fuori la foresta è immane, perdersi sarebbe letale e pur ad un passo da un media center, ci si accorge che si è smarrita la gestione dei pericoli, e che non erano tali, in evi ancora vicini. Da qui si può tornare a Berlino, a Lubecca, a Vilnius, a Varsavia oppure mettere la prua al Baltico. Un bolognese, a Dobra, m’ha detto: son venuto qui, seguendo una donna. L’ho pure sposata. Si può andare, restare. Io sono rimasto. Dipende dall’inquietudine. E l’ha detto con quella cadenza emiliana che un polacco non potrà mai capire, ma che si sentiva, aveva tolto la nostalgia.

meriggio

” m’avevano parlato del suo sorriso. Ero venuto per quello.”

La luce si gonfia oltre le colonne, preme sulle vetrate aperte sulla piazza, sui passi lenti del mezzogiorno. 

E’ minuta, gentile e lo smoking nero è ancora più scuro sul bianco dei denti.

Un gioco di cortesie, prima d’ordinare, esserci e non, per dialogare tra sé e trovare un aggancio con la realtà.

E il sorriso è davvero bello, da bambina cresciuta, con gli occhi che partecipano divertiti.

E’ lavoro, avrà pensato, questo signore vestito di lino, è inoffensivo. E’ meriggio, e ricordo le poesie sul meriggio, ma qui è Milano, non c’è campagna ed anche i poeti sono da tempo, in difficoltà.

Dovrei dirle che non penso a lei, che la testa è altrove, che il cibo è eccellente, ma non m’importa molto.

Dopo il caffè doppio, ringrazio: il sorriso è un mezzo che porta al parlar d’altro.

La prossima a chissà.

 

la marca gioiosa

 

 

Ho visto due mostre molto belle nella marca che fu gioiosa ed una villa del Palladio, con la campagna di terra rossa, intorno che mostrava senza ritegno la peluria verde nuova.

Svergognata!

Ho visto persone che compitavano didascalie, senza guardare i quadri e si perdevano anche le pietre antiche, così inutili senza sguardi.

Da un vaso Ming ho trascritto l’ideogramma della longevità, cercando d’interpretare l’assonanza con quanto conosco.  Ci si mette poco a capire che per pensare cinese forse non basta mezza vita, ma Matteo Ricci l’aveva detto. Lui che c’era riuscito. Bastava leggere le didascalie!

Nell’ignoranza solo i sensi salvano.

Le mostre affaticano per troppa bellezza, ma sono state onde di pace nel nervosismo dei giorni indecisi: le feste. Per chi procede a sinusoidi, apprezzare assieme, ciò che si vede dentro e fuori, è un cavallo difficile da governare.  Infastidisce, infatti, cogliere l’andare senza senso. I gesti ripetuti, gli eccessi per mostrare d’esserci, l’ alzar la voce, e spacciare l’ordinario per inconsueto. Ma non era giudizio, solo fastidio per il rumore di fondo.

O quante cose qui

tacendo passo,

che mi stan chiuse al cor

si dolcemente…

Le Asolane. Pietro Bembo

Questo diceva il vivere che mi veniva raccontato e contrastava, pur evitando gli scempi del benessere acefalo, con quanto c’era attorno: perchè ci accade ciò?

Per questo mi taccio, osservando quello che non parla, non si muove, eppur respira dentro.

Domani si vola in Puglia, un po’ di realtà farà bene.