il vero e il falso della terra promessa e non mantenuta

Una terra maledetta da dio

è una terra che non ha pace,

che affama e uccide i suoi figli,

che ospita l’ingiustizia

e la fa regola di parte,

che impedisce l’amore

tra uomo e donna diversi,

che abbatte le case, uccide

gli uomini nei campi,

e c’è una maledizione particolare nel morire

tra il grano,

perché è la morte in una guerra che non finisce.

C’è una maledizione particolare nel morire

andando a scuola,

perché il caso si veste con l’odore del pane fresco.

C’è una maledizione particolare nel vivere

in un campo profughi per sempre

perché la speranza si scioglie nel fango della pioggia.

Una terra maledetta da dio,

dev’essere tolta a dio

e riconsegnata all’uomo,

solo così l’umanità potrà farsi strada

e il bene avere una ragione.

 

Friburgo i.b.

Le spinte, i pilastri con le volute d’arenaria rossa scolpita, il sesto acuto degli archi, l’organo.

A chi piace il suono e la musica dell’organo, adesso? Eppure nell’organo barocco, c’è una fatica fisica ed un senso dell’assieme che solo il pop ed il rock possono capire. Senso di dominio delle menti e degli spazi, dialogo con i volumi. Si diffonde a ondate nella navata. Pedale, ripieno, tre tastiere che si incrociano, cambiano registri. Femmineo a tratti, merletto, maschio, furibondo, cosciente, si quieta, riparte. Il senso tattile del suono. Chiudo gli occhi, ascolto.

Fuori c’è mercato. Markt platz, fiori, frutta, miele, artigianato di legno e paglia, tisane, chioschi di wüstel e salsicce. Vista la quantità di bratwürst, senape, molta e colante, maionese, polpette e birra che si spaccia, che ci faranno con tutte queste tisane? Birra fresca, non pastorizzata, piena di fermenti, si combina con il profumo dell’aria, scende a grossi sorsi, fa scordare che è prima mattina.

Icona della Germania, il chiosco dei wûstel, gusto rude, nessun rispetto per la logica del nutrirsi, solo gusto, piacere che schizza dalle papille al cervello. Ipotalamo in festa, poi di quel che scende, che sarà, sarà. Non è così forse, per ogni piacere che non sia intellettuale? Un altrove animale, fatto di acuzia ed elaborazione automatica. Con rutto finale. L’ordine nel disordine ed il suo contrario, come fosse tutto reversibile. Non è reversibile, nulla è reversibile. Si vede nelle pance.

Appena attorno l’impressione linda degli uffici, dei negozi, la precisione dell’essere pubblico, immagine incollata sullo specchio della società, che provoca l’affollarsi ordinato. Educa. Penso agli stranieri, a me che frequento questi posti e mi adeguo. Le regole ed il luogo mi educano. Non faccio il furbo con il parcheggio, attendo il cameriere che so che arriva, mi metto al mio posto. Chi abita in questi posti, non importa da dove venga, è soverchiato, educato dalle regole non scritte e rispettate, più che dalle leggi. Non si integra in casa? Non importa, fuori si sottomette. Non c’è nulla di male nella libera sottomissione, si può trasgredire, ma si sa che la sanzione sociale arriverà.

La città nel ’45, era rasa al suolo, rispettata solo la torre campanaria ed alcuni edifici della piazza, il resto macerie. E’ stato riedificato tutto quello che era importante, ricostruite le vetrate al piombo nei palazzi e nelle chiese, introdotto il nuovo che sembrava utile. La seconda guerra mondiale ha distrutto in tre anni, ovvero tedeschi, americani, russi, inglesi, francesi, hanno distrutto, più di quello, che quattro secoli di invasioni barbariche e guerre, siano riuscite a distruggere. La rinascita ha portato nuove ricchezze, speculazione. Anche qui, il brutto si è fatto strada con edifici pretenziosi. Spesso banali. I segni sono diventati anonimi in tempi brevi. La vera svolta è avvenuta 20 anni fa, quando il governo federale decise di costruire una centrale nucleare vicina alla città. Ci fu la rivolta ordinata, ma non pacifica, dei cittadini. La vittoria e poi la scelta delle energie rinnovabili, la mobilitazione di un territorio, il cambio della cultura del buttare l’energia. Da quel momento il territorio, uso questa parola globale che è fatta di cittadini, animali, piante, economia, orienta, condiziona, controlla le politiche degli amministratori, pronto a cambiarli se non rispettano i patti. Da 8 anni un sindaco giovane, un grünen, un verde, governa la città. Anche il governatore del Land, siamo nel Baden Wuttemberg, da quest’anno, è un grünen. Questo Land per 50 anni è stato un feudo CDU, il partito del Cancelliere. E’ il segno di una direzione del benessere, non della direzione, è una possibilità. Qui di benessere ce n’è molto e l’affare della crescita compatibile è stato fiutato per tempo, adesso procede per suo conto, tra ricerca, produzione, commercio.

L’organo procede per ripieni. Lo suona una ragazza. Avrà poco più di 20 anni. Il volume sonoro cresce, emoziona, riempie. In città c’è un conservatorio importante, e la terza università della Germania, la nona d’Europa. Fuori una bambina di 8/9 anni suona compunta la tromba, pezzi discretamente complessi, raccoglie i soldi per acquistare la sua bicicletta. L’arte, a volte, fa guadagnare subito.

Questa è una città di 200.000 mila abitanti, poca cosa rispetto alle megalopoli che stanno crescendo altrove. Anche in Germania. Sembra ancora più piccola. Nella crescita si è scelto un modello estensivo e contenuto in altezza. L’agricoltura è importante e rispettata. Negli ultimi anni i nuovi quartieri, due, sono stati fatti in linea con la scelta energetica della città: sono a basso consumo ed autosufficienti. Ricchi di parchi, di tetti in erba, di case passive, con una presenza anomala di bici e ciclisti. Qui la bici è un mezzo vero di trasporto, prepotente nelle sue piste ciclabili, considerate regni invalicabili. Chi sceglie di non avere l’auto, riceve un congruo contributo mensile dal comune per lo spostamento con i mezzi pubblici.  Beauburg, Vauban, i due nuovi quartieri, hanno spopolato il centro,  e il comune ha dovuto incentivare la presenza delle persone nella città perché il verde e i servizi portano verso i quartieri periferici.

Il console italiano mi diceva tempo fa, che si impiega tempo a sopportare i ciclisti, a considerare che bagnarsi con la pioggia non è una tragedia, che risparmiare energia ed acqua sembra inutile, ma poi diventa un’abitudine e che quando si torna sembra strano che già non si faccia ovunque. In fondo serve poco.

Fuori il mercato continua, nel duomo è fresco. Non tutto va bene da queste parti, è un altro modo di vivere. Un modo possibile, magari non mi andrebbe mai bene, però trovare la maniera di utilizzare esperienze e poi innovarle secondo lo spirito, la cultura del posto in cui si vive, sarebbe una riduzione dello spreco dei tentativi a vuoto.

 p.s. a proposito di biciclette, energia, alternative non possiamo dire di non sapere:

distanze e domande

Quattro giorni fa il ministro Turco dell’economia, ha fatto una dichiarazione il cui senso è: per noi turchi, adesso, è meglio non essere nell’euro. Ricordate le polemiche sulla Turchia in Europa?  Tra due anni dovremo andare a chiedergli il favore di entrare, non quello di sottostare a tutte le condizioni, più o meno, ricattatorie ed emarginanti che a suo tempo gli sono state dettate.

In Ungheria, paese membro, un leader e una politica di destra, sta licenziando giornalisti (alla fine dell’epurazione, saranno oltre mille su tremila), non allineati con la politica del governo. Lo stesso sta accadendo per tutti i posti importanti dell’amministrazione statale. E’ una democrazia che ha eletto i suoi rappresentanti, che farà l’Europa davanti a leggi liberticide e discriminatorie? Agnes Heller ha lanciato un appello agli europei, chi lo raccoglierà?

Il cancelliere tedesco ed il presidente francese, ieri si sono incontrati e hanno dettato le regole per la politica economica, per l’allineamento delle costituzioni nazionali sul debito, per i tempi sugli eurobond. Tutte cose giuste decise da due teste. Il presidente dell’unione Europea e i commissari abbozzano, dicendo che ora prevale la politica. Significa che non governano loro le poche, vere, politiche comunitarie. Cosa significa?

Da distante l’Italia sembra banale e poco interessante, il premier, come la madonna, nelle immaginette, gronda sangue, gli evasori e i furbi non si preoccupano. Per 6 giorni sul Daily New, edizione turca, non c’era una notizia sulla politica italiana, solo il ricorso della Juventus sullo scudetto del 2006, è stata considerata notevole. Devo dire che da distante, anche a me sembra tutto ridimensionato, capisco chi se ne va e le sue urgenze mutate. Ne parlavo con gli amici all’estero da anni, qui impegnati, ma da lì sembra tutto così scontato…Il Paese è un pesce preso e portato a riva: si dibatte lontano dal mare, interessa poco al pescatore, che pensa già ad altro. Che significa tutto questo sulla dimensione dei nostri problemi?

Rifletto, infine, che essendo un contribuente ligio, il governo ha deciso di farmi contribuire di più, ben oltre il 42% che già pago, incrocio la notizia con il debito pro capite: anche a quello sto dando molto. Non sono fortunato, sono un contribuente che fa il suo dovere. Ma qual’è il mio dovere, oltre a pagare?

Domani vado in Germania, mi farò dire, che fare da chi comanda davvero.


sensazioni


Per ora sono solo sensazioni. Cose impalpabili che trovano dimostrazione in rumori, immagini, odori, sapori. Il tutto mescolato e tattile, dove prevale, a volte l’una, a volte l’altra, sensazione, e questa cangia, si spezzetta, attira l’attenzione su un particolare, che emerge in attesa che un altro prenda il suo posto. Frames collegati dal filo della sensazione. Per 5 giorni sono stato una spugna e Istanbul mi ha saturato. 

La sensazione generale  è quella della vita e del suo ribollire, un lievito che viene dalle persone,  dalle pietre, dalle strade, dai locali, dal commercio del tutto ovunque, dal fumo, dal thé, dai muezzin, che si parlano dai minareti 5 volte al giorno, dall’immenso fiume d’uomini che inonda le vie, le piazze, si siede nella notte, affolla i locali per mangiare fino notte fonda, che gioca a back gammon e suona strumenti che ricordano liuti e banjo, balla al suono di clarino e percussioni. E ti accorgi che sei occidentale perché le movenze sono fluide, mosse da un vento, che accompagna il ventre e i fianchi delle donne. Il bacino ruota con una sensualità sconosciuta ed armonica, comunica, e la ragazza che è scesa in pista, forse olandese o tedesca, è rigida, muta, in una comunicazione in cui si parlano corpi che sanno.

Sensazioni da non rimettere in ordine. Flusso. Il contenitore è la vita che ribolle, il parlare fitto, la strada come casa, la gentilezza inusuale, la curiosità lieve di chi ha visto molto. La vita ha un sapore antico ed una aspettativa indefinita, una direzione che è crescita. Cosa attende il giovane cameriere che invita a scegliere il suo locale rispetto a quello a fianco, e non insiste oltre misura, a cosa mirerà la sua vita oltre al cibo assicurato. E le ragazze dalle donne strette e camicetta che si muovono tra uffici e strade, e i giovani in giacca e cravatta con le borse di pelle, così simili ai loro coetanei d’occidente e così diversi al bar dove sorseggiano thé nero, e i venditori di pannocchie arrostite, i commessi che lavorano fino a mezzanotte, i ragazzi che affollano le tante università, cosa attendono? Dove stanno andando? Perché da qualche parte, con volontà e decisione, vanno.

Sensazioni di una giovinezza diffusa, che non è scalfita da tutte le variazioni di velature delle donne, dai vestiti informi, stretti ed abbottonati fino ai piedi, dai gruppi di vesti nere svolazzanti, piccolo gregge con i soli occhi in vista, dietro un uomo in maniche corte, dai pastrani, nocciola e grigi, sotto il cielo di agosto, dai fazzoletti in testa, alti di acconciature posticce, dalle camicie di zingare, ampie e nere, a pallini, su gonne larghissime, sovrapposte ai corpi abbondanti e sicuri, dalla folla di maschi che passano dal turbante ai capelli cortissimi, dai jeans alle palandrane. Sensazioni di giovinezza nel colore che dal grigio si mosaica sulle spalle scoperte, sui jeans, sulle gonne corte, sugli abiti coloratissimi che osano oltre l’osabile. Questo luogo è un punto in cui la vita attira, promette, cambia le idee, pone domande. E dà risposte. Non le mie, altre, ma qui ci sono risposte.

Sensazioni, non riordino, ho ancora la percezione tattile dell’ hamam, sono una spugna, c’è tempo.

urbanità

Salendo verso i viali di villa Celimontana, i marmi slabbrati, gli immensi cumoli di laterizi, che sin dall’epoca imperiale hanno fatto sfogare la mania di costruire ville, case, mausolei, templi e poi chiese, palazzi di cardinali e di nipoti di papi, circhi e mercati e acquedotti e fontane e di nuovo chiese e case, sono meno invadenti. Accompagnano.

Nella villa ha sede la Società geografica italiana, dalla balconata si vedono giardini, la fontana con un Nettuno ironico per la mancanza di zampillo, ma soprattutto il cielo. Il cielo di Roma ha un’ampiezza particolare, è grande. Come se la città si rovesciasse verso l’alto, ma solo nel contenuto dei desideri degli uomini, mentre i palazzi, le chiese, le case e le strade stessero a guardare, apprensive di quella libertà e continuassero a richiamare quei bimbi riottosi, scendi, scendii, per ricongiungere il vivere, adesso sospeso in aria. I desideri si fanno nubi e cielo e, a volte, piovono sugli uomini, nascondono il sole, rendono l’aria spessa, ma oggi il cielo ha una dimensione così ampia che s’allarga ancora a contenere nubi possenti. Leggerezza e mutevolezza dei contorni spinti dal vento, sembrano suggerire l’essenza del vivere, a noi, che c’accontentiamo di guardare prima d’essere.

I pini seguono i viali del giardino, si spargono e coprono d’ombra, erba e panchine, e ghiaino. Poco prima, davanti alla basilica dei santi Giovanni e Paolo, un matrimonio affollava la piazzetta. Per il colore degli abiti, per le mise un po’ sopra tono, per il formarsi indeciso dei gruppi, per l’attesa d’entrare, per la chiesa equamente spartita tra i sodali della sposa a sinistra e quelli dello sposo a destra, i viali  di villa Celimontana sarebbero stati, invece, la cornice ideale. Con i bambini vestiti di bianco ad additare, ridendo, i papagallini verdi persi tra i rami e poi subito a correre tra i pini, con le donne colorate a far capannelli da sciogliere e riformare, nei gorghi di parole, e risate e commenti a mezza voce, con gli uomini in disparte, a commentare e fumare. Sciami che si separano e riformano come gli storni che si muovono sopra la città e di colpo scendono, si posano, liberando il cielo e riempiendo i lecci, di corpi leggeri, di frastuono di voci, di sterco. E poi nuovamente s’alzano alla prima minaccia o voglia, per riformare la nube, e disegnano figure in cielo e, pur bassi rispetto alle nubi vere, affascinano ed attirano sguardi e commenti di uomini che vanno. Vanno verso treni, case, alberghi e non par loro vero, d’occuparsi d’altro che li tolga dall’utilità che li accompagna e pesa. Così all’infinito.

La città si merita tutto questo, è stata accumulata di presenze, è stata risuonata di voci, canti, spazi e sfottò. E’ stata riempita di templi, vuotata di dei, ripopolata di chiese, acquedotti, potenza, rovina, indifferenza, case e bisogni. Perché non dovrebbe meritarsi di essere un luogo in cui l’essere assieme è libertà, fatto vitale e non occasione? Cos’ha in meno delle città, altrimenti antiche, che ribollono d’umanità, in Africa ed oriente, che si punteggiano di caffè, case e giardini, miserie e ricchezze riempite di uomini che non le hanno costruite? Quello che mi fa accettare Roma, per me provinciale, non è la cristianità e il divino spalmati sulla città, ma l’arroganza di chi, indefessamente, ha costruito per magnificare sé attraverso la divinità, ostentando un’umiltà che non esisteva.

A fianco della basilica dei santi Giovanni e Paolo, ci sono le parti del tempio di Claudio al Celio. Su queste e su una villa è stata costruita la chiesa, e poi case, e sopra ancora una casa e un campanile. E quelle vecchie colonne, e pilastri, e travi, messe per altri dei, sono state chiamate a sopportare il peso di tutto questo nuovo credere e sapere, che dilagava nella città. In una nuova funzione, in un riciclo dove il credere si sposta, ma resta come bisogno da soddisfare, guidare, accogliere. Non per tutti, ma resta.

Nessuno degli invitati sembra interessato all’androne galleria che si apre a fianco del campanile e mostra i resti del tempio, neppure al busto di un prelato, posto su una colonnina a prestito sono interessati. Anzi un’auto gli era stata parcheggiata davanti, cosicchè il prelato guarda il retro della macchina. La pietra non si sconsola, e neppure il prelato, solo gli uomini, a volte, pensano che ci sia un posto, e un luogo, per tutto e non la confusione che mescola persone, effigi, funzioni, passato ed attesa di felicità future. Tutto buttato in un melting pot, una pentola ribollente, dove il momento si scioglie senza traccia, neppure quello che si celebra, dura, e tutto confluisce in un brodo che fa dire: è stata una bella giornata, hai visto chi c’era, era buono, stavo bene, il più bel giorno della mia vita, bella cerimonia, che stanchezza. Voci e pensieri che si sovrappongono e si confondono in un brontolio di presente scontato, dove si sa quasi tutto. Per questo mi sarebbe piaciuto vederli nei viali di villa Celimontana, con i vestiti corallo, grigi, rossi, bianchi e tutti i colori che queste occasioni richiedono quando si deve essere un po’ più di quello che si è. Ed è una spesa che deve trovare soddisfazione. Ma l’occhio attento guarda il colore delle scarpe, si accorge del risparmio, giudica l’altezza del tacco e l’abbinamento della sciarpa e poi scivola sugli uomini e coglie l’abbinamento camicia, cravatta, giacca, si accorge del tamarro in agguato ed allora sorveglierà il tono della voce, guarderà ancora, ma con tenerezza, come si dispongono in chiesa. E si allungherà per cogliere il commento per la disposizione sui banchi infiorati di bianco, con i cuscini bianchi e il sacrestano, pure vestito di bianco, finché si fermerà, convinto, che l’aria e i pini sarebbero stati il posto migliore.

Ma perché siete venuti in questa chiesa, non è neppure bella, l’hanno rifatta e ancora rifatta, la parte migliore è fuori e vi avete parcheggiato le macchine.

Il cielo è azzurro, c’è aria calda, ma all’ombra rinfresca. Sotto i pini di villa Celimontana corrono cani e bambini, qualcuno si stende sull’erba, la fontanella butta acqua. Se si chiude la bocca del leone che fa da cannella, si beve acqua fresca, dallo zampillo del naso. 

E’ caldo e fresco, come dentro la palazzina della Società geografica, dove s’ annidano carte ed esploratori italiani, qualche storia d’amore africana, passaggi in Asia e nelle Americhe. Hanno camminato, scritto, imparato, tracciato mappe, raccontato e sono tornati.

Fuori è pomeriggio , il sole splende sopra i pini, la città vortica. Più sotto il matrimonio procede. Le voci sono una sensazione, un flusso. Solo gli uomini accumulano anche ciò che non è stato.

scontrino

Dal grande giacimento, o discarica come dicono gli amici, della mia casa, emergono due piccole ceramiche incartate. Un biglietto precisa il luogo di produzione: Szczecin. Lo ricordo: era un negozio ad alto rischio di disastro, con ceramiche in pile e scaffali pieni di tejere, piatti, piattini. La giornata piovosa a tratti, indecisa se sfolgorare di sole, come sa fare il clima continentale, oppure virare verso il diluvio, aiutava a permanere. L’impressione era quella di una vecchia europa, dove negozianti tedeschi, non solo ebrei, accumulavano piccole rendite di posizione, scrivevano su grandi quaderni, consunti ai bordi, le giacenze di magazzino, ed annotavano prezzi, diligentemente aggiornati con l’inflazione. 

Molti oggetti carini in vetrina, leziosità per piccoli clienti. Dentro, un piccolo bazar che puntava sulla manifattura locale. Alcune ceramiche erano davvero belle, senza la delicatezza di Maissen o la trasparenza cinese, ma i colori pastello facevano allegria. Rimandavano al thé del pomeriggio, le chiacchere d’apparenza, i biscottini al burro. Lattiere e caffettiere per la colazione del mattino. Cose intime, familiari, giuste per l’uso e per fare casa con decoro e affetto. Adatte a scelte che sarebbero durate, immaginando una robustezza inesistente, surrogata dalla cura. Come tutte le specie di bene.

Mi tornava a mente l’Utz di Chatwin, che descrive una passione, eccessiva come ogni passione, ma che fa emergere la presenza della cultura locale al bello domestico, quasi un odore di intelligenza aristocratica e vitale da chiudere in stanze tappezzate di legno di quercia. Ma oltre Utz, pensavo ai giorni di prima, quelli ante guerra, con vetrine a riquadri e luci gialle. Ed a quelli di adesso, così veloci da imporre altre luci, abitudini e minore attenzione.

Perché quelle due tazzine, siano rimaste e non regalate, non lo ricordo. Forse le avevo destinate a me. Adesso si mostrano, vicino a altri reperti di vita, di cui conservo luogo e ricordo. La differenza tra archivio e discarica è solo questa: nel primo le cose hanno un nome e un pensiero incollato.

tutta mia la città

Vibra la notte, con soffice  rumore, fresco di bujo. 

Nel tardo pomeriggio uno scroscio d’acqua, allegro come sanno i temporali d’estate.

Poi, immemore, il caldo si è levato dall’asfalto, dai muri arroventati, dalle pietre.

Indeciso ha aggredito, prendendo coraggio man mano gli uomini toglievano abiti.

Ha seduto ai tavolini dei bar, allungato le gambe, alzato bicchieri. I tragitti si sono allargati in cerchi che non volevano tornare nelle case.

D’inverno si salta da un luogo all’altro, i percorsi sono lineari, brevi, si cerca la luce un po’ gialla e il tepore delle cucine dell’infanzia.

L’estate rende amica la notte, morbida di tepore e fresco, attiva il desiderio della luce che scema.

Anche il giorno s’ adagia nella notte, aspetta voglioso di carezze.

intorno una somma di parole, di sorrisi, promesse, delusioni, attese, abitudini, speranze si sono scambiate, stasera, sull’ orlo della notte.

Quante mani si sono toccate, quanti pensieri si sono assentati, quanto tempo si è fermato, e quanto è scorso via veloce?

Da un’ angolo l’ombra ha cominciato a crescere, una ragazza con una maglietta e calzoncini arancio ha iniziato a correre.

L’ i- pod fluisce musica, sull’aria che ondeggia di calore, dal basso piove, dolce e progressiva la notte.

Tutta mia la città.

 

tempo mai usato

Una tempesta elettromagnetica, dissero poi,

ma forse il sole aveva solo sbadigliato,

ignari e per loro conto, gli orologi elettrici anticiparono,

e balconi s’aprirono anzitempo,

passò una luce più nuova,

aveva il colore leggero d’una birra d’estate,

frizzava nel naso con tempo mai usato.

Occorre coraggio ad essere vivi senza ragione

e tutti non capirono subito, consultarono radio ed orologi meccanici,

perfino il telefono, qualcuno volle chiamare, e non si faceva più da anni,

alla fine fu chiaro che una piega di tempo/spazio s’era aperta,

golosa, inghiottendo, le piccole abitudini del mattino.

Ci fu confusione, e timore,

qualcuno, più solo, ascoltando la radio, la trovò nuova,

di musiche e parole inconsuete,

dalle finestre molti si guardavano,

e facevano segni, indicando il polso e la luce.

Fu allora che la vita s’ aprì,

improvvisa, come lampo a pelo d’acqua,

ed il cuore fu pieno di felicità inattesa,

dileguando il peso di notti oscure di sogni,

il giorno, allegramente, riprese il suo nome di luce:

sabbah an-nur

e tutto sembrò essere possibile e nuovo.

ad ovest dell’Etna

 

 

 

File, decine di file di alberi piccoli, allineati in ettari che muovono verso il giallo dell’erba secca. Alberi bonsai. Adesso. Ma questi cresceranno penetrando le culture a cereali e i campi da fieno. Una testa di ponte. Decisa, ordinata, come una testudo romana pronta alla battaglia. E a vincerla. 

Tra Piazza Armerina e Pergusa, le colline sono fitte di boschi. Conifere, eucalipti, querce, sottobosco. Si sta ricreando una foresta che un tempo doveva essere ovunque, ma il verde da legna finisce alle porte di Enna bassa, poi da Calascibetta, Carloforte, si scende verso Catania per strade interne e prevale il giallo dell’erba e del cereale, gli spazi regolari di marrone sono terre dissodate da aratri recenti, gli alberi sono a guardia dell’ombra delle case. Da Catenanuova cominceranno gli agrumeti, un mare verde, aereo, uniforme come un velluto che si sta per posare sulla campagna.

L’impressione è che sia il verde degli alberi ad invadere. Che il giallo sia pacifico, nel suo stendersi fuori dalle masserie, che i raccolti di cereali abbiano menti diverse, più apprensive e legate al giorno, mentre quelle legate all’albero siano più projettate in avanti, legate, come sono, alla certezza del permanere dell’albero ed alla sua cura ripetuta.  Una linea di demarcazione netta tra due modi d’ essere agricoltori ed intendere la vita. Immagino che la notte di questi contadini diversi abbia pensieri diversi, attese differenti che si vedranno nel giorno. Sembrano colori, ma in realtà è l’uomo che dipinge il mondo governato e si immerge nel colore che crea, lo valuta, ne conosce prosperità e sofferenza, lo porta nella sua vita, pensando giallo o verde. Ma sono fantasie, pensieri da strada tortuosa, mentre salgo verso Centuripe.

Il giallo, ad ovest, si stende su cumuli che sono colline, tumuli di giganti, qualche calanco grigio, piccole macchie di fiori su un terreno da guerra senz’armi. I mercati determinano, suggeriscono, impongono. Il giallo si difende, il verde attacca e sembra prevalere, sul versante occidentale dell’ Etna è così, ma in realtà, continueranno a convivere, è il giallo quello che ha mutato il mondo e l’uomo lo continuerà ad imporre, semplicemente perché il cereale gli ha tolto la fame e continuerà a farlo.

l’uomo della panda rossa

L’uomo della panda rossa parla solo dialetto, sorride e si capisce tutto. O quasi.

Sembra vecchio. Forse è più giovane di me, ma lui lavora i campi, raccoglie capperi, origano, olive, pomodori. Li secca, li condisce, li vende.

Per questo mi sono fermato.

Mi racconta che pesta il basilico col pomodoro secco e l’olio. Poi acciughe, mandorle e olive.

Ma oggi non ce l’ha. Neppure le olive condite gli sono rimaste. Solo capperi e origano. 

Gli spiego del vetro, degli aerei, del bagaglio a mano. Sorride e scuote la testa: continente.

Appoggiato contro al muro, tra vasi di capperi, l‘uomo della panda rossa, s’è immerso nel suo profumo d’origano.

Sorride ancora e adesso parla col cane.