racconti per notti di vigilia: puer natus est

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Foglie di platano a mucchi. Sono mani palmate, croccanti, aliene, grandi, secche, in quel color tabacco che fa voglia di fumare. Sensuali come sigari arrotolati da mani femminili, o sminuzzate dentro fornelli di pipa a cui s’è accostata la brace d’un ramo tolto dal camino. Ma sono foglie, e questa è voglia di fumare, accende mezzo sigaro e guarda. Foglie a mucchi, ai lati dei marciapiedi. Ai piedi degli alberi. In distanza si vede il giallo della tuta dello spazzino con una buffa scopa, una grande L, che manda avanti le foglie. Un suo collega, anche lui in tuta, si muove come un pendolo dalla strada verso il marciapiede, ha sulle spalle una macchina che soffia, e spinge le foglie verso la scopa.

Soffia, foglie, scopa, mucchi.

E’ mattino presto, l’insonne fumatore cammina, è uscito da poco. Guarda e nella testa ripete come un mantra: soffia, foglie, scopa, mucchi. E sorride mentre il vento le risparpaglia distratto. Sorride ai due cani che si rotolano nelle foglie felici, all’auto che ci parcheggia sopra.

Vento, foglie, scopa, mucchi, è l’equivalente di: si nasce, vive, muore, il resto sono chiacchiere. E così sorride ai pochi passanti che semplicemente passano verso qualcosa di definito. Non notano. Neppure il suo sorriso, notano.

Di mattina presto la città è diversa, emergono uomini che poi si rintanano nel giorno. Ognuno dove ha scelto, la necessità è una scusa, si rintanano e basta. E così guarda, accumula in testa. Ripete: soffia, foglie, scopa, mucchi come fosse il riassunto di un modo privato del sentire. Poi scivola di pensiero, si ricorda perché è uscito: ci s’innamora d’autunno. Pensa. E prende a calci qualche foglia sparsa. Ci si innamora e poi si attende. Può succedere una cosa e il suo contrario, la felicità o la disperazione, tutto in poco tempo e in una noce d’energia. Come un big bang, ma ordinato e se tutto schizza ovunque c’è  un procedere pieno di contrasti. Magari ci fosse il caos e basta, l’emozione, c’è l’ordine delle scelte. Entropia positiva, o almeno pare. Urgenze frenetiche, tempi dolci di certezze, abissi d’attese, insicurezze improvvise. E poi domande. Domande, sempre domande, presagi di qualcosa che sarà gioia o delusione. Non voglio la delusione, si dice, ma accade.  E così mi difendo. Metto ragioni, incredulità, speranze deluse, tutto a far da freno. Però non funziona, la somma delle cadute pregresse non è un antidoto alla voglia di correre. Semplicemente tutto ricomincia. Solo in amore non c’è un prima e un dopo. Non c’è almeno per quell’attimo magico in cui tutto è possibile.

S’è alzato di buon mattino dopo una notte passata tra sogni e risvegli. Sogni fastidiosi, aggressivi che sembravano accordarsi alla sensibilità della veglia. Attorno, nel buio temperato dalle spie d’interruttori, rumori, schiocchi, pensiero di topi o di qualche preesistenza. Le case che hanno avuto altre vite portano impronte del sentire. Lì qualcosa, di certo, era avvenuto. Parole scambiate, ira, risate, era stato fatto l’amore, consumati rapporti frettolosi, delusioni, rabbie, rassegnazioni, speranze, obiettivi, piccoli passi di figli, risvegli, abitudini, pasti stanchi, veglie. Tutto accumulato in energia che s’era infiltrata tra i mattoni assieme ai desideri sino ad esplodere in rivoli di scelte, di alternative, di stanchezze soddisfatte, di vuoti, d’improvvise felicità. Tutto lì dentro, in pochi metri quadrati, nell’infinito campionario degli usuali modi di vivere. E nella sua veglia cosa restava? Un senso di bisogno, un’ assenza forte, un moto d’amore, un guardare il soffitto nel buio, un muoversi dentro, fatto di attese e di piccoli estranei rumori che generavano inquietudine.

Finalmente era arrivata mattina, con piccoli accenni di luce dalla veneziana del bagno. La mattina, con le sue abitudini, la colazione lenta, il pane imburrato, il doppio caffè, il latte caldo. Anche se non aveva fame, ogni mattina era così: solo per piacere. Gli animali mangiano per fame, non gli uomini. Tutto secondo il rituale del benessere, del tempo proprio. Come si dovesse indossare la corazza di un piacere per sé che servisse all’esterno. Un difendersi dagli sguardi sapendo che si era altro. E poi usare parole frettolose o distratte, indifferenti o fintamente partecipi, senza badarci troppo, essere banali insomma, per non mostrarsi, per tenere il meglio di sé ben protetto, perché quella era la parte importante, non sacrificabile. Casomai si poteva metterla in mani fidate, condividerla, ma dilapidarla nella banalità, questo no, non sarebbe stato utile a nessuno. E l’utile comunque emergeva nelle vite condivise, il resto erano perle ai porci.

Aveva sorriso, davanti allo specchio. Sono così affascinanti e infedeli gli specchi. Aveva pensato. Hanno dentro qualcosa di quello che vorremmo essere e che però non si vede. Al più c’assomiglia. E’ questo il loro fascino: avere un pezzo di noi e rappresentarlo in un’immagine che a fatica, riconosciamo come coincidente in qualcosa. Sarà per questo che le donne si cambiano davanti allo specchio. E si guardano oltre e tentano di modificarsi perché pensano di avere la capacità plastica di coincidere con l’immagine riflessa. E quando questa capacità di vedersi oltre, di modificarsi, diventa meno soddisfacente, allora concludono che è finita la giovinezza, che sono irrimediabili. Aveva sorriso. Di nuovo. Per lui la giovinezza, come le altre età della vita, non s’ era mai chiusa. Era proseguita nei meandri di possibilità, di sogni, di cose fatte e di insoddisfazioni. Per lui la giovinezza era l’età in cui nulla può davvero soddisfare a lungo, perché le soddisfazioni sono esplosioni di senso, scoperta. Ma anche attese gravide, pesanti, toni cupi, giorni che non sgorgano. Per questo la sua giovinezza non la cercava nell’immagine allo specchio, ricerca inutile del resto perché c’era un viso segnato, labbra usate, occhi spesso stanchi, ma nella capacità d’essere spinto in avanti, nel partecipare, nello sperare e amare. Nel provare che osava, dava credito, salvo poi chiudersi in silenzi offesi, in sofferenze repentine e grandi. Una giovinezza sanguigna e sanguinante, un rito di vitalità prima che di vita. Feconda. Ecco la parola che poteva contenere lui, il giorno, ciò che accadeva, la soddisfazione rada, il desiderio, la responsabilità, i bisogni. Feconda. Tutto senza un fine evidente se non il vivere. Un arrivare come un eterno andare. E un eterno naufragare e un salvarsi. Perché il naufragio è la rottura della previsione, della complessità della macchina in forza di natura, è l’organizzazione certa che fallisce e il doversi ripensare, ricollocare in un luogo e un tempo nuovi. Un inizio. Come l’ora dopo l’amore, il silenzio dopo le parole, l’ansare dopo la fatica, la solitudine dopo la folla.  E’ accaduto, che si fa? Si era ubriacato di solitudini partecipi, ce n’erano talmente tante e parlanti attorno, in cerca di confidenza, di contatto, che aveva cercato sé nei silenzi protratti. Si era ritratto nell’immagine assoluta che veniva dai fallimenti, sapendo che un fallimento era un esito dopo una storia di successi. Facile accadesse, fosse solo per la legge dei grandi numeri. Ed era così che, tra alti e bassi, tra difficoltà a trovar senso sino all’orlo della disperazione, dell’annientamento, aveva costruito una instabile, incompleta, immagine di sé che nessun specchio avrebbe mai potuto restituirgli. Voleva essere, non assomigliare. E così aveva sorriso nuovamente. Quando sorrideva sentiva che gli occhi si aprivano, che c’era una luce divertita dentro. Come un accogliere, un abbracciare per comprensione, non importa cosa, ma c’era disponibilità ad ascoltare e far sua la vita d’altri, esserci in modo inusuale e senza chiedere nulla oltre al calore comune che si creava, la confidenza.

Stanco di casa e tepore, immerso in questi pensieri era uscito. Desiderava essere al mare, l’aveva sognato in uno dei brevi sonni, un mare d’inverno, freddo, inospitale. Un luogo per stringersi più che per contemplare. Fatto di rumori ritmati di risacca, gridi di gabbiani. I gabbiani c’entrano sempre, pensava, sono banali i gabbiani. E sporchi. Mangiano spazzature, Ce n’è ovunque, seguono le discariche. Però al mare quando veleggiano contro vento, leggeri, senza muoversi volano, e allora danno l’impressione della libertà di chi possiede un segreto: il disporre di sé. E diventano il sogno di un prima, di una ingenuità intelligente, di una pulizia interiore vissuta nello sporco, nel compromesso per bisogno. Avrebbe voluto il mare e un abbraccio che non si stacca, un cingere a sé, a fianco. E guardare sino e oltre il limite del freddo, sino alle labbra viola e poi correre in cerca di caldo. Ridendo.

Fuori, invece, c’era la città al mattino e le foglie, i viali ancora semi deserti, le strade come ferite tra le case. Luci di finestre, i primi rumori, la pasticceria che apriva, odore di cose sfatte e profumo di dolce, un altro caffè. Ogni volta si stupiva della differenza di ciò che vedeva di prima mattina, rispetto a un’ora successiva. La vita del primo tram, le persone che aspettavano e quelle che rientravano, i rumori, la luce. Pensava a come la città fosse il luogo dell’occidente, e del ‘900. Mentre altri continenti, l’Asia, l’Africa, il Sud America, ma anche la Russia e la Siberia, avessero la dimensione della terra. La terra come appartenenza ampia, che respira talmente tanto da essere un suono dell’anima. I russi erano stati bravissimi a descriverlo perché lo sentivano. Lo spazio, la terra-madre per il cibo, la sicurezza, il luogo, la bellezza, sino a diventare appartenenza, cultura. La Grande Madre Russia era la terra, e così con altri nomi accadeva ovunque, in Africa, in Brasile. La città era altro, un contenitore di fallimenti, di economie, anche di sentimenti, un limite al futuro, alla libertà. Amore, innamoramento, libertà, condizionamenti, noi insomma.

Quell’attività di persone e cose lo portava verso un distrarsi. Pulizia delle strade, trasporti, serrande che cominciavano ad alzarsi, e le finestre che si aprivano, la luce, un viso che si affacciava, uno sguardo al cielo e all’asfalto. Seguiva le cose che accadevano e le foglie. E desiderava essere al mare con lei, poi in qualche cittadina svuotata di turismo, nelle luci e nel calore dove si sta, Si vive. Sconosciuti agli altri per scoprirsi. E invece camminava solo ed era in una periferia antica, fatta di orti dentro le mura, sequenze di palazzi e di casette intrappolate dalla speculazione. Lì c’erano state cooperative di insegnanti e impiegati che avevano costruito case di mattoni rossi, piantato alberi ormai centenari. Una idea piccolo borghese, con l’orto minuscolo, le rose, la finestra dello studio sulla strada. La sera, passando per quelle strade, si vedevano dalle finestre, luci filtrate da vecchi paralumi, verdi, gialle, e tra le tende, libri. Ma usciva spesso anche odore di minestre, di vecchio, di avvenuto. Pensieri che si erano dispersi in adunate oceaniche, perduti in ideologie forti, stanchezze successive, nuove fedi e fallimenti di vite. Era rimasto l’odore di minestra e a Natale di cotechini, i nipoti in visita ai nonni che erano stati figli di cooperatori, presenze di badanti sollecite dalla parlata strana. In una di quelle case, forse viveva ancora una sua insegnante, quando l’aveva conosciuta lui aveva 20 anni e lei forse 40. Un po’ in carne per l’epoca Twiggy, ma carina. Nessun sogno erotico e neppure troppa confidenza, però si parlava di Parise, Calvino, Pavese, e sembrava amasse Gadda. Una cosa da gourmet per il miscuglio che contenevano quelle scritture e da cui lui era affascinato. Poi era sparita negli anni, vista qualche volta e poi più, ma l’impressione di qualcosa che si sarebbe ancora potuto dire gli era rimasta. Cercava di capire qual era la casa. Per distrarsi, seguendo un interesse che in realtà era altrove, ma non trovava. E anche se l’avesse trovata che avrebbe potuto dire oltre qualche convenevole, qualche ricordo. Per questo non bisognerebbe mai lasciar cadere le opportunità di sentirsi di più, di condividere quando è ora.

Il nostro insonne capisce che è inutile rovistare ricordi, il pensiero torna su ciò che manca, ed è sempre il giusto amore. Un eufemismo per definire l’innamoramento come condizione perenne e la solitudine che circonda l’assenza di sentirsi amati sino a traboccare e allora va verso casa e prende l’auto. Vuole andare via, per non chiamare nessuno, per mettere distanza rispetto a ciò che entrambi conoscono. Un sentimento che nasce. Deve andare per far qualcosa e ascoltando musica, guida. Abitare non distante dalla costa gli dà molti vantaggi, in mezz’ora si arriva al capolinea di un sogno. E finalmente c’è il mare davanti. Un vaporetto e poi la sabbia fredda, spuma, alberi dell’ultima mareggiata, gabbiani intirizziti. Il giaccone pur appiccicato al corpo, non gli tiene il caldo. E’ freddo, umido, una mattinata grigia, la spiaggia vuota. Cammina. Gli pare di aver camminato tutta la vita. La sabbia cede, e lui pensa, ha desiderio di caldo e freddo. Punta verso un bar. Dentro, pescatori che giocano a carte, odore di vino, minestra e ancora di cotechini che stanno bollendo. Come in città. Sorride. Non si scappa davvero mai da sé, tanto valeva stare a letto stamattina. E qui non si parla con nessuno. E’ un “foresto”, il dialetto non basta. In questi posti, d’inverno ci si chiude ancora di più. E non è il freddo. Pensa. Tra poco è Natale. Che solitudine ha in sé il Natale, come un’attesa che non sfocia in un abbraccio. 

Allora esce e per la strada vede la sequenza di chiese che guardano la riva, su una c’è scritto: Puer natus est. Che forza ha il latino, pensa, più di un tweet .Soprattutto molto di più di quello che non arriva. Però è nato un bambino. E con lui tutta la possibilità e il futuro in qualcosa che crescerà. E’ bello pensare che nascono i bambini, anche i pensieri dentro sono bambini. Anche l’amore è un bambino.

E così arriva all’imbarcadero per prendere il battello e per tornare. Per tornare dove?

A tutti quelli che attendono, che trovano qualcosa di nuovo che li riguarda, a tutti quelli che camminano, che vogliono innamorarsi, che ascoltano, che crescono senza prevaricare. A tutti quelli che sorridono, che abbracciano, che accolgono. A quelli che tornano e a quelli che ci sono e non ce ne accorgiamo mai quanto sono importanti e li amiamo. Buon natale.

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