Non c’è un momento per la nostalgia, è una dolce traditrice che ti assale quando sei più inerme, forse perché qualcosa manca e andando ad allora ti sembra ci fosse, magari molto diverso e non necessariamente migliore di quanto c’è oggi. Anzi non è mai così, ma una tela s’è smagliata ed ora il bisogno di riannodare ti sembra che metterebbe a posto. Non può accadere ma la presunzione lo suppone. Dei molti ferragosto passati, alcuni ci vedevano assieme. Io ero sufficientemente piccolo per non avere tutte le libertà, ma le curiosità c’erano, e forti, così la voglia che una festa fosse comunque piena di contenuti e non solo di cibo e chiacchiere di grandi. Eravamo sempre nel mare selvaggio fatto di fine sterminate e acqua salatissima della mia infanzia. La sera prima i pescatori avevano tratto a riva le reti e tutti i pochi villeggianti, comprese le suore e i preti dei misteriosi stabilimenti elioterapici e colonie, avevano aiutato a tirare i canapi, mettendo le gambe bianchissime in acqua e ridendo forte. Poi il grosso della rete s’era gonfiato in una delle secche e i pescatori avevano tratto i pesci più grandi. C’erano un paio di razze, dei tonnarelli, cefali e orate, una tartaruga media. Avevano fatto il loro lavoro, evitando i pericoli delle code acuminate come lance e subito tagliate, divisi i pesci per specie e per dimensione, coslparsi di ghiaccio e sale nelle cassette e infine avevano offerto, come sempre, il pesce piccolo per somme irrisorie a chi li aveva aiutato, così tutti, villeggianti, preti e suore erano tornati a casa con cassette o grossi sacchetti di pesce ancora saltellante. Mia madre ne aveva preso ben più di quanto ne avremmo mangiato ma il giorno successivo, ferragosto, se non si mangiava assieme ad altri si offriva ai vicini.
Nell’ombra della casa di legno e sabbia,veniva allestita una lunga tavola fatta con le tavole dei piccoli locali di vacanza e poi ricoperta di tovaglie che andavano dai quadrettati ai fiori, dai cotoni alle cerate, in un tripudio di colori e allegra confusione. Ciascuno mangiava e scambiava, poi chi restava senza essere vinto dal sonno, continuava chiacchierando, fumando, bevendo caffè e grappa con la ruta. I dolci erano semplici, arraffati da noi ragazzi, già ben sazi di fritti, impanature, polente e smaniosi di tornare a scalare e correre sulle creste franose delle dune.
Sapevamo che tornando, a sera, tutto sarebbe tornato al suo posto. I tavoli, le tovaglie, le persone, ciascuna tornata nelle stanze in affitto, a chiudere il giorno con quella stanchezza strana che è solo del dì di festa. Ma per noi, ignari, era diverso perché se un giorno si toglieva alla vacanza c’era stato qualcosa di incompreso, oltre al nome, che aveva celebrato un rito. Quale esso fosse e il perché, ancora mi sfugge oltre la comprensione dell’origine, dei significati apotropaici o religiosi. Era qualcosa di cui ogni generazione diventava depositaria senza un motivo per metterla in discussione che sanciva un’unione, una sosta comune, un ritorno. Così anche oggi guardando i fuochi che rosolano le carni e i pesci, il cibo scambiato, le corse dei bambini, penso che dietro ci sia un desiderio insoddisfatto di essere assieme, di raccogliersi per dirsi cos’è accaduto mentre eravamo distanti e che il non condividere pesi, faccia sentire soli.
Un bellissimo ricordo. Buon ferragosto. Lavinia
Sempre bello leggere i tuoi ricordi, frammenti di vita passata raccontati con parole di oggi.
Buon ferragosto anche a te, Roberto!
Buon ferragosto José e buona continuazione d’agosto. Ti penso contenta tra persone che ami. 😘
Buon ferragosto Lavinia, con i sorrisi che servono e che ti fanno bene.