volevo fare l’architetto

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Volevo fare l’architetto. O almeno mi pareva. Guardavo volumi di fotografie alla biblioteca americana, cercavo di decifrare il senso dei costruttori di grattacieli, mi perdevo nelle planimetrie delle ville sull’acqua o inerpicate tra le rocce, scrutavo la logica del deserto oltre le finestre immense tra piscine proiettate verso un nulla apparente fatto di sfere di rovi e yucche. Poi c’erano i nordici con quel rigore delle linee dritte che rendeva rettilinee ed essenziali persino le curve. Mi innamoravo di Alvar Aalto, del suo affermare il rapporto tra natura e costruire, riassunto nel dire che per raggiungere il lavoro un uomo avrebbe dovuto ogni mattina attraversare una foresta. Mi affascinava il legno piegato, i vetri soffiati e ancor più fusi in uno spessore che era esso stesso identità, essere essenziale. Vedevo un’opulenza scacciata fuori dalle vite che sembravano ricche di pensieri necessari, di parole rade e definitive. Non era questo un ritorno all’innocenza dopo tanta sovrastruttura, lo spigolo vivo contro l’arrotondarsi infinito del neogotico così simile al piegarsi delle vite alla conformità? E l’architettura non era insieme la medietà e quindi un mascherarsi dietro luoghi comuni oppure il grido che s’inerpicava verso il cielo? Superfici incapaci di essenza e di lucore che si opponevano a nuovi ardimenti in cerca di cuori nascosti nell’apparente materia. C’era una razionalità e una rivoluzione permanente in questa lotta.  Ma anche tutta la materialità dei sentimenti che si esprime nel groviglio del confronto, che è anzitutto misura di sé, del proprio passato e ancor più del proprio futuro. Coglievo una dimensione etica del costruire, della pietra e del legno come perifrasi del corpo, riassunti nella possibilità di essere soli e liberi anche nell’abitare. C’era un esempio di questo realizzare, trasfuso nella E-1027 di Eileen Gray, e a dimostrazione che nulla di alto può essere mai neutro, quella villa aveva generato un groviglio di sentimenti da parte di chi doveva esserne il mentore, Le Corbusier. Attrazione, sfida, gelosia, amore per l’immagine che non era più sua. Chissà. Comunque Le Corbusier che non trovò di meglio che invidiare lei e ironizzarne il corpo sulle pareti che inopinatamente affrescò. Ma da quei luoghi non riuscì più a staccarsi, lasciando un segno di 15 metri quadrati, come a riassumersi e a contrapporsi nell’essenzialità del cabanon. L’ opera dove era il fuori ad irrompere nel corpo, e la vita riprendeva il suo volo perché non era più ancorata se non al minimo. Immaginavo che il riassunto dell’architettura fosse lì, una sorta di cabala dove la parola era l’oggetto stesso. E che essa fosse dentro e fuori di sé in un tutt’uno che prefigurava l’equilibrio dell’innocenza finalmente posta innanzi, dove doveva essere. E quell’equilibrio non era regalato ma era una lotta verso un vecchio che complicava, occultava ciò che davvero eravamo. Intanto attorno il mondo sferragliava, si preparava a un balzo verso il presunto buono, finalmente nudo d’orpelli che ne avevano invischiato il passo. Guardavo l’architettura e pensavo che in essa c’era sintesi rivoluzionaria oppure discarica del consunto passato. Era in quelle linee che il mondo poteva essere ridisegnato differente e a misura di relazione, ma anche soli e liberi come diceva Eileen Gray. Questa unione tra l’occhio e il vedere che annodava il pensiero, la mano, che necessitava solo di matite molto morbide, le gomme rifiutate perché le idee germinavano nell’errore, tutto questo mi pareva un bagaglio così sufficiente per viaggiare che al più avrei unito una macchina fotografica per prendere appunti, per scavare particolari, per annotare l’esistente reinterpretandolo. Reinterpretandomi. Mi immaginavo di fare l’architetto e avevo 20 anni, mi sbagliavo perché la vita andò altrove.

4 pensieri su “volevo fare l’architetto

  1. Io invece a 20 anni volevo fare la benzinaia. Non so perché. Forse perché mi é sempre piaciuto l’odore della benzina o forse per quel borsello che vedevo sempre pieno di soldi.
    Ma la vita, si sa, é tutto un limar di scelte. E le mie mi hanno portato altrove.

  2. Benzinaia, un mestiere che sa di strade lunghe come l’infinito. Ma forse è meglio lasciar fare alla vita, che dici Josè ? 🙂

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