l’altro sé

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Ci sono momenti, e pure altri. E così potrebbe finire il racconto della vita riservata.

Oppure con molte parole precise e circostanziate, potrebbe iniziare il racconto della vita apparentemente trasparente. Una narrazione molto presente a sé, meticolosa, dettagliata, ricca di riferimenti comuni in cui chiunque possa almeno un po’ riconoscersi.

Bella, ma non sarebbe la realtà perché non direbbe cosa si seppellisce tra le frasi, nel contesto della passione, nel significato di quelle parole così precise e insieme doppie nell’oscillare tra ciò che si vorrebbe e ciò che è stato.

Quando scrivo è come parlassi di un’altra persona… 

Credo sia il modo giusto per dire la verità e non perché quella persona sia terza rispetto a noi ma perché è noi, liberata da una convenzione ad essere.

Nell’espressione, che è titolo e suggestione di racconto, una stanza tutta per sé, c’è la chiave della prigionia dell’essere nel posto giusto eppure del non esserci totalmente. Un ossimoro dettato dall’esaurimento di una spinta ad andare. Non a caso gli amori sconclusi sembrano il luogo della felicità possibile e non stata, mentre l’apparentemente reale mostra un suo vincolo immane di obblighi, di ripetitività, di consuetudini e apparenze in grado di far desiderare altro. Fortemente e radicalmente. Quell’altra persona appunto, che si compie nell’atto del descrivere/descriversi.

Partire dalla propria imperfezione, considerare che la purezza è un’astrazione scomoda in quanto precettiva, giudicante, generatrice di quella parte così umana e al tempo stesso inutile, se non produttrice del cambiamento, che è la colpa. Se non c’è innocenza non c’è colpa non redimibile, ma soprattutto non c’è un’ attribuzione ai surrogati, del compito di lenire il bisogno d’amore connaturato con l’uomo. 

È come parlassi di un’altra persona riassume l’esperienza passata, la contemplazione del presente, l’essere prigionieri d’un possibile non stato che estrae da noi ciò che siamo davvero. Cioè impossibili. Acutamente e indicibilmente impossibili nell’assomigliare ad altri. Colpiti dall’insufficienza dell’essere sovrapponibili, e neppure somiglianti.

Parlare d’altri in prima persona è parlare di sé, in modo libero, senza il ruolo assegnato, senza la necessità impellente di precisarsi. Una sorta di contemplazione di ciò che è ora, subito, adesso, nel percepito. Non è la verità totale, nel senso che non esclude le alternative, non raggruppa le nostre molteplicità, ma descrive una presenza anche quando lo travisa nel godere masochistico dell’assenza. Si permea della negazione d’un futuro, almeno per un poco, perché più acuta dev’essere la percezione di ciò che manca e più forte la dimensione dell’immensità del sentire, dell’aver unicamente provato. Dell’essere altrimenti dalla banalità del ripetersi quotidiano.

Se si nega la purezza come dimensione dell’esistere, si apre una pagina su cui scrivere. Possiamo scrivere ciò che accade oppure ciò che ci accade. E ci accadrà per la natura divina e umana che si mescola nel nostro daimon e non per fato.

Comunque quell’altra persona siamo noi per davvero.

7 pensieri su “l’altro sé

  1. Come ogni volta descrivi con acutezza uno stato dell’essere umani che valuta ma non pregiudica che lo svolgimento sia quale ma non tale. Cito “Colpiti dall’insufficienza dell’essere sovrapponibili, e neppure somiglianti” perchè credo che sia questa la focalità dello spingersi in avanti per ragione infine, per toto. Se l’apparire può dare sostanza non compromette di certo, come dici qui, il dipanarsi delle scelte che portano ad un senso finale. Ma che non deve essere quello di una fuga autogiustificativa bensì il paziente sforzo di costruirsi senza decostruire la vita che si è scelta. Del manifestarsi senza far male, del divenire nel rispetto delle promesse che allargano e non oscurano un orizzonte di giustizia. Si potrebbe chiamare Arte della Coscienza?

  2. Mi piace Arte della Coscienza, che poi è consapevolezza. In fondo oscilliamo tra l’assomigliare e l’essere, e scegliamo tra l’uno e l’altro in relazione alla coscienza di noi stessi. Sollevi temi su cui riflettere, ci penso. Grazie Melabella

  3. Grazie sempre a Te Wyll. Io provo a descrivere un fare. Che non si accartocci alle minacce di non durevolezza. Perchè Vivere pienamente è esistere guardando il filo che siamo delle nostre scelte. Consapevoli che i sensi unici indirizzano in direzioni obbligate. Ma che sentire è molto di più. Putroppo o per fortuna.

  4. E’ vero Melabella, sentire è molto di più e coincide con un rischio, quello del limite e della pienezza. Basta usare l’auto ironia senza ritegno. 🙂

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