il limite del manga, ovvero parliamo tanto di me ma solo di ciò che vedi

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Il manga è stereotipo, espressione certa, teatro del nð estremizzato in disegno. Rappresentare la vita per emozioni nette elimina i punti morti, quello di cui parlava l’Ulrich di Musil, è la semplificazione delle vite mettendo sotto il tappeto la consuetudine, il quotidiano.

E’ tutto così irraccontabile, signora mia… Ma anche nello scrivere non si scherza, tra stilemi, modi di dire, rimasticature che vengono da chissacchè, insomma superficie, ovvero ciò che si mostra e si vuol far trasparire. Il vetro colorato è pietra preziosa se intravisto tra fessure, e si dimentica il legno che lo racchiude per un barlume. Ma poi ci si stanca. Avete osservato che le emozioni stancano, che la superficie stanca? La stanchezza, come la schiuma, poi vela le cose, non permette di cogliere la sostanza, attiva un resipicere, una riluttanza all’immergersi nell’altro. Se l’ira, la gioia, la tristezza, la stessa noia, sono maschere, come si potrà capire la differenza che abbiamo dentro? Pazienza gli altri, s’accontentino, ma noi cosa sentiremo davvero di noi stessi? Occorre tempo. Per capire occorre tempo e capire non è solo intelligere, ma fare proprio, possedere. E per farlo, serve tempo. Invece si crede più all’intuizione che allo scavo, al lampo più che alla fatica del percorrere. Si crede all’intuizione del manga e al più si passerà al pregiudizio in un percorso che dalla superficie elabora modalità di capire/prevedere le cose che esimono dall’analisi. Capire, invece, è una faccenda seria, spesso lunga. Non è questione da geni, anzi spesso le persone geniali lo sono in un campo specifico, fuori di questo assomigliano a tutti, ometti non di rado incapaci di comprendere, ma almeno la loro funzione è certa e soprattutto non riguarda le relazioni tra persone, casomai il rapporto con se stessi. Anche loro usano stereotipi per esprimere la superficie, hanno bisogno di non essere disturbati. Forse sono tra i pochi ad essere giustificati nel loro semplificare le cose. Eppoi perché parlarne, se geni non si è, resta il quotidiano, l’adesso, i rapporti che intendiamo profondi, qui il manga disturba perché è un velo che nasconde altro. Il manga ci semplifica la vita, ma davvero vogliamo una vita semplice, oppure la vorremmo intensa e piena?

provinciali

L’unica città che assomiglia alle grandi città americane in Italia, è Milano, il resto, nel nostro Paese, è altro.

Spesso ciò che non si conosce si immagina, ma questo non impedisce di viverlo, così il mito dell’occidente è il fare. Il fare come essere, il muoversi continuo, il rispondere ad una legge più alta che è il mercato e che si muove sul principio depurato calvinisticamente, del piacere. Quindi non il benessere, la “roba”, ma quella cosa estremamente dinamica, che fa coincidere il successo personale con il movimento e la perenne innovazione. Un’interpretazione dinamica della  Grazia ad uso dei nuovi atei religiosi devoti alla finanza.

Credo che da questo derivi lo stereotipo del movimento come progresso e crescita: fare, essere, coincidere con la modernità.

A questo si contrappone la provincia, sempre un po’ assonnata come i rettili al sole, con la capacità disincantata di lasciar accadere, di lasciar andare, tanto, prima o poi ci si ritroverà. Ma non nelle luci ossessive della città, piuttosto nella stanchezza dopo la corsa, nella riflessione che accompagna la pausa e nelle domande che ne conseguono, finalmente non represse.

I provinciali vanno in città, ne sono affascinati, sentono il ribollire delle occasioni. A volte si fermano, magari ricreando il borgo attraverso le amicizie, le abitudini, chiudendosi in un sottoinsieme di città che li faccia sentire meno soli, altre volte non ce la fanno proprio, ne sono rigettati e tornano sconfitti. Nella città, i provinciali, trovano qualcosa che li tiene e li estrania. In fondo, loro, hanno una storia , una stratificazione di vissuti, di percorsi fisici, e mentre la città è immemore, si sovrappone cancellandosi, loro, hanno immobilità del ricordo che il movimento non avrà mai. Ecco perché i provinciali nella grande città diventano pensierosi: manca loro un pezzo, che non è il passato codificato nei libri, ma è proprio il ricordo della loro storia.  E quando restano, possono anche correre una vita col sogno di fermarsi, ri abitare luoghi che intersecano vite, non solo storie di condominio, sognare la semplificazione del verde, della campagna, del piccolo spazio per sé, magari riprodotto in città.

Ma questi, di cui parlo, sono i provinciali, gli altri, quelli adeguati nella città che corre, vivono, sguazzano, non si pongono domande che generano desideri statici. Vedono la vita come agglomerato competitivo di vite, consumano il tempo, e si nutrono di luce e calore, non come i provinciali che hanno città grigie, strade semi deserte la notte e buio fuori delle case.

C’è chi ama la luce e il colore di notte e non lo vede di giorno, chi vive con il buio e chi non lo sopporta. Perché anche il buio è statico, è il passato, e rallenta, il buio, anche nel far l’amore. Ecco un’altra differenza, per i provinciali, il buio esiste e a volte è un abbraccio, non solo una minaccia da spingere fuori dei propri occhi.

p.s. La rapsodia in blu per me è la città come mai era stata descritta.