C’è un piccolo cuore di stagnola che attende nel vicolo. Luccica nel buio, si sta attenti a non pestarlo e nessuno lo raccoglie. Neppure gli spazzini l’hanno toccato: chi sposterebbe un cuore?
E’ un notturno urbano, molto italiano e poco americano, con le finestre che guardano la notte e un alito di vento incostante che muove gli oleandri, tra scrosci brevi di pioggia. Fuori dalle case il buio si separa da quello delle stanze. Luci diverse, piccole quelle di casa, grandi e sguaiate quelle di strada, ma pozzanghere di nero mostrano la forza della notte. Quella che solo i sogni rendono giorno. Assieme a quel piccolo cuore di stagnola.
Tutto dorme fino al canto dell’allodola, poi ci sarà lo stridio del nibbio che cerca nella luce ciò che può ghermire.
E ciò sembra dimostrare che non è nei sogni che alberga la violenza.
L’edificio è al buio, ha avuto luce a lungo e ora si appresta per la notte, ma sopra la luce lo investe e sembra a lui inutile. Non a me che lo vedo e che colgo l’edificio e il cielo, assieme, congiunti.
Noi siamo struttura. Stanze comunicanti con corridoi. Pertugi e passaggi. Cantine e soffitte. Belli o brutti secondo il gusto del tempo. Solidi e fragili. Contenitori di pensieri, insomma. Ma dietro di noi, o in alto, cosa c’è. A malapena ci giriamo, guardarsi attorno sembra sia insicurezza, eppure qualcosa ci aspetta e pensa per suo conto a ricombinare le nostre scelte.
Nella mia vita ci sono state svolte. Parecchie. Non ho avuto percorsi lineari. Alcune svolte, importanti e inattese, mi hanno fermato per un momento sulla soglia, poi la sconsideratezza mi ha spinto oltre. Saggiare, imparare, usare l’umiltà di non sapere. Non so cosa sia rimasto poi, a me molto.
Altro mutare era collegato al sentimento. All’attrazione, che si trasforma, interpella, vuole una risposta precisa, ma è già amore. Queste sono svolte che mutano dentro. Forse il per sempre di cui parlano, è questo: l’essere definitivamente mutati.
Il lavoro spesso mi ha chiesto di osare. Mettere lo sguardo appena oltre quello che pensavo un limite, una condizione acquisita. Per un po’ nasceva silenzio e solitudine. Ma cosa tempera il silenzio se non la voglia di creare, di fare qualcosa che a partire da condizioni date muti il luogo in cui siamo finiti? Il silenzio così trovava le sue parole.
E’ un caso? Non credo, come per ogni possibilità c’è stato qualcosa che dentro di noi l’ha generata. Allora è vero che siamo struttura, ma anche divenire, sogni, luce che investe dall’alto. Come il cielo oltre l’edificio, nella sera che osa la notte, nel giorno che resiste, nella mattina che attende.
Noi, me. Non solo connessioni e stanze, abitudini e attese.
Si racconta e si è raccontati, spesso inconsapevoli dei segnali ricevuti. Quando si riconosce in altri ciò che si pensa e prova, è tutto un entrar ed uscire di pensiero.
Rincorrere una lama di luce, coprirla d’ombra, far emergere la trama.
La Cisl prevede 900.000 nuovi disoccupati nei prossimi mesi, ora il suo problema è come reagire a questo governo e alle sue proposte.
Nei prossimi mesi si giocherà una partita fondamentale per l’economia italiana e ciò che uscirà dalla recessione sarà ben diverso da quello che conosciamo ora. Sparirà una parte del manifatturiero entrato in crisi nella crisi. Ci saranno fenomeni delocalizzativi accentuati dalla ricerca dei bassi salari nei paesi emergenti. Segmenti importanti di tecnologia, che attualmente vendono molto all’estero, saranno ridimensionati dalla crisi dell’auto e del mercato consumer. La crisi trascinerà il terziario e la ricerca finanziata dalle imprese, nel ridimensionamentodelle commesse.
Fin qui, previsioni elementari, ma le domande da porre alla Cisl e agli altri sindacati vengono dall’azione: come si creeranno posti di lavoro nei prossimi mesi, come si sosterrà il reddito attuale, quanto conterà l’unità dei lavoratori per determinare una uscita favorevole dal tunnel?
E se il governo non sta facendo le politiche giuste per recuperare posti di lavoro e redditi sufficienti, perchè a fronte di 900.000 posti di lavoro in caduta libera, la Cisl non partecipa allo sciopero generale del 12 dicembre, indetto dalla Cgil?
Se non arrivano risposte mica mi preoccupo, mi terrò i miei pregiudizi.
Nei momenti di stanchezza, ogni vincolo diviene più pesante. Qualcosa in me si ribella e trova una vena sottile che stride con il resto. Come per un dente appena scalfito, questa asimmetria diviene importante sintomo che qualcosa non funziona. Se ho il navigatore giusto, questa vena porterà alla radice della stanchezza, nella asincronia che scinde corpo e mente.
La ragione è solo il processo formale, ma è la sensazione, il sentire che riconduce a me. Per questo i simboli acquistano una doppia valenza, legati come sono ad un’ idea che si fa materia. Ed oscillo tra simulacro e realtà. Incessantemente, anche se il simbolo non basta più.
Avete mai provato la sensazione di essere osservati? Quel guardarsi attorno per capire da dove viene lo sguardo e poi mettere a posto, inconsapevolmente una piega del vestito, scavallare le gambe. Ma ancora c’è la pressione sulla nuca e voi continuate a fare come niente fosse, tanto siete a posto, in ordine. Solo un poco a disagio e la conversazione prosegue come avesse un interlocutore in più, un convitato di cui tener conto. Ecco, mi è accaduto questo e può accadere a tutti. Esiste tutta una pletora d’atti che un tempo erano difficili e scorretti, ma ora diventano agibili; chessò, leggere la corrispondenza, magari in una memoria di cellulare, alimentare un sospetto attraverso la lettura attenta di un post, seguire le tracce di blog in blog per vedere cosa si è detto, quali confidenze sono in atto, perchè si adoperano toni affettuosi.
Perchè non mi scrivi le stesse cose? perchè non mi parli di ciò che senti?
Provate a farvi la stessa domanda, perchè non raccontate le cose che raccontate in rete a chi vi conosce di più. Forse perchè in rete è più semplice mostrare il lato migliore? Oppure perchè, come tra amanti, mancano le colazioni e gli sbadigli? O forse perchè ci sono argomenti di cui parlate con sconosciuti, ma che annoierebbero gli amici?
Magari avete qualcosa da nascondere. E chi non ha qualcosa da nascondere: una abitudine ridicola, un tratto del carattere da confessare solo a sè stessi, un desiderio difficile da condividere, un ricordo che potrebbe far male. E così, fino ad esaurire la gamma dei motivi per cui si tengono cose per sè ed altre si mettono insieme. Il diritto alla privacy dove finisce nei rapporti umani? Dove scelgo che finisca e cioè nel limite che metto nel dire e mostrare e se tu vuoi vedere di più allora violi ciò che pensavo fosse da mettere assieme. Come dire che raccontare tutto in ogni contesto, non funziona e spesso annoia.
E anche nella comunicazione, una delle pretese più assurde è quella di risolvere i problemi enunciandoli. Chi non ha problemi di comunicazione è un alieno, o un telepata e passa le cose con il pensiero. Il blog, al pari della scrittura, consente di precisare e capire meglio cosa si agita dentro la testa e la sua presunta pubblicità soddisfa al tempo stesso il narcisismo e la percezione dei propri limiti. Se poi aggiungiamo che l’interlocuzione è spesso libera ed educata, ma mai così profonda da sconvolgere un rapporto, una vita, allora è fatta. Questa è la fisiologia del blog che non è immediatamente applicabile ai rapporti fisici, perchè la parola nel blog è netta, priva dell’espressione corporea, del contesto, del vissuto comune. Per questo chi conosce legge diversamente le parole perchè il vissuto è un pregiudizio e i piani di lettura più circoscritti. In questo sta la forza comunicativa di questo strumento che può proseguire nello spazio fisico e in quel caso avrà altre regole e profondità e sorprese. Mi viene spesso da assimilare il blog ad una festa in cui ci si conosce per la prima volta, si agisce al buio e chi ci parla può essere qualsiasi cosa, poi con il tempo si imparerà a conoscerlo. Perchè il fascino è quello del carnevale del medioevo, vestiti e maschere con il mostrarsi quanto si può e vuole, ma poi pronti a disvelarsi. Chè di carnevale non si vive.
p.s. dovrei ringraziare chi mi ha spinto a riflettere sui piani comunicativi, ne è nato un pensiero che si complica perchè l’idea che prevale è quella che i legami deboli debbano essere investigati e che non siano così tanto deboli come pare. Poi penso che i ringraziamenti non sarebbero bene accetti perchè avvertiti come esclusione, anche se è curiosa questa posizione considerando che un amico o un’amica conoscono ben più di quanto non si dica in poche righe e che il vissuto è la migliore prova se esiste o meno il mostro.
Credo che tutti aspirino a sentirsi dire: usciamo stasera, fammi le domande giuste, non essere geloso/a, guardami volare, ti guarderò volare.
La notte era fredda a Ferrara, con neve a chiazze lungo l’autostrada e in città, ma lunedì, il quartetto Emerson e la musica erano bellissimi. I pensieri si aggiravano, discreti, nell’armonia, tra il qui ed ora e le storie intuite ed ascoltate. Pensavo a chi sarebbe piaciuto questo concerto, a chi insegue la leggerezza, alle sensazioni che qualcun altro avrebbe provato.
La musica fluisce tra le parole che leggo e sento, scivola sulle persone come abito che scende dall’alto, si indossa. Sono pensieri da serate senza sfarzo, con i ragazzi del conservatorio in jeans a ripetere sottovoce un attacco. Solo musica? Nel programma era presente un tema leggerino: quello della morte e su questo vorrei soffermarmi, magari della musica parlerò altrove. Nel quartetto n.14 di Schubert,”der tod und das mädchen”, c’è la visione del fascino che la morte esercita sulla fanciulla malata. Il dormirai dolcemente tra le mie braccia, insinua il lasciarsi prendere dall’oblio, come se la morte potesse sanare, rendere dolce la vita. E’ un sentimento che si avverte nei momenti di maggior crisi e stanchezza, una diversa forma di suicidio, che lascia uscire la vita da sè perchè ciò che questa offre non ha più speranza di interesse.
Ieri, sentivo Cacciari dire che la speranza non appartiene a chi non crede e questa affermazione categorica mi sembrava azzardata, come se l’agnostico potesse solo esorcizzare la disperazione e la morte e le allontanasse con impegni fasulli per lo spirito, puntando sul transitorio, sull’edonismo, sulla motivazione momentanea che ottunde la percezione della propria solitudine senza dio. Gli amori totalizzanti, le passioni, i furori: tutto inconsistente se non assistito da un fine più grande ed immanente. Un vanitas vanitatis che cade come seta dalla vita orgogliosa che lo rimira a terra. A questa immagine dolente contrapponevo quella a me più vicina, del cavaliere emaciato del Settimo sigillo, la sua battaglia impari contro la negazione della vita. Ricordate il gioco e la dignità del non lasciare che la morte vinca? Il vivere è un impegno e un contratto, magari da emendare spesso, ma comunque da onorare con sè stessi. Quando, per un motivo qualsiasi, questa cognizione del vivere viene a cadere, sembra subentrare un modo parallelo del concepire la quiete, l’assenza del soffrire. Capisco molto questo sentire, che non è il mio, lo capisco anche sapendo che non è una alternativa lasciar cadere vita e pensieri in un basta definitivo, senza più luce. La morte diventa in questi casi la droga finale, priva di speranza e di umanità. E’ la perdita dell’umano, il lasciarlo uscire da sè, contrapposto all’umanità del non cedere, del non arrendersi, del riprendere la corsa.
Se la musica, alla fine, si è ripresa il suo posto, è perchè, come sosteneva Goethe, disturba i pensieri, ma aggiungo, rimette in ordine il mondo con la sua umanità che spiega e non accondiscende.
Pare che le parole, come codice condiviso e formalizzazione dei concetti, siano nate nell’uomo, anche per evitare la cruenza dello scontro, ma se non c’è la lotta fisica e vivendo in un paese in cui è possibile essere diversi senza perire, perchè scagliarsi costantemente contro qualcosa che non c’è più, o ancor di più contro qualcosa che non c’è mai stato come viene descritto?
Conosco tre modalità dell’avversione: la prima che nasce da un desiderio rifiutato, dove si ostenta disprezzo per ciò che risulta non raggiungibile. La seconda modalità invece, occulta un male peggiore con qualcosa di più evidente e maneggevole. E’ ciò che accade quando ci si picchia con il debole perchè il forte ci menerebbe di brutto. La terza modalità è la reazione verso chi ci ha privato di qualcosa di importante o vitale. Chessò: l’ amore, la ricchezza, la libertà, la dignità, ecc.
C’è poi la malafede, che non è avversione, ma un modo per denigrare l’avversario, dicendo ciò che non è, per affossarne l’immagine ed evitare un confronto razionale in cui si perderebbe.
Altra spiegazione vagamente freudiana sta nell’invidia del pene; nel desiderio, cioè, di ciò che possiede il genitore e che consente a questo ciò che ci viene precluso. Da cui l’avversione per il genitore dello stesso sesso.
Vuoi vedere che se la teoria funziona in politica in realtà il cav è stato inibito nella sua aspirazione di essere comunista. La sua a-nomia nell’essere un finto liberale, un non-socialista, non democristiano, non missino lo ha portato a trovare la propria identità attraverso la negazione dell’appartenenza e cercando un demone che gli desse consistenza, quale demone migliore del presunto nemico della libertà e della proprietà? Quel comunismo italiano, autore di tutte le perfidie e negatività che pare l’abbiano costretto ad una vita di stenti, di pedissequo rispetto delle regole totalitarie della giustizia, di difensore conculcato della libertà, di prigioniero politico delle proprie reti televisive. Non è forse sua la dichiarazione recente secondo cui tangentopoli (e i comunisti magistrati) ha fermato 50 anni di giusto progresso in Italia?
E qui mi sorge una domanda a cui non so dare risposta convincente: ma gli italiani gli credono davvero, oppure fa parte della bassa opinione che questo paese ha del potere, continuare a votarlo e dargli consenso?
Ad un matrimonio donai l’opera intera di Calvino. Gli sguardi divertiti, i leggeri scuotimenti di capo, li ho letti dopo, rivelati da poche parole asciutte.
Avevo pensato a ciò che per me, era caro e prezioso ed era stato inteso come bizzarro. Ma era la mia cifra di diversità, che altro potevo dare di sincero? La vita mi piace pensarla come percorso, accompagnato da uno zaino ideale e nel necessario, c’è un libro caro da consumare ovunque.
Quel matrimonio ormai finito, chissà dove ha gettato Calvino, mi resta traccia di quel dileggio che non capirò mai davvero.