spazi

 

SAM_0111

 

Leggendo tra le parole, gli spazi, scrivono dall’alto verso il basso, scie che colano tra significati, la traccia dei silenzi.

Mi piace pensare che esista una cultura del silenzio che si trasmette e spostando una lettera, una virgola, un punto anche il silenzio si sposti e racconti d’altro. A chi? All’anima che ascolta, forse, e ha bisogno di sentire che altri odono lo stesso silenzio. C’è uno scrivere perfetto privo di significato per l’emozione. Genera un silenzio sgomento, da assenza. Se ci pensiamo, molto attorno, e anche in noi, mira a questa perfezione. Una sorta di libertà dalla tirannia del sentire. Dove riluce la razionalità, il coltello compie il suo dovere, seziona e guarda, finché alla fine si accorge che ciò che osserva gli sta morendo tra le mani.

Forse per questo ho bisogno degli spazi, di anfratti in cui riposare ciò che vuole parlare, convincerlo che sentire è meglio e suggerirgli che il silenzio è la forma somma del sentire. Le parole hanno simmetrie strane, toccano appena quello che sentiamo e come appunti evocano. Il sogno di chi scrive è emozionare, trasferire un contenuto attraverso un mezzo incerto e approssimato, ma terribilmente evocatore. Quello che io sento e trasmetto è diverso da ciò che prova chi mi legge, questa qualità è riservata ai grandi, ma se supero la paura del sentirmi solo in una stanza vuota, la vera paura di tutti gli umani, posso tentare di condividere un silenzio. Ascoltare prima di dire.

Qualche giorno fa mi veniva raccontata una storia, dolorosa e vera. Mi sembrava di capire, tutti abbiamo cose che possiamo sovrapporre e che abbiamo sentito come uniche salvo poi sentirsele raccontare da altri. E quella storia, come tante, era zeppa di parole, prima buone e poi irate, sentimenti scarnificati e portati allo scoperto, mostrati come ferite. Le parole riempivano la paura che tutto si frantumasse davvero e a me sembrava, invece, servisse  silenzio. Poi mi è tornata a mente una canzone, che descrive qualcosa a cui ci si aggrappa quando finisce un sentimento e per resistere si ribalta sull’altro il ricordo come un’arma lenta e sicura. E si dice, si racconta, si minaccia perché ci si sente vilipesi e c’è il bisogno di attribuire una tale definitività a ciò che si è vissuto che possa far impallidire tutto quello che verrà dopo. Si sa che la passione riprenderà, che l’esperienza nuova sembrerà sommergere tutto ciò che c’è stato prima, ma come una maledizione si vorrebbe tornare a mente quando c’è ricordo e silenzio. E il silenzio che non si è stati capaci di usare come lenimento reciproco, di condividere come dolore, poi dovrebbe diventare l’estrema arma di chi si è sentito lasciato. Si pensa che nel silenzio ci sia la nostalgia e il rimpianto.

Io credo che ci siano questi momenti nella vita, ma che siano davvero propri e che ogni silenzio, se non c’è qualcuno con cui condividerlo e scambiarlo, diventi un tratto personale, una ricostruzione infedele del proprio passato che sola ci appartiene. Ma nel vivere quotidiano il silenzio ha altre funzioni, toglie il rumore che sta attorno come primo effetto e ci riporta a noi. Sembra banale, ma per non sentirci soli abbiamo bisogno di rumore, così si confonde il silenzio con la solitudine. Il silenzio invece supera la parola, riporta nel profondo, ci mette davanti non al passato, o almeno non così di frequente, ma a ciò che siamo e potremmo essere, quindi contiene il futuro. Per questo nel condividere un silenzio di parole si può scambiare molto d’altro e le parole sembrano disturbare con la loro imprecisione. Questo dicevo, non creduto a chi mi raccontava la storia, che c’era bisogno di condividere una fine con il silenzio. Ma non ero io il ferito, potevo discettare sul silenzio, mentre le parole scagliate erano ben più lenitive, forse anche aiutavano ad elaborare.

Ciascuno ha una sua via e una sua paura per il silenzio, e dal poco che capisco, mi pare che esso contenga molto di me e dell’altro con cui condivido. Per questo cerco gli spazi nel discorso e vorrei capire ciò che davvero mi si vorrebbe dire, cosa si agita e cosa spinge verso di me. 

 

solstizio d’estate

IMG_4575

Due scie di cemento, ora grigie, ora rossastre, perfettamente levigate, tagliano la città. In mezzo una rotaia, una sola, su cui corre il tram. Una riga nera e argento, come un nervo scoperto. Viste dall’alto, le scie, sono un sentiero che tra lunghi tratti dritti e svolte dolci punta da nord a sud. Un cardo maximo che si inoltra tra case e portici, piazze e riviere, affianca acqua e ponti antichi. Un filo per tagliare la polenta che non avrebbe neppure bisogno del mezzo che lo percorre, perché esso è percorso e percorre. Da nord a sud. Instancabile. Se ci pensi ti accorgi che da questi punti corre il senso, cardo del vivere, dall’alto al basso, senza scorciatoie e viceversa. 

La casa dava sul canale, quello che ora scorre sotto. La città si è rivestita di pelle e muscoli, un tempo il sangue era alla vista, diceva cose talmente passate che contrastavano con la voglia d’essere nuova e giovane. La città è un corpo. D’estate è un corpo che si mostra. A quest’ora ero già davanti a un bicchiere di spuma gelata, con un biscottone, un zàleto, in mano. Nel cortile dell’osteria tra le piazze c’era la televisione. Mia nonna mi portava per tempo. a me non interessava molto la tv, erano spettacoli per grandi, commedie, lirica, politica. Mi piaceva il percorso, il ponte, la strada in salita, le piazze, l’odore della carne e del pesce, i mattoni che trasudavano calore, la calcina per sanificare le case, la pietra, il porfido e la trachite arroventate dal giorno. Poi l’androne e il cortile. Sopra il cielo. Guardavo il cielo, la spuma, sgranocchiavo il zàleto. Aspettavo. Attorno giocavano a carte. Mi parevano tutti vecchi, non era vero e insieme era vero. Mia nonna chiacchierava in disparte con le sue amiche, poi arrivava qualche altro ragazzino e cominciava il gioco. Via dal cortile, in piazza, dove una palla aveva trenta piedi, una caduta un pianto trattenuto, una baruffa si concludeva ridendo. Avevamo tutti le stesse cose, calzoncini cortissimi, canottiera o maglietta a righe, sembravamo tutti fratelli. La palla andava altissima, mai orizzontale, la città è ricca di vetri da rompere. Poco oltre passava il tram, ma l’altro, non quello d’adesso. Bisognava che la palla non ci finisse sotto, il tram non aveva pietà. Le sere finivano tardissimo e andavo a letto a ore impossibili, stanco, lavate le ginocchia e le mani, il catino con l’acqua che diventava mattone e rossiccia. Macchiavo le lenzuola di sangue. Mi piaceva l’odore delle lenzuola di lino, mi addormentavo, sognavo. 

Le scie attirano come le sirene i ciclisti, poi la ruota finisce nel solco e cadono. Bestemmiano, si rialzano, riprovano se non ci sono danni, sono irretiti da quel liscio che sembra scivolare in avanti. Un tapis roulant. Meglio a piedi, mettere distacco e curiosità e seguirle dal portico. lasciare che accompagnino. Mostrano quello che si può, magari entrassero per i vicoli, lì fino a quel muro alto da cui spuntano foglie e rose, oppure lungo le altre riviere, quelle da innamorati, che scuotono i capelli dopo essersi baciati e ridono perché i tigli lasciano cadere fiori gialli. Ci sono marciapiedi gialli, dove l’aria è zeppa dell’ umore penetrante del tiglio, camminare è morbido, anche le suole per poco diventano gialle e odorose. Bisogna lasciare le scie e ritrovarle, andando da ovest verso est, come fanno i viandanti e i perditempo, quelli che cercano il sole e ne sono attratti. Se la vita scandisce le svolte, una ogni tanto, il sole riempie i vuoti e l’attesa, pare di vivere tutto e invece s’attende qualcosa. Se ne intuisce il peso, ciò che cambierà davvero, ma non si sa cos’è e intanto ci pare, riempiamo i giorni di abitudini, piccole sofferenze, gioie repentine, come continuasse tutto allo stesso modo, ma non è così, lo sappiamo. Poi c’è chi crede che la vita sia comunque amica e tenera, e chi ne ha paura, ma entrambi si muovono a zig zag nel sole. Da ovest a est e viceversa, instancabili perché altrimenti il silenzio pone domande e la vita si riporta da nord a sud. 

Io so cos’è la solitudine. La sera tiravo in lungo, gli amici, il bar, le discussioni infinite, poi la compagnia si sfaldava, le parole che avevano riempito l’aria, mosso sentimenti, aperto e chiuso idee, comunicato per puntiglio e per noia, si dissolvevano. Non tornavo a casa, giravo e sapevo dove alla fine sarei finito. Lì, sulla piazza davanti alla mole ciclopica del salone, dopo mezzanotte il bar all’angolo chiudeva, ma lasciava qualche sedia e qualche tavolo. Seduto sentivo il caldo che calava dall’alto e momentanei sbocchi d’aria, come se altrove qualcuno aprisse una porta, una finestra e in quella corrente ci fosse il ciabattare insonne, la fatica di affrontare il letto e insieme la stanchezza del giorno seguente, già pronta, che pesava prima d’essere vera. Le voci si spegnevano, qualche richiamo, i barboni che arrivavano con il bottiglione di vino. Parlavo, ascoltavo le parole corrotte dall’alcool, poi tagliavo con una risata, mi spostavo. Cercavo la solitudine che riassume, rimette ordine. Il giorno dopo sarei andato al mare, gli esami erano un problema, ma adesso ero davanti a me e guardavo. Mi guardavo. Lasciando che il resto fosse cornice, non più sono, ma il dubbio. La solitudine veniva poco a poco, raccontava della difficoltà di dire, di trasmettere le sensazioni, diceva dell’impudicizia del dire la verità, ossia ciò che si pensa davvero, e questo non riguarda l’altro, ma ciò che si sente. Raccontava dell’unicità come colla per tenere assieme tutto, come scusa per non procedere oltre, accettarsi, vedere i lati positivi, non scavare. Mi sarebbe piaciuto non avere dubbi, vedevo quelli che non ne avevano, quelli che dicevano io, che erano così sicuri e immemori, così pieni del loro scegliere, pagare, vivere che non s’accorgevano che tutto quel daffare era un rifiutare la solitudine, il dubbio che essa portava con sé. Era una piccola sicurezza o forse mi sbagliavo anche in quello? Stavo lì in piazza mentre la notte acquietava tutto, leniva le voci, finché non parlava più nessuno. Neanche i barboni. Il sonno prendeva. Il giorno dopo, il sole, il mare, l’esame sempre in ritardo, i desideri e le voglie, il pensiero di qualcosa che mancava. Domani. Tornavo a casa, aprivo piano, al buio mi spogliavo e mi raggiungeva la voce di mia nonna: sito tornà. Ero tornato per modo di dire, non si torna mai davvero in un luogo, si torna dentro. Era già estate. Una lunga estate.

Due scie di cemento tagliano la città da nord a sud, in mezzo una rotaia, un nervo scoperto, una corda che risuona in tono di basso: solstizio d’estate.

http://grooveshark.com/#!/search/song?q=Stan+Getz+with+Diana+Krall+Summertime