parole

Una infinita cascata di parole inzuppa il Paese. E come in un giorno d’estate, ritornati bambini, tantissimi si lasciano bagnare. Eppure le condizioni materiali dei cittadini non sono migliorate in questo anno di transizione (si spera) verso qualcosa di differente. Ma cos’è, dove sia e come si possa raggiungerlo, questo mutamento positivo, non è certo. Le parole offuscano le relazioni causa-effetto, ed evocare un cambiamento, spesso punitivo, non basta ad essere certi che per un sacrificio ci sarà una ricompensa. In questi giorni ho sentito un profluvio di immagini, di similitudini, di metafore. Una girandola variegata che ha portato gli occhi altrove dagli esuberi Alitalia e Meridiana, dai licenziamenti Tyssen Group, dalle casse integrazioni senza ormai azienda in cui tornare, dalle 160 vertenze aperte presso il ministero del lavoro. In piazza san Giovanni, la segretaria Camusso, arrancava con le parole un po’ usate: diritti, lotta, sciopero, contrattazione. Altrove tutte queste parole venivano irrise, giudicate vecchie, parte di una generazione di ideali vetusti e portate innanzi da persone incapaci di capire come funzione un iphone, una macchina digitale, un computer. Il vecchio e il nuovo che malamente si confrontano, dove il primo chiede di discutere con gli strumenti che conosce, con quello che è stato elaborato in decenni di confronti con risultato positivo e il secondo gli risponde che non è più un soggetto portatore di soluzioni, di cultura, di problemi. Ma davvero è una questione generazionale, un modo nuovo di capire la realtà? oppure è un diverso modo di usare le parole, di offrire una risposta verbale ad un Paese stremato, che non lotta più e vuol darsi una tregua, una speranza (che come tutte le speranze non ha bisogno di motivo e neppure pretende di diventare certezza). Leggendo il materiale a disposizione sui decreti delegati del Job Act, capisco che non viene indicato il lavoro vero che ci sarà alla fine, se spariranno le decine di contratti atipici, se chi lavora -o vorrebbe lavorare- sia esso giovane o meno giovane, troverà un lavoro e non solo una precaria occupazione. Però sentendo le parole sembra che tutto questo ci sia, allora capisco che ci sarà uno jato tra realtà e promesse, che ciò che davvero manca è una indicazione, un piano per lo sviluppo del Paese che da decenni latita e lascia alla sola iniziativa privata il compito di provvedere alla crescita. Ma questa iniziativa si è dimostrata insufficiente, spesso incapace, e allora torno sulle parole, quelle nuove, colorate e troppe da una parte, e quelle vetuste, logore, grigie, dall’altra. E mi convinco che siccome di parole ce ne sono state sempre più del necessario, dovrebbero essere i fatti a dare speranza, a dimostrare la giustezza di ciò che si fa. La realtà è una dura maestra. Ma la realtà rende flebile la speranza, la circonda di dura fatica, la mette in un percorso in cui chi conduce ha lo stesso rischio di chi è condotto. Proprio lo stesso rischio, non quello delle liquidazioni d’oro dopo i fallimenti. E troppi sono ancora le scialuppe per la prima classe e troppo pochi i salvagente per quella economica. Falso in bilancio, evasione fiscale, carcere per i reati finanziari, tutele per la fuga di capitali, ecc. ecc. non fanno parte del lessico trionfalistico di questi giorni perché parlare di questo, non dà colore ai discorsi, non infiamma, fa scappare i finanzieri d’assalto, i bon vivant, e al più racconta di equità e giustizia in un Paese che sembra preferire i furbi agli onesti. Forse per questo queste idee, a me care e importanti, sono diventate rare e difficili. Perché non si vede la riva, e così, finché si nuota, ci vengono raccontate storie e parole che non ci appartengono, ma che ci invitano a immaginare una salvezza facile e vicina (naufraghi, ecco quello che davvero siamo, di idee, di progetti comuni, di certezze), e questo ci espone tutti ad una scelta: valuteremo la realtà di ciò che viene promesso, oppure ci accontenteremo del calore delle parole che tratteggiano un futuro possibile? E’ una scelta drammatica, disperata per certi versi. Emerge in molti la tentazione di lasciare ad altri il compito di analizzare, riflettere, indicare soluzioni, come se la stanchezza del vedere la realtà ora fosse impossibile da superare. Credo invece che tutti dovremmo essere coinvolti, non dalle parole, ma da un progetto che condividiamo. Si usano esempi affascinanti ma poco italiani, è strano evocare Steve Jobs in un Paese che non ha più nessuna filiera tecnologica innovativa leader mondiale. E’ strano parlare di investimenti quando i privati se ne vanno dopo aver lucrato per decenni sugli aiuti di stato. E’ strano immaginare che i talenti che abbiamo restino senza un piano che investa denaro pubblico per le start up, per le nuove tecnologie, per la ricerca, per il lavoro che non sia solo occupazione, ma contenuti, competenze, abilità innovativa. C’è una strana mescolanza tra le parole: futuro, tecnologia, presente. Come se ciascuna di esse fosse automatica negli effetti e gratuita. Come se il futuro, per il solo fatto di tratteggiarlo, fosse già presente. La parola vivifica ciò che vorremmo, ma non lo rende reale, lo rende perseguibile. E questo costa fatica. Allora la domanda oltre le parole è: siamo disponibili a far fatica, sacrifici, condividere un percorso per raggiungere qualcosa di certo? E questo obbiettivo è di ciascuno, di alcuni, oppure è di tutti?