Ieri i “camalli”, dopo l’incidente in porto a Genova, hanno confermato lo sciopero. Avevano bisogno di capire e di onorare, hanno detto.
Anche contro il volere del sindacato.
Gli armatori, premevano perché il lavoro continuasse, perché ogni giorno di fermo nave perdono decine di migliaia di dollari.
Dicono.
Due settimane fa, a Dacca, 900 morti nel crollo del palazzo in cui lavoravano. Sono spariti dai nostri giornali, in pochi giorni, forse per l’evidenza italiana delle ditte che producevano in quella fabbrica verticale, ma sono state cancellate anche le proteste di migliaia di persone contro l’insicurezza del lavoro e le paghe da fame.
Serve fermarsi e capire.
Non per questi esempi, ma perché nelle cose grandi e in quelle piccole, nei grandi dolori e nelle gioie, l’uomo ha bisogno di fermarsi e capire come mettere le emozioni dentro la propria vita, trarne una esperienza che dura, capire chi è, cosa sta facendo, cosa gli accade, dov’è e dove sta andando. E invece questo non è permesso, dal denaro, dalla suddivisione dei compiti che comporta che ciascuno sia un ingranaggio, una cosa funzionale al risultato. Il mondo del capitale esclude i sentimenti e le domande, l’uomo deve solo essere un pezzo del fare, fino a pervertire i significati delle parole: responsabilità e dovere. Fare e non fermarsi. Per fermarsi ci sono le feste previste, la parola comandate è rivelatrice di cosa sto dicendo: comandate da chi?
Certo non è possibile l’anarchia, l’apologo di Menenio Agrippa, oltre ad essere la base delle classi e della loro funzionalità subordinante per il potere, parla della necessità di funzionamento di un sistema complesso qual’è la società, ma la complessità non esclude il bisogno di capire, anzi lo sollecita. Già l’animale quando non capisce si ferma, perché deve tramutare l’esperienza in mutamento dell’agire, deve decidere se stare o meno, se affrontare un rischio o fuggire. Questo è naturale: fermarsi e capire.
Lavorare uccide, ogni giorno. Accade in tutte le attività umane, ma nel lavoro, la morte uccide in un gruppo, può ripetersi. Nel lavoro la fatalità è solo il momentaneo sospendersi della fortuna, e la morte ha sempre una ragione. E’ per capire quella ragione che l’uomo deve fermarsi: per evitare che gli accada ciò che è accaduto ad altri, per cambiare ciò che lo mette in pericolo.
Fermarsi e capire è necessario per vivere. Questo, il capitale che riduce l’uomo a funzione, non lo capisce.
La sera si trasforma in notte. Le strade strette, quasi vicoli, pietre per terra che suonano nei passi, toc tac toc, rumori secchi che si rincorrono, scalano le pietre che salgono a costruire i palazzi, e poi si smorzano, rimandandosi di echi, tra loro, ai passanti, impermeabili. Case solide, scure, fortilizi di pensieri, passioni, dolori, gioie che non sfuggono dai muri. Mai un grido in più, una parola che oltrepassi il silenzio delle vite. Mai. Anche quando si urla le orecchie si chiudono, gli sguardi disapprovano, le vite devono restare impermeabili. Ora i passi si fanno più lenti, la mano passa tra i capelli a rastrellare pensieri, tiene un riccio sovrappensiero, e si distrae nella sensazione di pulito, di curato, di umido e di notte, reso tattile tra le dita.
Le vite realizzate hanno i loro usi e apparenze. Nelle donne un tocco di frivolezza e mistero, un accenno, un taglio di capelli, la fotografia di un voler essere a lungo cercato, un tacco scelto con cura, un particolare a suo modo sfacciato nel dire, un pensiero proprio da far affiorare. Negli uomini, un segno indossato, uno stile, il colloquio con il proprio viso, un taglio di barba, un talismano infilato da qualche parte che spinge ad essere qualcosa, a riconoscersi. Questo e altro per entrambi, non è questione di generi, ma di tenere assieme un’identità.
La sera è notte, umida come le città vecchie, e scura, nei passi c’è memoria del pensare che la vita s’è svolta e, forse, si svolgerà. Non basta aver fatto, essere stati, aver costruito, amato, fatto figli, voluto, non basta perché ogni azione ha contenuto un pezzo di contrario, l’ha accompagnato, coccolato e perseguito come rivolta al conformarsi a sé. E chi rallenta lo conosce e dispera il toglierlo, sa che è parte di sé e questo curva appena le spalle, rende umido il fiato, densi i pensieri. Di giorno, dopo l’ennesimo caffè, stravaccato di fatica e di noia, direbbe che è bile poco fluida, amaro che si fa sentire, ma è notte e la notte chiude, prima di riaprire.
Si torna a casa per non restare, si torna con il segno della vita addosso, non ora, ma c’è il ricordo di entusiastici ritorni, di cuore e pensieri traboccanti. E’ accaduto. Resta, sono eventi, succedono, magari si ripetono, non sono consuetudine. Consola che chi pensa di addentare il presente, addenta se stesso, provi adesso a sentire quel vago ricordo di cibo memorabile, quel vino unico, digerito in fretta, senta quell’amore che sembrava riempire ogni ora, riprovi la disperazione che ha chiuso il cielo. Aver coscienza che il presente è parte delle vite, non le subordina, non alleggerisce il passo, semplicemente fa sentire che c’è altro da tener da buon conto e alla fine fa concludere che il presente è in questi passi, in questa solitudine soddisfatta di risultati e corse, che ha trovato compimenti e sconfitte atroci, ma solo quando si sono vissute, poi non più, perché chi non vive solo di presente non è mai domo davvero. In questi passi, nella serratura che fatica ad aprire un portone pesante di legno, c’è il senso di un risultato, e il senso salirà le scale, aprirà un’altra porta, accenderà una luce cercando un’abitudine che soccorra, un gesto consueto, uno sguardo che rassicuri, che allontani la voglia d’altro, di tempo nuovo, di vita, di cose non ancora stropicciate di vissuto, di pagine scritte da ripensare, di atti e gesti più lenti, di respiro, di tempo.
Ricacciare la fatica del nuovo fa ripiombare nella coscienza che mai non finirà, che tanti eguali fanno le stesse cose, rallentano gli stessi passi, si pongono le stesse domande, eppure non sono un popolo, neppure si riconoscono, sanno solo d’esserci, distanti o vicino, non importa. Tu a Parigi, o a Palermo, io qui, lui al Cairo, chissà. Restiamo, impossibili nell’essere diversi, anche qui, domattina, già diversi perché il tepore delle pareti, l’odore dei tappeti, dei mobili, dei libri, ha confinato l’umido della notte. Stanchi, paghi, realizzati.
Forse per questo si scappa, Africa, oriente, nord Europa, ovunque, pur di non essere abitudine, vincolo, e si diventa altro, si diventa un posto in cui vivere, sembra, diversi. Ma anche senza spostarsi, anche qui, domattina, diversi, perché già il tepore ha confinato l’umido della notte, asciugato i capelli e riaperto la speranza d’essere altro. Forse. Ma, a volte, in una liturgia senza religione, si spegne la luce, ci si avvicina alla finestra, e si contempla il buio, le vite intuite nel giallo delle finestre, il cielo che riflette le luci di città, fuori e dentro, finché subentra una sensazione di pace avvolta di buio, quello alle spalle, denso e odoroso, e quello spanto di grigio che tempera le notti tra le case. Una vita vive perché sa che ci sono vite, e così rende tutto relativo, anche il realizzato che è sempre incompleto e urge e chiede ancora. Ricordi? dopo un esame subentrava una pace innaturale, un mondo che s’apriva potente, infinito, possibile, finché scoccava la domanda: e poi? Anche ora sappiamo che non si compie davvero nulla, si fa, e al più si transita per tappe successive.
Noi, così. Popolo che si lancia messaggi e poi si ritira, timido d’una risposta che aprirebbe altre richieste, domande, vorremmo solo, visto che ormai s’è capito come funziona, che chi contempla la propria altezza fosse conscio della sua insufficienza, della miseria che lo accompagna, per averlo amico in questa notte che finisce nella consapevolezza, che tiene il buio alle spalle come una coperta calda e sente e guarda bagliori paralleli, che si assomigliano e ci sono. Per fortuna ci sono.