menta piemontese

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Doveva essere un caldo terribile quell’anno se la madre di uno di noi, ci aveva lasciato, insistendo molto sull’uso, un fiasco di menta piemontese. Proprio un fiasco di quelli impagliati col tappo di sughero, col cui contenuto avremmo dovuto trasformare ettolitri di semplice, buona, fresca acqua in bevanda dissetante e toglierci la sete de-fi-ni-ti-va-men-te durante la giornata. Proprio così disse: definitivamente. E ci vedeva al sole che sorseggiavamo, finalmente liberi dall’arsura. E invece dopo il primo litro buttato quasi tutto, ne era seguito un altro con l’idrolitina che aveva fatto la stessa fine. E poi basta perché ci riempivamo di birra, cocacola e facevamo mattina raccontandoci quello che avremmo fatto l’indomani, pasticciavamo con patatine, salame e sozzerie, dormivamo fino alle 11 quando in tenda era impossibile stare. Ed era una vacanza epica, sempre pieni di sale e in spiaggia fino a notte, mai nessuno che ti chiamasse, se non per prenderti in giro, mai nessuno che ti dicesse fai questo, fai quello. Avevamo 17 anni, la menta era il legame con la fanciullezza, il sostituto del tamarindo Erba, in spiaggia, il pomeriggio, la mamma e la famiglia. Via tutto, eravamo uomini che ansavano vita vera.

Alla partenza, il fiasco lo regalammo al tedesco della tenda di fianco, e mentre ci salutavamo dall’auto in movimento, alla prima curva, vedemmo che, felice, lo brandiva. E ci salutava. E lo stappava. E stava per berne dal collo una lunga sorsata. Era scritto “soave” sul fiasco e il tedesco non doveva contare molto se la Germania non ha poi dichiarato guerra all’Italia.

i disertori

Eppoi ci sono quelli che ti raccontano ciò che accade come fosse un’impresa epica. Tanto che ti guardi attorno per capire se stai vivendo nello stesso posto. Sono autoreferenziali, si convincono finché narrano la prima volta e poi non smettono più. Generatori di autostime che coincidono con la loro presenza, lavorano sul gruppo, motivano, presentano come vera la realtà che vorrebbero, demoliscono a colpi di asserzioni gli insoddisfatti, raccolgono il consenso degli astanti e lo amplificano. In politica e nelle società funziona così perché una persona si deve sentire parte di un successo e mai di una sconfitta. Tant’evvero che le sconfitte vengono giubilate, le dimensioni vere delle”battaglie” sottaciute, anzi chi racconta è un reduce ante battaglia e ciò che di epocale viene evocato, in realtà altro non è che la necessità di unire su un progetto senza domande, di creare una identità collettiva che si muova in modo coordinato verso nuovi successi, rammentando i precedenti. Non importa quali essi siano. Rimuovere, amplificare, eludere, motivare, sempre usando il noi, un noi siamo perché noi eravamo. C’è una grande mistificazione che circola, e non è l’interpretazione positiva della realtà, ma ciò che spinge a puntare sempre sul luogo comune, come se il passato fosse sovrapponibile al presente. e tutto questo funziona finché uno non ci sbatte addosso, perde il lavoro o non lo trova mai, oppure si spinge ad analizzare davvero i messaggi che gli vengono lanciati e comincia a definire priorità. La mistificazione cade allora e chi può, si salva puntando su di sé, diventa un uomo solo con battaglie proprie, rifiuta l’omologazione nell’azienda, mette in discussione obbiettivi e modalità. Disertore di realtà che non è la propria, questa persona diventa innovativa e può fare la fortuna dell’azienda, del partito, del gruppo, perché rompe il modo preconfezionato di vedere il reale, si misura con l’insuccesso e mantiene una propria rotta, ma raramente viene ascoltato. Sono rapporti di forza immane quelli che circolano, anche la realtà suadente e farlocca del gruppo era un recinto fortificato e lui diventa singolo nel combattere, va altrove, si sceglie i compagni, si coordina e costruisce un nuovo modo di fare che parte dalla debolezza, non dalla forza presunta. Il valore della debolezza cosciente è questo: dà una misura, mette un limite. E stranamente sarà proprio quel limite ad essere superato con modalità nuove e inusitate, proprio perché non c’è un prima con cui davvero confrontarsi. Poi, se il nostro “disertore” ha successo, verranno gli altri, ci saranno quelli che avevano capito tutto prima che accadesse, quelli che si adattano subito e sembra siano sempre stati così, quelli che non capiscono ma si adeguano. Insomma se vuol mantenere il suo modo di procedere il nostro lettore di realtà, dovrà distaccarsi dal nuovo recinto che gli costruiscono attorno ed innovare nuovamente, e così sempre, senza fine. Sembra una condanna alla solitudine e invece è la grande opportunità di stare con se stessi, ritrovarsi e motivare nuove sfide. Quelle vere, non le altre che sono rimasticatura di realtà.