28 maggio 1974, Brescia, piazza della Loggia.
Di quegli anni non resta nulla, come per le famiglie, il ricordo si circoscrive, perde l’emozione, diventa una data, una figura. Così non si impara nulla, ci si muove nella nebbia inseguendo luci, e non si rafforza lo spirito delle vite, la loro direzione, se alla fine ciò che accadde è cancellato, confinato. E l’emozione diventa non solo irripetibile, ma irraccontabile, se non per i pochi che ancora considerano importante ciò che è accaduto. Ma questi ultimi lo sanno già, e allora a che serve?
Difficile spiegare cosa furono gli anni ’70, non solo in Italia. Oggi, chi sente ancora la pericolosità dell’eversione, ricorda la strage di Brescia tra gli episodi più gravi di quella stagione, ma come spiegare che allora viaggiare in treno non era così sicuro, che le gallerie si facevano dicendo alla fine: è andata. Oggi che non ci sono più manifestazioni o quasi, come spiegare che andare a una manifestazione, o fare servizio d’ordine era un atto di coraggio prima che di libertà. Eppure le piazze erano piene.
Come raccontare che allora tutto deviava: servizi segreti, nazioni “amiche”, polizia, carabinieri, corpi dello stato, senza chiedersi perché deviavano, e a chi interessava tutto questo? C’era una teoria degli opposti estremismi, probabilmente la stessa che fece intervenire la polizia a manganellate, a Brescia, in piazza, dopo la bomba, per disperdere la folla che si prodigava sui feriti, e in base a questa teoria ogni avvenimento aveva una interpretazione ideologica ancor prima della realtà, addirittura prima che accadesse, fino a violentare l’evidenza. Insomma, l’eversione in quegli anni, per i corpi dello stato e per non poca opinione pubblica, era naturaliter di sinistra.
Come raccontarlo,oggi, tutto questo, l’emozione che allora colpì chi faceva politica alla notizia delle bombe, la voglia di non piegarsi alla violenza, l’andare in piazza apposta per dimostrare che non avrebbero vinto. Chi? Gli oscuri pupari, i fascisti, gli eversori veri, i bombaroli, assieme a quella parte del paese che restava in silenzio e sembrava approvare che le libertà si dovevano ridurre, che gli scioperi facevano male al padrone, che non si doveva cambiare perché andava bene così, ecc. ecc. Oggi è difficile spiegarlo, anche perché le poche manifestazioni che si fanno sono sempre contro qualcuno anziché per qualcosa e la gente preferisce andare ad ascoltare un comico che fa ridere, che usa il turpiloquio, anziché prendere in mano essa stessa il suo futuro. Ormai ci si chiude nel personale anche quando si è in tanti e così è difficile lottare per lo stesso obbiettivo comune. Per questo sono inutili i reduci, perché parlano di qualcosa che non c’è più, perché tracciano una relazione tra il passato e il presente.
Questi sono i pensieri e le domande dei reduci, inutili come loro stessi e se le ripetono non è per trovare un senso, ma per affermare che non c’è un solo modo di gestire la vita, che non c’è solo un qui e ora, ma una direzione, un prima e un dopo. E il dopo è meglio che neppure assomigli al prima. Ma tutto questo costa fatica a dirlo in pubblico per questo i reduci spesso parlano da soli.
