nel labirinto

Mi piacciono i quaderni grossi di pagine bianche, prendere la penna e scrivere, è un atto di libertà che devo a me, solo a me. Cosa condividiamo anche con chi ci è amico ? Le fatiche? La quotidianità? Oppure a volte sono le riflessioni che ci hanno fatto capire chi siamo ora rispetto a un allora che aveva altre ansie, incompletezza, rossori diffusi, richieste urgenti, voglia di vivere. Ciò che neppure si capiva sembrava indifferibile e urgente. Inseguire le notti, i giorni, i luoghi, gli affetti, l’amore che coagulava imperioso e spavaldo, lasciandomi attonito di tanta bellezza. Eppure erano anni pieni di asperità, mai facili, a cui sarebbero segui anni altrettanto complicati. I fallimenti sono una buona occasione per cominciare qualcosa di nuovo con la consapevolezza di ciò che è stato e invece spesso sono una coazione a ripetere. Allora c’era del buono anche nel processo non solo nei fatti e perché non si guarda bene cosa ci corrisponde in quel mettere assieme azioni in un determinato ordine, seguendo conoscenza e desiderio, perché in quella sequenza si trova un noi che si cela nel profondo e scrive sempre tra le righe dei diari. I conti con il passato si abrogano non si chiudono perché dentro di noi troveremo sempre un adesso figlio di quell’allora.
Mi è stato detto che devo amarmi come sono, nessuno mai riflette sul fatto che noi siamo amati o amiamo per scelta emotiva, per affinità interiore. Allora penso che amare se stessi non sia quel processo amoroso che conosciamo verso o da altri, ma sia qualcosa di diverso e personale. Amarsi significa scendere nel profondo, capire qualcosa, risalire e poi cercare di assomigliarsi sapendo che c’è molto da scoprire e che non si finirà mai. A questo dovrebbe servire il comunicare, a superare l’apparenza e il dovuto per dire e fidarsi di chi riceve il messaggio. Ciò che scrivo è parte di me ora, come lo sono stati innunumeri foglietti, appunti, folgoranti intuizioni. Una scia di carta e inchiostro, di emozioni provate e tutte apparentemente perdute, ma per vie recondito e parziali, parte di me ora. Conservo molto e quando rileggo riconosco che la strada fatta è stata uno scavare nell’essenza delle domande, che all’osso, le parole sono immagini criptate e depositi di senso. Abbiamo codici comuni traballante ed equivoci, così ho capito che ascolto volentieri gli altri, che le vite si svolgono e si assomigliano, che l’intuizione è fallace, che non finisce mai di stupire ma che è ciò che si capisce e la leggerezza che contano. La leggerezza è sapere cosa conta e vivere tutto quello che ci viene dato o scegliamo di cercare. La leggerezza è il proprio tempo che viene lasciato scivolare via perché ce n’è ancora e poi ancora. Penso abbia a che fare con la meditazione che porta all’innocenza, la leggerezza, so che fa star bene, che a volte si crea, ma spesso è un desiderio che si esprime in altro modo. Penso anche che la leggerezza genera stupore dell’altro, delle cose, dei particolari che contengono ciò che si cela alla distrazione. Penso che ci sia un dire che si capisce e rispetta chi ascolta, che la comunicazione sia questo e altro. Seguo il filo del pensiero e già la parola si sofferma, guarda e vorrebbe ascoltare, è nel labirinto senza Arianna per uscire deve volare. Ha bisogno di liberarsi della tristezza e del non fatto, dello stesso raccontare con un fine. E se è libera, ascolta e vola e dentro genera pace.

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