L’asciutta prosa scientifica, o il racconto essenziale fatto di frasi piccole, soggettoverbopredicato, e di concetti secchi come staffilate, non m’ appartengono. E qui il discorso potrebbe finire soverchiato dall’evidenza di tanto scrivere anche in questa pagina virtuale. Eppure c’è stato un tempo in cui pensavo che l’essenziale fosse dire ciò che serviva, ovvero tenere l’utile. Come in un film, togliere tutto ciò che era abitudine o ripetizione, restare nell’azione che ha un incedere semplice: genesi e sua causa, evolvere, caso, epilogo. Insomma ciò che ogni autore di gialli conosce e ciò che ogni innamorato vive. Non mi bastava e ora penso che nei particolari, nel ripetere con altre parole ci sia una ricchezza che sfugge a chi non ha tempo e voglia. E neppure gli interessa perché non cerca quel dire che si trattiene o si nasconde, ma si basta dell’evidenza.
Però è indubbio che questa osservazione detta da un’amica, sul mio scrivere ridondante e verboso, m’abbia colpito, che l’abbia riconosciuta come vera. Mi ha sorpreso e un po’ rattristato come accade quando ci viene fatta un’osservazione che ci riguarda e non ci piace. Ma il suo essere vera me la ripropone come inscindibile da ciò che sono e non avendo voglia di cambiare se non per scelta, mi fa pensare che il mutare sarebbe un mostrarmi diverso da me stesso o un pezzo di bravura. Quindi un fingere. Resta la genesi di come sono diventato ridondante e verboso, perché questa è una rappresentazione involontaria e fedele di ciò che sono. Qui le ragioni si moltiplicano, diventano meno precise. Per eccesso di immagini forse, oppure per l’inadeguatezza che sento nel raccontarle perché le parole approssimano troppo, o ancora perché in ciò che sento e vedo si nasconde molto non dicibile.
Ho anche pensato che se i termini sono precisi, il pensiero coincidente, non c’è bisogno di spiegare troppo. Un pensiero che non si perde, non divaga e va diritto all’oggetto è di per sé esaustivo. Non lascia ombre. E invece amo immergermi nell’ombra, nello scovare ciò che prima non si vede e poi si precisa. Questo esclude che la prosa possa essere efficace per un comunicato politico, per una presa di posizione. Si riduce il campo di applicazione e il raccontare è sempre un raccontarsi che non copia perché si intinge nell’originale. E questo amore per ciò che si intuisce è una attività da perditempo. Chi usa l’intuito per affiancarlo a ciò che vede e sente, sceglie di approssimare ciò che non si vede. Forse per questo l’ombra diventa fresco rifugio e fonte di attenzione. L’ombra contiene il silenzio di ciò che non vuol apparire e per raccontarlo o usa lo stesso silenzio oppure ci si muove in una linea incerta che tenta di rendere interessante ciò che apparentemente non interessa. Come conoscere un segreto per alcuni è un peso, per altri una ricchezza.
Non a caso mi attira la spirale, il vedere il passato e il futuro nella spira che precede o segue mentre ci si muove dall’uno verso l’altro e non lo si capisce per davvero. Come per le centurie di Nostradamus dove ci sta tutto e il suo contrario. Ma questo accade quando si vuole interpretare ciò che si vede e non si conosce non quando lo si intuisce.
Di tutte queste parole si potrebbe fare un riassunto:
non ha le parole per dirlo oppure ne ha troppe,
ma solo chi non l’ha abbastanza amato
non ha inteso che ciò che viene raccontato è solo una parte,
e neppure la migliore,
di ciò che in quelle troppe parole viene svelato e celato.
Forse non si è più abituati all’uso delle parole in un’epoca in cui tutto viene ridotto all’osso, scarnificato oppure rappresentato da brutte fotografie con persone poco interessanti in primo piano. Penso che siano da lodare le persone che si espongono raccontando di “se” , delle proprie emozioni: se lo fanno utilizzando tante o poche parole non credo sia importante. Non credo che contabilizzare le parole abbia senso. Un grandissimo poeta, Ponge, che amo in maniera particolare, è riuscito a scrivere della vita delle cose di tutti i giorni, della vita che anima le cose .
La candela
La notte a volte ravviva una pianta singolare il cui bagliore scompone le camere ammobiliate in cespugli d’ombra. La sua foglia d’ora si regge impassibile nel cavo di una colonnetta di alabastro, attraverso un peduncolo nerissimo. Le farfalle povere la assalgono preferendola alla luna troppo alta, che vaporizza i boschi. Ma subito bruciate o sfinite bella battaglia, tutte fremono sull’orlo di una frenesia vicina allo stupore. Intanto la candela, con il vacillare dei chiarori sul libro nel brusco sprigionarsi dei fumi originari, incoraggia il lettore – poi si inclina sul suo piatto, e affoga nel suo alimento.
delle stagioni
Stanchi di essersi contratti per tutto l’inverno, gli alberi all’improvviso si lusingano dell’essere ingannati. Non ce la fanno più: lasciano andare le parole, un flusso, un vomito di verde. Cercano di raggiungere un infogliamento completo di parole. Tanto peggio! Tutto si metterà in ordine come potrà! Ma, in realtà, si mette in ordine! Nessuna libertà nell’infogliarsi… Lanciano, perlomeno lo credono, parole qualsiasi, lanciano gambi per appendervi ancora parole; i nostri tronchi, pensano, ci stanno per assumersi tutto. Cercando di nascondersi, di confondersi gli uni negli altri. Credono di poter dire tutto, poter ricoprire il mondo interno con parole variegate: non dicono altro che “gli alberi”: neanche capaci di trattenere gli uccelli che se ne volano via, mentre essi si rallegravano di aver prodotto fiori così strani. Sempre la stessa foglia, sempre lo stesso modo di spiegarsi, e lo stesso limite, sempre foglie simmetriche a se stesse, simmetricamente sospese! Tenta, ancora una foglia! – La stessa! Ancora un’altra! La stessa! Niente insomma che possa fermarli se non improvvisamente questa riflessione: “Non si esce dagli alberi con mezzi di alberi”. Una nuova stanchezza, un nuovo capovolgimento morale. “Lasciamo che tutto ingiallisca, e cada. Venga lo stato taciturno, lo spoglio, l’AUTUNNO”.
Le parole fanno bene.
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Grazie Lavinia, le parole per chi sa usarle sono un mondo di meraviglie. E grazie a te che le doni.