“…una storia d’amore, ossia l’abdicazione della ragione a favore della passione; è sintomatico, direbbe il buon dottore. È una forma di resistenza. Per Sarah l’amore è solo un insieme di contingenze, nel migliore dei casi il potlach universale, nel peggiore un gioco di dominazione nello specchio del desiderio. Che tristezza. Sarah cerca di proteggersi dal dolore degli affetti, non c’è dubbio. Vuole tenere a bada ciò che può scalfirla, si difende in anticipo dai colpi che potrebbe ricevere. Si isola. ” da Bussola di Mathias Enard edizioni e/o pg.346
In quel succedersi di piazze, di portici con plateatico di tavolini all’aperto, di visi ignoti che ti riconoscono, di saluti e indifferenza, che è la mia città, passano conoscenze inattese. Si attende l’uno e arriva l’imprevisto altro e così mentre il sole scendeva tra i palazzi, è apparsa una figura nota. Riconoscibile e cara nel ricordo di qualche anno vissuto molto assieme. Poi, accade senza un motivo preciso, la presenza si era rarefatta sino a temerne una malattia non raccontata perché le poche volte che ci si incontrava il discorso era svagato e frettoloso di lasciare. Infine la sparizione, il succedersi delle richieste di notizie, i mi pare, mi hanno detto, fino al non so comune: l’assenza.
E adesso, dopo l’abbraccio, ha subito iniziato a parlare come un torrente bisognoso di strada, saltando antefatti e interi capitoli poco utili alla storia, il tutto innescato da una domanda così generica che si aspettava risposte svagate e che restava appesa e stupita di tante parole. Quel dov’eri finito ha fatto fatica a connettere le cose che arrivavano a fiotti, almeno all’inizio: mancavano le cause e c’erano fatti raccontati con precisione; come in quelle storie in cui c’è subito l’assassino ma manca un movente e alla fine neppure l’assassino è certo. Con distacco analitico parla di un amore passato. Della sua insensatezza dilapidatoria, così simile al potlach senza il beneficio del prestigio. Ne ha ricavato una caduta a spirale verso un centro (un buco) che non prevedeva l’unione ma il suo contrario, così ha detto, ed era la scissione definitiva da sé, dal suo pensarsi, dalla sua immagine. Il prezzo di quella passione che l’aveva portato via, era stato un distacco che trovava nel dubbio, nella spogliazione delle idee maturate con adesione e fatica, l’estraniazione da sé. Assentiva, così ha detto, ad una visione dei rapporti tra persone, tra amori che non era la sua, eppure l’accettava lo stesso provandone un piacere d’ignoranza per non averla saputa sino a quel momento e d’umiliazione per non sentirla proprio. Ed era un piacere a cui si piegava, come una flagellazione d’insufficienza.
Nell’economia dell’amore l’attesa del ricevere si ricaccia nel profondo, anche se è pronta a balzar fuori se ripetutamente contraddetta, però intanto si rovescia nel dono e si scioglie in un sorriso quando lo si sente accettato, nel suo caso erano accaduti tanti e tali dinieghi che non c’era più neppure la ritualità del convenire l’accettazione. Non sapeva come fosse accaduto, ma ciascuno difendeva un ruolo, dove da una parte c’era una pretesa silente e accusatoria e dall’altra un dare presuntivo di miglioramento, un gettare in una fornace le convinzioni, ciò che aveva di caro e ogni volta ritrovarsi senza nulla sentendo la propria insufficienza, e dover dare ancora. Alla fine aveva cercato con sempre maggiore frequenza giustificazioni e colpe. Si lamentava in silenzio, faceva il broncio, si sentiva ridicolo mentre incupiva. Era diventato impossibile a se stesso. Era questo un amore? E sembrato attendere una mia risposta, ma non era vero perché ha continuato. Era amore l‘ansia di accettare ed annullarsi come fosse un atto espiatorio, oppure dovevo attendermi gioia, pienezza, condivisione? Di sicuro la seconda, lo sapeva, eppure per molto tempo (non tanto nella cronologia che mi faceva, relativamente breve, un anno o poco più, che per lui doveva essere stato un tempo infinito) aveva sperato, cercato con tristezza crescente che i fatti e le parole coincidessero, che i silenzi avessero senso, che la ferita e l’offesa fossero guariti da un mutare di entrambi, ma questo non veniva e continuava a scendere nell’insoddisfazione, fino al momento che s’era fermato sull’orlo di qualcosa che non sapeva.
Mi ha descritto un’atonia senza limite, un prostrarsi e disperare determinato, cioè la ragione, ha detto proprio questo, aveva preso il governo della passione e pian piano la smontava, la mostrava chiedendo un motivo per ciascuno dei pezzi che sottoponeva ai suoi occhi ed egli, anche se si ribellava, però veniva pian piano convinto a vedere ciò che non aveva voluto.
Come si fosse generata questa estrema resistenza prima dell’indifferenza non lo sapeva, ciò che invece capiva era che era necessario allontanarsi e la modalità prevedeva solo due possibilità: il taglio netto o un processo di riconquista della negazione. Quel no, ripetuto dapprima all’idea di amore guasto, poi alla scissione di questo dal soffrire, l’aveva gettato sulla passione per spegnerla un poco per volta. Ed era andato avanti e indietro, staccandosi con immensa fatica, sperando che un fatto esterno risolvesse, ma non era venuto, così si era operato da solo.
Per capire e cercare di mettere un ordine, e un nome, gli avevo chiesto com’era accaduto. Mi parlò allora di un momento di gioia glorioso, di un incontro, della conquista presunta, del trionfo che in realtà era solo tronfio culto del narciso. Mi disse che erano stati mesi in cui governava le cose e decideva cosa si poteva fare e cosa era precluso, ma questo era avvenuto sino al momento in cui si era trovato talmente legato che era subentrata la gelosia, il sospetto. E chiedendo ragione aveva sentito il rispondere evasivo, e anziché indagare aveva cominciato a dare di più, a credere tutto finché erano assieme e a dubitare su tutto quando non lo erano. Lì era caduta la difesa della ragione e si era consegnato a un evolvere inatteso.
Si era fermato dal parlare. Pensava e si vedeva dalla tensione che ripercorreva qualcosa. Ecco, mi disse, ho accettato che fosse vero il sospetto e cercato di riportarlo in una modalità di amare che non era esclusiva. Insomma volevo mi andasse bene tutto purché alla fine scegliesse me. Tu pensi che questa sia stata una forma d’amore? No, non lo era perché io stavo rinunciando non ad un rapporto esclusivo, ma a me stesso. A ciò in cui credevo. E non ne veniva un balzo in avanti, ma una precarietà e un abisso che si apriva. Questa discesa è continuata a lungo, alcuni mesi, una vita, finché ero talmente sconvolto da un continuo essere entro passioni contrastanti che mi sono bloccato. Cioè ha funzionato qualcosa di automatico, il sonno, la stanchezza, il vuoto, e ne è venuto un periodo altalenante fino a vedermi e capire che dovevo scegliere. Doveva essere un taglio netto e invece ho scelto di riconquistarmi. È stato un bene e un dolore aggiuntivo. Ma un bene, alla fine. È stato un tempo dell’assenza perché c’ero ed ero altrove, in una vita che immaginavo e che dovevo vedere per capire che non era reale. La realtà ero io allo specchio la mattina, nei gesti che facevo a memoria e che, per la prima volta, dovevano ricevere un ordine: lavati, raditi, pulisci i denti, fai la doccia, bevi il caffè, vestiti, esci, vai. Questa era la realtà, non dov’era, con chi era, perché non ero con lei. Questo ogni giorno per mesi, inframmezzandolo a ciò che c’era attorno. Dovevo rispondere alle domande, gestire la vita normale eppure non c’ero se non quando mi imponevo di esserci. Ero naturalmente assente e ragionevolmente presente, fino al silenzio notturno quando mi lasciavo andare e allora lo scuotersi, la tentazione del chiamare, la curiosità malsana mi aggrediva, e ancora dovevo riconquistare un governo della presenza. Sonniferi e negazioni, infinite negazioni per essere me. Per questo capisco chi si difende e nega anticipatamente e capisco chi si lascia andare e si perde, entrambi scelgono.
Nel mio caso non sarei più stato lo stesso, lo capivo e non avevo scelta, e ora sono in grado di vedere ciò che è accaduto. È stato un errore, di valutazione, di percezione, ma necessario perché mi sento differente, più maturo. Gli errori hanno bisogno di un’ assoluzione e forse questo raccontarmi a una tua domanda su un ricordo comune, è anche questo, ma sarebbe togliere forza all’errore se non lo considerassi parte di me. È una sorta di faglia che può essere riattivata e che resta dentro, perché in fondo è me. Se mi innamorassi di nuovo potrei sbagliarmi nuovamente ma non sarebbe lo stesso errore, non ci sarebbe una coazione a ripetere perché sono stato gettato innanzi da me stesso e nell’inferno ci sono già sceso. Dovrebbe essere un nuovo inferno, e si è fermato, con un sorriso appena accennato, ha ripreso, o un paradiso. Ammesso che noi non conteniamo sempre entrambi.
E ha cominciato a sorridere, ad abbracciarmi per andare via perché aveva fretta. E ringraziava e voleva ci vedessimo presto e contraeva e distendeva il viso e io non sapevo se avevo riconquistato un amico oppure se era definitivamente andato. Questa volta con una spiegazione.