Nei codici di appartenenza emerge il gergo. Parole, gesti, modalità d’interazione, sono distintivi per sentirsi di un gruppo e appartenere a qualcosa. Il gergo verbale è barriera verso gli estranei e vale ovunque, nei gruppetti giovanili, nel quartiere, nella società, in ambito scientifico, in politica, ovunque.
Se ho fatto fatica a imparare, a fare carriera politica, se sono nato e cresciuto in un certo ambito, non ho l’obbligo di essere chiaro, anzi mi devo rassicurare che appartengo ad una cerchia ristretta e attraverso i miei modi dire parlo con chi capisce.
C’è una valutazione di superiorità rispetto a chi non può appartenere, questi è al massimo, uno straniero, un dilettante, non un adepto. Da ciò la connotazione negativa del dilettante e ciò che un tempo era segno aristocratico ed elitario, ovvero far le cose per diletto, eccellere per piacere, ma non per mestiere o denaro, è diventato sinonimo di pressapochismo, di prestazione non paragonabile allo specialismo. Amo i dilettanti perché riempiono di passione il mondo, rispetto i professionisti perché gli danno continuità. E finisce qui, almeno per me.
Lo stile è altra cosa. Nasce nell’individuo, lo disciplina in ciò che ritiene di essere, lo connota, non usa gerghi perché il linguaggio è implicito nell’immagine che mostra. E non ha bisogno di apparire, perché essere fedeli al proprio stile è aderire a ciò che si pensa davvero di se stessi. Insomma essere e basta.
I farlocchi non possono barare a lungo, perché chi si appropria di uno stile altrui non riesce a viverlo. Al massimo assomiglia, cerca sicurezza, anche col gergo: caricatura.
n.b. interpretare e portare a sé significa creare un nuovo sentire, essere l’inaudito. Per me lo stile è importante se m’ assomiglia..