Si è consumata un’occasione di riflessione sul perché ci sia il desiderio di fine. Lo thanatos che accompagna la razza umana, che gira in negativo gli impulsi, le opportunità.
A parte i giulivi, il rimettere in ordine le cose, eguagliando e spianando il passato, che significa? Tutti abbiamo molto da perdere, eppure questo desiderio occulto, scacciato, è presente nel profondo. Forse è l’esorcizzare la paura di ciò che è accaduto un tempo e di cui portano memoria i geni, o forse un senso di colpa atavico che vira verso l’oscuro, oppure ancora l’infanzia dell’umanità che è giovane e pur parlandone molto, non conosce bene il valore della vita. Forse.
In realtà ogni giorno il nostro mondo finisce un po’, demolito da noi con costanza e leggerezza degna di ben altre imprese. Eppure è bello dire ai bambini: oggi hai un giorno tutto nuovo da vivere, vivilo, non curarti troppo del ieri. E’ bello questo pensiero e incompleto, perché ogni giorno realizziamo una piccola fine di un pezzetto del nostro mondo, quello che serve a noi umani e a qualche altra decina di migliaia di specie mute.
Perché lo si faccia con sistematicità, smemoratezza e fiducia infinita di farla franca, non so, però accade e continua ad accadere. E se lo si insegna ai bambini, un qualche divertimento ci dovrà pur essere. Credo sia per questo che ci si preoccupa di una fine del mondo subitanea: ci serve tempo per distruggere tutti i giocattoli che ci hanno regalato.
Una premessa è doverosa, quanto segue è poco più di una sensazione, un’ubbia di cui tengo conto, ma non è definita nell’analisi, prendetela come un inizio di riflessione e magari passate ad altro. Mica m’offendo.
Oltre alle persone, cos’è che fa di una casa, un luogo percepito come sentimentalmente caldo, come possibile contenitore di felicità?
Ho l’ idea che le case, i luoghi che una persona ha abitato abbiano -e conservino- una loro immagine di felicità o meno. Anche per chi abita dopo, resta qualche sensazione di chi ha abitato prima. C’è una differenza tra una casa nuova ed una abitata magari da molto tempo, da molte storie e molti rimaneggiamenti. Non voglio parlare di cose che sconfinano nell’esoterico, ma molto semplicemente già interessarsi a chi abitava precedentemente è un rendersi conto che quella casa, quelle stanze, sono state viste e sentite con altri occhi, altre sensazioni.
I luoghi seguono nell’umore i loro abitanti, ovvero sono allegri o tristi o indifferenti, e questo non dipende solo dalle persone, e neppure solo dalla bellezza o dagli arredi. C’è un’ iterazione del tutto con noi che, inconsapevoli pupari, tiriamo i fili del nostro ben essere ovvero del suo contrario. Quindi almeno c’è una necessità di essere consapevoli che i luoghi ci possono influenzare e che “governarli” va verso lo star bene.
Ma da cosa dipende questa sensazione? Dal colore delle stanze? Dalla luminosità? Dalle cose che contenute? Il fatto che quel luogo sia cresciuto con noi, che sia nostra immagine?
Quand’è che una casa, anche la nostra, diventa il posto dove rifugiarsi, ma non è automaticamente il benessere che vorremmo?
Se torniamo indietro nelle nostre vite e pensiamo alla casa dell’infanzia, alle sue stanze, come la sentiamo? Era generatrice di felicità oppure solo contenitore delle persone?
Con queste domande vorrei afferrare quello che interagisce con le persone, che porta la casa oltre la sua funzione di sicurezza ed espressione ed entra nella percezione di essere un posto in cui si sta bene. Trovo elementi fisici, che chi fabbrica complementi d’arredo conosce bene, ad esempio i colori chiari, pastello, che infondono serenità. L’abbondanza di luce che aiuta ad essere più positivi, a guardare fuori della casa stessa e di noi. I mobili che scegliamo e non subiamo, le cose che diventano una nostra estensione, quindi parte di ciò che sentiamo. Potrei continuare pensando che lo spazio fisico è comunque un contenitore di desideri realizzati o meno e che questo influenza il grado di soddisfazione e quindi di benessere. Ma tutto questo non basta a far dire che quel luogo sia il possibile contenitore della felicità. Ecco, io penso che una casa sia un insieme che interagisce con i suoi abitanti e che viene percepita come un luogo felice se viene riempita di condizioni di equilibrio, di dinamiche non aggressive, di desideri soddisfacibili, di comunicazione attiva.
Se vado indietro nelle case della mia infanzia ci sono parti che sento come luoghi del ben essere ed altri invece come negativi. Allora devo chiedermi quanto hanno influenzato quei luoghi, la mia famiglia, l’amore che è circolato. Ne nasce una psicoanalisi delle case e dei luoghi come contenitori di sensazioni e di decisioni, comunque non neutri, bensì interagenti. In qualche momento questo apprendistato a rapportarsi con i luoghi si è maturato e compiuto. A mio avviso è stato dopo che eravamo usciti di casa. Se si pensano i tempi dell’andarsene che coincidono poi, con un progetto di vita, la casa ne diviene espressione. Da allora noi ci misuriamo con le nostre famiglie d’origine, oltre che per amore, per confronto su quello che abbiamo creato e quello che abbiamo ricevuto per costruirci come siamo. Man mano si procede con gli anni, si capiscono cose che un tempo ci hanno fatto male ed allora emerge il bene ricevuto, anche i luoghi vissuti distrattamente capiamo e sentiamo, ma in fondo se siamo diversi dai nostri genitori, se abitiamo in luoghi diversi, un motivo c’è ed è che ci siamo costruiti -ed abbiamo costruito- a partire da loro, anche materialmente, ma non siamo come loro. Se immaginiamo come sarebbero loro adesso al posto nostro, dove viviamo e come siamo, il confronto salta nella nostra testa: non li riconosciamo più. Od almeno lo spero, perché con tutto il giovanilismo che circola, il rischio di avere genitori e figli in competizione sul versante dell’età percepita, luoghi compresi, non è inusuale e così le categorie di confronto saltano, sostituite da una perenne comune adolescenza.
Mi si può obbiettare che i luoghi siamo noi, che tutto viene riportato a noi e quindi che è fatuo cercare all’esterno ciò che già abbiamo, ma se anche questo fosse solo un sintomo, una traccia, perché trascurarla, perché non riconnetterla a ciò che si desidera, ovvero il ben essere e il ben stare?
Voler vivere bene ovunque modifica i luoghi, ma dove si permane li modifica di più, siamo esigenti e non è incidentale il fatto che un luogo venga sentito come desiderabile, positivo, caldo. Questa sua natura percepita dipenderà da come noi lo viviamo, in tutti i sensi.