7 giugno 1984 : “Compagni, lavorate tutti, casa per casa, strada per strada, azienda per azienda”

Stasera eravamo in 60, quella sera in 5000, una settimana dopo a Roma più di un milione. Stasera stessa piazza, molti volti sono gli stessi di allora. E gli altri?

Di quei giorni ricordo molto e ancor più la sensazione che cominciò a crescere a partire dai basta che si cominciarono ad urlare in piazza vedendo che stava male, fino alle notizie, prima frammentarie e poi nella notte più certe, che arrivarono: Berlinguer era in ospedale, operato, ma non era morto. Chissà. Dal momento in cui iniziai il servizio d’ordine in ospedale fino all’epilogo corsero tre giorni. Tre giorni fatti di visi importanti per la sinistra, entravano Pertini, Pajetta, dirigenti nazionali, uomini, donne e la famiglia. A noi, che eravamo fuori ad arginare gli intrusi, pareva d’ essere una membrana osmotica umana tra un dolore che riguardava chi l’aveva conosciuto e vissuto da vicino e gli altri, fuori, ad attendere notizie, che l’avevano parimenti vissuto, intuito e sentito come la parte buona del Paese. Poi ci fu il giorno della morte e l’inizio di un funerale che cominciò a Padova e finì a Roma due giorni dopo. C’era un’acqua battente, quel giorno a Padova, eravamo zuppi, con una folla che cresceva, che accompagnava. La stessa che per giorni aveva atteso sul piazzale, solo che diventava fiume, portava verso Roma.

Rischio molto con i sentimenti di allora, a ricordare, ma fu quello un momento di consapevolezza per come avrei voluto essere allora e poi. E non era solo una questione politica, ma la vita, la responsabilità, la società attorno erano state proposte nelle modalità giuste. Si poteva derogare, far diverso, ma il giusto si sapeva qual’era. Austerità nel vivere e nel consumare, quella che ora si chiama decrescita felice, lotta alla corruzione nella cosa pubblica e nei partiti, che adesso come allora si chiama moralità, diritti delle donne, crescita basata sulla conoscenza, difesa dei diritti dei lavoratori e del lavoro, eguaglianza, libertà tra i popoli. Nel discorso all’Eliseo del ’77, c’era un programma sociale per il Paese, per un’Italia diversa e giusta e il PCI perse 4 punti alle elezioni. Non si accettarono quei principi che facevano, e fanno ancora la differenza. Dopo la sua morte, tra le cose che furono eliminate presto, ci fu la diversità, e invece in un paese conforme, sempre dalla parte del vincitore, disposto a giustificarlo sempre e comunque, la diversità serviva.

Qualche volta mi chiedono perché ero comunista, come se pensare all’eguaglianza, al diritto dell’uomo di essere pienamente tale, alla solidarietà, alla liberazione dalla schiavitù dei rapporti di subordinazione di genere e di classe siano cose non più necessarie. Con pazienza spiego che non è un’ubbia da giovani, un modo di non riconoscere la realtà, ma proprio il modo di vederla e di pensare cos’è giusto e cosa non lo è. E magari aggiungo che Berlinguer queste cose le mostrava con le parole e con l’esempio. Stasera non c’erano molti giovani in piazza, c’erano le bandiere della diaspora, almeno 4, perché Berlinguer non era di nessuno e neppure oggi lo è, però quello che diceva, l’esempio che portava nel fare politica, quello è di tutti. Per questo mi piacerebbe che molti giovani lo conoscessero, perché il suo modo d’essere, era il loro, con la visione, l’entusiasmo e la fede nel cambiare che solo i giovani o chi resta tale, possono avere.

« La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico. »
(Enrico Berlinguer, da un’intervista a la Repubblica del 28 luglio 1981)

lasciare e lasciarsi

Nel lasciarsi tra persone, anche se entrambe sanno che sta finendo qualcosa di importante, c’è comunque un’asimmetria. Qualcuno dovrà prendere l’iniziativa perché un percorso si è concluso. E se il rapporto era forte, chi prende la decisione sta peggio di chi verrà lasciato, perché non se ne può lamentare, non vedrà l’altro con altri occhi, non potrà sminuirlo, farà i conti con un’assenza che ha provocato. Certo poi ci sono i disgraziati, gli emuli poveretti di don Giovanni Tenorio, gli immemori, i superficiali ecc. ecc. e la cosa si declina indifferentemente al maschile e al femminile. Ma non sono maggioranza, a mio avviso.

E non pochi, vorrebbero tenere tutto, ciò che finisce, ciò che inizia, ciò che è in atto. Vorrebbero che tutto fosse eguale eppure diverso, così non hanno il coraggio di lasciare e attendono che qualcun altro, o il fato, decida per loro.

Forse dipende da una paura lontana di non avere più mani amorose attorno, forse è la tristezza del lasciare che avvolge il cuore e la vista, ma comunque sia non riescono a vedere che ogni fine, oltre che un dolore,  è un inizio.

il senso delle ferite ricevute

Con la distanza le ferite non fanno più male, ma non si dimentica, l’indifferenza non è possibile. Se qualcosa colpisce chi ha ferito, si generano sentimenti ambivalenti, una triste soddisfazione ed una comprensione, altrettanto triste. E’ la misura dell’imperfezione, ci hanno raccontato storie sulla perfezione, credo che solo accettando ciò si è, sia possibile cambiare. Un’altra storia a doppia faccia che è comodo credere, è che si possa cambiare sempre oppure che ormai non si cambia più. Già l’esigenza di porre il problema, in realtà pone una questione che riguarda non la necessità di cambiare, ma come affrontiamo la cosa, ovvero se si vogliono mettere le mani in ciò che ci fa male, che non ci piace, oppure se ci si rassegni a tenerci, non la parte migliore di noi, ma quella meno faticosa. Credo che questa sia la scelta e che l’una o l’altra opzione non abbia un valore morale, che visto che il dolore è una faccenda personale alla fine ognuno avrà vissuto come voleva vivere.

Nei rapporti tra persone ci si può scambiare, e fare, molto bene, ma anche ferire in profondità. Non di rado entrambe le cose. Se il rapporto è stretto, forzato o meno, una strada si trova, magari molto costretta e fatta di necessità. Se il rapporto è una scelta, allora le conseguenze delle ferite hanno un aspetto che dovrebbe essere valutato guardando dentro e fuori: ricevere una ferita è un bagno di verità, aiuta a vedere l’altro nella sua realtà, quella che abbiamo accuratamente evitato di vedere perché ci faceva comodo fosse come noi lo volevamo. Si pensa fino a prova contraria: sei come io ti voglio. Quindi una ferita aiuta a vedere, ma aiuta anche a distaccarsi, sia fisicamente che mentalmente, perciò ha una sua positività di cui faremmo volentieri a meno. Infatti l’essere feriti è comunque un tradimento di fiducia in sé, anzitutto, e questo provoca un secondo effetto, ovvero ci mette davanti alla scelta: andiamo avanti, teniamo il rapporto anche se non sarà più come prima perché il velo è caduto, oppure rompiamo il rapporto e senza vivere in ciò che non sarà, si procede, ritornando a noi? Credo che in entrambi i casi ci sia un cambiamento, il che significa che si può cambiare sempre, e che accade anche attraverso la gioia e non solo la tristezza, ma quanto profondo sia il cambiamento dipende da noi. L’errore, in chi lo riconosce, è il più potente motore dell’apprendimento.

Non c’è nessuna idea di perfezione in quanto penso, gli errori insegnano molto, ma non a non farne e neppure l’accettazione di sé, se non vogliamo diventi una mortificazione, è un fatto statico, è tutto dinamico e riportato a noi che esaminiamo, comprendiamo, viviamo anche le emozioni negative, magari cercando di non permettere che queste aggiungano male al vivere. Quello che non è utile, penso, è non capire che il dolore può cambiarci, renderci migliori a noi e che per questo è un fatto personale. Tornare sui propri passi, rifugiarsi nei porti tranquilli, pensando che sia sempre tutto come prima, è chiudere gli occhi,  raccontarci una storia che testimonia tutta la nostra debolezza e la non volontà di utilizzare il dolore della ferita per vederci davvero come siamo. E cambiare.

p.s. voglio spiegare la scelta del filmato: Farinelli è un castrato, credo che poche violenze per il piacere altrui abbiano avuto, per secoli, meno riprovazione morale. Quindi ferita doppia, non sanabile e in più giustificata. Persone costrette a soffrire, accettare la sorte e cambiare. Ma lo stesso si potrebbe dire per molto d’altro che conculca l’espressione del sé, la costringe e mortifica. Fino al quotidiano più piccolo, che si vive, nelle nostre piccoli, grandi ferite.

Lascia ch’io pianga

mia cruda sorte,

e che sospiri la libertà.

Il duolo infranga queste ritorte

de’ mei martiri sol per pietà.