solo sfortune?

L’aumento vertiginoso dei compro oro testimonia la miseria crescente e la grande quantità di contante che esiste ed è altrettanto presente. In altre mani naturalmente. Così piccole antiche fortune, momenti di tenerezza tangibile, affetti oggettivati, vanno sul bilancino e cambiano proprietario. La pubblicità di un orologio famoso, e caro, dice che non lo si possiede mai interamente, ma lo si trasmette, adesso non è più così per un italiano su quattro che affronta i problemi momentanei con quello che ha e aprendo la porta di un compro oro, ma non risolve la sua condizione che ha bisogno di ben altro intervento. Anche di consapevolezza. C’è una solitudine emblematica in chi entra in questi luoghi, invero squalliducci ed è quella di non essere assieme sui problemi veri. Ci si diverte assieme e si soffre da soli. Verità polverose, ma come mai emergono tutti questi soldi per comprare, e che fine farà tutto quell’oro, quegli oggetti, quelle pietre? Sembra non ci sia nulla di speciale, è tutto alla luce del sole, anzi pare serva una autorizzazione della Banca d’Italia, per fare questo lavoro. Sì, ma da dove viene tutto questo denaro?

Un paese sano è quello che conserva le proprie fortune, che costruisce su di sé e quindi tiene nelle case le testimonianze dei sentimenti e del benessere raggiunto con fatica. Un paese sano aiuta i propri cittadini a non scivolare nella miseria. Un paese sano segue la ricchezza e il denaro e chiede da dove proviene. Invece oggi più di ieri, sembra emergere una visione di potere del denaro e di equivalente debolezza di chi può contare solo su di sé. Si sono comprate anime, vite, adesso oggetti che verranno fusi, solo ciò che è più pregiato resisterà intero e verrà rivenduto come oggetto. Anche gli uomini? Miseria e ricchezza, impotenza e potere, possibile che non ci sia nulla da dire?

piazza Taksim e i baci

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In queste settimane in cui la natura infingarda della politica, e del denaro da cui essa dipende, si nasconde tra eufemismi davanti alla Turchia e alla Siria. Si rivela impotente per scelta e manda vuoti messaggi di moderazione, come ha fatto contro ogni primavera di popolo. Non usa le armi incruente del blocco commerciale per difendere la democrazia e neppure ritira gli ambasciatori, perché se per caso scoppia la pace, bisogna essere presenti a ciò che accade dopo. E ciò che accade dopo non è sempre edificante, anzi quasi mai lo è, ma è molto redditizio. In queste settimane di pubbliche abulie, mi è tornata a mente che una delle battaglie, marginale per noi, ma che nei paesi musulmani tale non è, sta nella possibilità di baciarsi in pubblico e di tenersi per mano. Cosa semplice e pulita, ma naturalmente con tutto quello che questa possibilità trascina con sé.

Baciarsi in pubblico è un reato in molti paesi musulmani, Turchia compresa. Anche da noi, un tempo, in qualche modo lo era. Negli anni ’50 del secolo scorso (e in alcune parti d’Italia per tutti gli anni ’60), farlo era riprovevole e poteva essere sanzionato come contrario alla decenza. Poi venne il ’68 e il baciarsi in pubblico e molto d’altro divenne comune. Cambiarono molte cose che avevano come espressione quel gesto d’amore e credo che i giovani turchi, e non solo loro, sappiano bene come questa battaglia incruenta contenga non poco cambiamento e trasformazione democratica. Che un fatto personale, diventi libertà collettiva è politica e così muta i rapporti tra uomini. Ristabilisce una eguaglianza, toglie il dominio del maschio. Tutte cose dirompenti. Così accanto alla difesa degli alberi del Gezy parc, contro l’arroganza del potere e nella molteplicità di motivazioni che portano le persone in piazza Taksim a protestare per la propria condizione, mi piace pensare che contro gli idranti, le botte, i lacrimogeni e i proiettili ad altezza d’uomo, ci sia anche questa rivendicazione. E che Bella ciao, un canto di libertà e d’amore tra un uomo e una donna, contenga anche la libertà dei baci.

minimizzare le conseguenze

Cosa determina nella testa di un uomo con un’istruzione elevata, competente nel suo lavoro, che possiede un etica e un giudizio, la sospensione del rapporto-causa effetto su quello che decide? Cosa gli fa decidere l’ignoranza o il non voler conoscere per interesse, quando sa che sapere lo porterebbe in una situazione di conflitto morale interiore? E ancora, perché questa condizione non lo porta comunque a porsi domande? Il sapere è un’aggravante quando si fanno cose che sono dannose agli altri, quando c’è coscienza di ciò che accadrà, eppure le risposte vengono sistematicamente rimosse. Sarebbe importante che la psicologia fornisse risposte usabili su questi meccanismi di sospensione morale, di rimozione sociale e li proponesse alla sociologia, alla filosofia per capire come si generano queste propensioni al male. Se esso è per denaro o potere, perché continuano a delinquere quando ce n’è abbastanza, molto più dello spendibile e del necessario? Sono tutte domande che in presenza di reati contro l’uomo non hanno per me risposta certa. In particolare nei reati ambientali che costellano l’Italia e il mondo, emerge questa natura venefica del profitto senza morale. L’eternit, l’Icmesa, le tante fabbriche di veleni sino all’ Ilva, hanno dirigenti, manager, proprietari e consigli di amministrazione che sapevano eppure hanno continuato, deciso, fatto.  E ancor oggi minimizzano, esattamente come fa il piccolo imprenditore che consegna un carico di tossico nocivi da smaltire e non vuol sapere dove, ma quanto costa. Indifferente se dietro ci sia una organizzazione criminale, un possessore di discarica che non bada a ciò che sotterra.  Anni fa conobbi, prima dei processi e di qualche mese di prigione, uno di questi proprietari di discarica, che diceva di inertizzare ciò che riceveva e semplicemente seppelliva. Era una persona affabile, normale nei comportamenti, neppure tanto attaccato al denaro, rispettato nel suo paese, eppure stava riempiendo di porcherie territori che ora covano uova di serpente.  Terreni che nessuno bonificherà mai, perduti per sempre, perché altre sono le priorità e i costi talmente elevati da non essere sopportabili per un comune o una regione. La legge che dice che dovrà provvedere l’inquinatore non si riesce ad applicare dopo i fallimenti, e dopo che le proprietà sono state messe al sicuro non si trova nulla da aggredire, così c’è un danno immane che continua il suo effetto inquinante, che toglie salute e possibilità di utilizzo dei terreni, praticamente per sempre. A parte i delinquenti efferati che fanno sapendo di fare, credo che nella testa degli altri scatti una minimizzazione del danno, una rimozione degli effetti di ciò che si compie. Non so spiegarlo altrimenti. Credo si pensi che tutto si possa diluire, che la natura abbia un effetto sanificatore su ciò che le facciamo. Ma la natura non bada a noi, le siamo indifferenti, non ha una pietas indirizzata all’uomo e alla sua vita, casomai genera altra vita, la adatta al nuovo ambiente, come sta accadendo a Cernobyl, per questo credo si sottovalutino i reati ambientali perché quando si perseguono le morti sono già accadute e risanare diventa impossibile. Quindi la giustizia non è inutile ma non basta.

Credo che tutti possediamo questo meccanismo del non trarre le conseguenze di un comportamento oltre il limite del lecito e forse indagare perché ciò avvenga, aiuterebbe a capire, educare, prevenire e sanzionare più duramente. Non vedo alternative ad una responsabilità maggiore e piena su ciò che si compie, troppe attenuanti rendono conveniente il male, lo riducono a probabilità e così sembrano togliersi ogni responsabilità. Ma quando qualcuno muore o viene mutata permanentemente la vita, il reato ambientale è un eufemismo, un minimizzare, che nasconde l’omicidio.