a poco a poco

Le nubi bianche, gonfie contro il cielo azzurro, la piazza tra i palazzi e il centro commerciale di periferia, i mattoni rossi per terra, le panchine, le sedie allineate. Attorno un cerchio di persone. Quante saranno? più di duecento. Al vento caldo, le bandiere rosse della C.G.I.L., quelle del PD e una dell’Europa, vicino alla bara. Una bara di legno povero, con le rose rosse, la musica di De Andrè. Ti sarebbe piaciuto vederci attorno a Te. Ma avresti tagliato corto, non amavi le cerimonie: la tua vita è stata una vita di cose concrete. I discorsi servivano per convincere, per lottare, per fare, dovevano essere utili a qualcosa.  E ti piaceva fare, imparare con le mani e con la testa. Oggi non c’è più questa abilità, un tempo era quasi naturale saper fare, per questo hai costruito cose che sembrano impossibili, fatto più mestieri e tutti bene.

Gli anni ’50 e ’60 per crescere, come la tua ce ne sono state tante di vite. La guerra finita da poco, le migrazioni dalla campagna alla città per carenza di lavoro, la fabbrica, il PCI, il sindacato. La militanza, si diceva così allora, significava esserci, capire, ma anche diffusione dell’Unità tutte le domeniche, le campagne elettorali, le discussioni in sezione. Comunisti. Era difficile allora lavorare e dire quello che si pensava, nel lavoro bisognava essere bravi il doppio, perché non c’era lo statuto dei lavoratori e per motivi politici o sindacali, si veniva licenziati, allora bisognava essere preziosi per il padrone. E la dignità era un rischio che chi aveva cuore correva, ma quanti stavano zitti.

La tua è stata una vita piena di studio, analisi, e di cose concrete, lavoro anzitutto, anche quando hai cominciato a fare il sindacalista a tempo pieno. Rigore nell’analisi e nella discussione e allegria nella vita. Ti piaceva il cinema, la lettura, la musica. Chi ha detto che i comunisti erano tristi? Apprezzavano le cose della vita, avevano una speranza molto materiale: vivere meglio qui e non altrove o dopo.

Ieri guardavo i volti, moltissimi li conoscevo, ma c’erano anche tanti giovani. Tu ci credevi ai giovani, discutevi con loro, li sostenevi. Tenere insieme le generazioni è un valore perché la lotta è lunga, il cambiamento lento, i diritti difficili da ottenere e mantenere. Ma questo lo si pensava allora, e tu hai continuato a pensarlo. Ci sono stati tre discorsi, la tua vita è stata raccontata, un giovane ha parlato per ultimo e s’è commosso. Come tutti noi. E ci sono stati gli applausi, più volte, perché te li meritavi. A me non piacciono gli applausi in chiesa, neppure i discorsi in chiesa mi piacciono, ma eravamo in una piazza. C’era la tua gente e gli altri che passavano e chiedevano di questo funerale sotto il sole, con le nuvole bianche del primo pomeriggio e il caldo già estivo. E pareva bello che si fosse assieme, un po’ strani, ancora, come allora, per questo gli applausi ci stavano tutti. 

una generazione che voleva spiccare il volo

Prima delle parole, colpisce il fumo. E’ una tribuna politica e il giornalista, che rivolge a Berlinguer la domanda sulla possibilità di cambiare nome al Partito Comunista, sta fumando in televisione. E quel fumare, non la domanda (che pure farebbe riflettere in questa stagione in cui i partiti cambiano nome con più frequenza della biancheria intima) , rende consapevoli del distacco tra questi e quegli anni. Distacco di abitudini, distacco culturale, distacco di parole e di idee. Credo che una parte del film di Veltroni, sia incomprensibile a chi oggi ha meno di 40 anni, e che parole come eurocomunismo, U.R.S.S. , i nomi dei protagonisti, la stessa parola comunismo, non abbiano significato pratico, cioè non corrispondano a nessuna esperienza vera. Questo iato generazionale si è consumato senza che la mia generazione se ne avvedesse, continuando a pensare che i suoi termini di esperienza, e quindi le parole, fossero comuni mentre, in realtà, queste perdevano consistenza per le persone a cui parlavamo. Quindi non si è trasmesso nulla o quasi e ciò che ha caratterizzato una parte importante della storia comune del Paese diventava, intanto, materia per storici, non tessuto vivo su cui innestare il nuovo.

Non è una constatazione amara, è una consapevolezza. Quello che ha infiammato discussioni, provocato sconvolgimenti collettivi, cambiamenti e mobilità sociale non esiste più come cultura comune. Di certo i fallimenti dei partiti, provocati da quella questione morale che Berlinguer aveva indicato con tanta acutezza, facevano parte di un ordine possibile delle cose, ciò che non si era messo in conto era il fallimento contemporaneo delle idee. E non perché queste fossero staccate dalla loro possibilità di modificare il futuro del Paese, e quindi di tutti noi, ma perché quelle idee non erano più materia di passione, non erano in grado di cambiare le vite dei singoli, prima che quelle di tutti.

Quando c’era Berlinguer, parla di un uomo e di una generazione, che non importa fosse o meno comunista, ma che viveva tutta in un confronto di futuri possibili, di alternative alla insoddisfazione del presente. E questo si collocava in un situazione nazionale e internazionale che era comunque movimento del’umanità. Due blocchi e due prospettive, e tutte le varianti nazionali. Quando Berlinguer davanti al 63 congresso del P.C.U.S.  rivendica la libertà dei singoli partiti comunisti nazionali da quello sovietico e rifiuta il ruolo egemone dell’ U.R.S.S.  defininendo la democrazia e l’alternanza, come ambito politico per governare gli Stati, nell’enorme sala c’è il gelo, ma in occidente se ne parla ovunque. Ovunque significa non solo nei giornali, ma nelle case, al lavoro, nei bar e diventa materia di ulteriore confronto, di idee personali, e infine di consenso politico. La politica e le vite hanno un legame, le parole conseguenze e sono veicolo di cambiamento. Mi è stato chiesto cosa significasse allora essere comunista. Per me e per molti altri, voleva dire avere un’idea in grado di orientare una vita, il suo impegno sociale, il lavoro, lo studio, la famiglia e il coinvolgimento riguardava il singolo per un obiettivo di tutti. Non era un’idea angusta, era un modo grande di vedere la società, i suoi rapporti, il suo evolvere verso forme più giuste ed eguali. Credo che Gaber lo abbia sintetizzato mirabilmente nel suo qualcuno era comunista, parlando di una generazione che voleva spiccare il volo.

Il film di Veltroni è fatto bene, era importante farlo, non per la ricorrenza dei 30 anni della morte, ma per la testimonianza che qualcosa è accaduto. L’inizio dice tutto, con quei ragazzi che non sanno chi era Berlinguer, non sanno nulla di ciò che c’era, e ci fanno capire che se si spiegano delle vite, milioni di vite, con parole solo nostre, in realtà si racconta una storia. Quella che si legge sui libri, non quello che si sente dentro, quindi una nozione. Ecco il motivo per cui un film che mi è piaciuto, mi ha reso malinconico, oltre al ricordo e all’esperienza diretta: avevamo ricevuto un testimone, comunisti o democristiani che fossimo e non siamo stati in grado di passarlo, non è passata nessuna idea di mondo alternativo, si è lasciato darwinianamente fare. Sembrerà strano, ma c’era più libertà allora, più possibilità di crescita, più alternativa di adesso, dopo che una parte ha perduto e l’altra è dilagata. Ma anche questo lo si capisce per confronto e i ragazzi non lo sentono e non è il loro modo di vedere il mondo e neppure la loro idea di cambiamento. Questo fa sentire il baratro che si è aperto e lascia quella sensazione che si sia davvero chiusa un’epoca. Non nobis domine, non più, tocca ad altri che abbiano le giuste parole.