Visti dalla terrazza del Palais, sembrano stormi di passeri in inverno. Uguali, neri, avvolti d’abiti firmati nel vento di marzo. S’aggregano a crocchi e disputano chissà quale becchime. Quelli indietro, chiedono insistenti: chi è, cosa c’è, da quando? Ma nessuno risponde. I primi si serrano, discutono animatamente in più lingue, ridono. E bevono. Santoddio, come bevono. Per tre giorni è una continua bevuta. Gole assetate che tracannano champagne, vini spagnoli, italiani, cileni, francesi. Senza sequenze, nè logiche. Solo i tedeschi sono veramente democratici, cominciano con la birra, dopo il vino, finiscono con la birra. E ruttano e ridono, con occhi tristi, perchè chi comincia a ridere è contagioso, ma sa che non c’è nulla da ridere.
Ad ore canoniche i crocchi diventano sciame, si dirigono verso alberghi, ristoranti, pulmann, limousine a nolo. Ed inizierà l’orgia del crudo: ostriche, scampi, crostacei e conchiglie, tra chiacchere, donne e preoccupazioni. Anch’esse crude.
Non funziona, perdio, non va nulla. Hai visto gli arabi, non ci sono più, restano i russi, i coreani. Neppure i giapponesi si son fatti vedere.
E’ diventata una sagra, piena di parvenù, con un sacco di progetti e niente soldi. Non vale i costi, noi veniamo solo per far capire che non siamo morti.
Che dici ci si vede l’anno prossimo?
… saremo rimasti metà dell’anno scorso…
E i passeri diventano falchi, sono pronti a bersi le uova per sopravvivere.
Visti dall’alto si aggregano, sciamano, parlano. Soprattutto parlano. Non sperano, cercando di vivere, aspettano che passi.
Oltre la strada, lungo la Croisette, nella piazza i pensionati giocano a bocce, altri guardano o camminano, cercando di svernare bene.
I ricchi scivolano sulla confusione e neppure scuotono il capo: sono trasparenti i passeri. Dopodomani se ne andranno e il casinò tornerà decente.
In fondo la Costa Azzurra è l’unico posto democratico, dove un’auto da 150.000 euro, guidata dal bello di mammà, sparisce a fianco delle Bentley e mentre il nostro si guarda smarrito, basta dire indifferenti: qui sei nessuno enon sono arrivati i comunisti, è il capitalismo, bellezza.
Il treno sguscia nella notte verso nord. Ai lati il mare, le luci di stazioni di servizio, le finestre accese per la cena. Il cielo del Gargano oggi era bellissimo: grigio, screziato di azzurro e nero, come solo i cieli di mare sanno fare. Alla terra, verso ovest, era riservato il giallo del sole riflesso. E dappertutto il verde nuovo di marzo, con i ciliegi, i pruni, i mandorli e chissà cos’altro, a fiorire tra viti e olivi. Alcune cose le meriterebbero solo quelli che fanno la fatica del coltivare, ma il cielo è di tutti, assieme ai nembi che si accalcavano verso il sole, dietro l’appennino. Sub appennino, come si chiama da queste parti, una roccia tufacea che lascia gli abitanti indecisi se essere gente di monte o di pianura. Molte pale eoliche girano piano. Non mi disturbano le pale eoliche: sono meno impattanti dei tralicci d’alta tensione. Anzi quel loro muoversi piano ricorda le girandole dei bambini; se le colorassero di più sarebbero l’elemento che ci porta fuori da questo mondo così concentrato nell’alta opinione di sé. Mi hanno detto: qui ci sono i furbastri e gli onesti, sono costretti a convivere e i primi non imparano dai secondi, casomai si appropriano. Come dappertutto, ma forse i furbastri non possono appropriarsi dei colori, di questo andare lento delle stagioni, devono per forza, accelerare tutto. Anche per l’energia è così. Mi ripugna vedere i campi con i pannelli solari: il territorio è già coperto di capannoni e case, che bisogno c’è di coprire il verde per 25 anni? Basterebbe incentivare solo i pannelli sui tetti e il resto renderlo difficile. In questi mesi l’Italia sarà ancor più oggetto di occupazione da parte dei furbastri, fare campi fotovoltaici è un affare, e così da un’azione meritoria -la produzione di energia da fonti rinnovabili- ne verrà un danno. Tra 25 anni, chi rimuoverà tutto quel silicio dai campi, chi riporterà a cultura i terreni senza contadini? Il maggiore produttore di energia è il risparmio nel consumarla, ed è anche il maggiore produttore di nuove professionalità e lavoro, ma i furbastri preferiscono le cose facili, le concessioni negoziabili e cedibili alla finanza e alle borse. Senza cedere alle mode fintoecologiche, basterebbe guardare dietro alle cose, farsi qualche domanda e poi verrebbe spontaneo rimettere in ordine case e palazzi, ma questa è una opportunità lasciata alla sensibilità dei singoli. E soprattutto non ha ancora un valore di mercato. Come il cielo e il verde, che non serve se non si vede.
L’altopiano respira lento. Lo si sente dalle foglie dei quercioli, dai corbezzoli, dagli eucalipti radi.
Inspira. Espira.
Inspira e sfiora l’erba che ancora trascina il verde stanco dell’inverno.
Tutto ondeggia appena. Sincrono.
Lo sguardo scorre sino al lago, è da lì che sale il respiro, e s’accompagna alla notte nelle onde di nero. Prima i cespugli e l’erba, poi gli alberi, le rocce mentre sale, sale verso l’altipiano, lasciando luccicare l’acqua.
Il nero avvolge e riscalda, scorre dai piedi bene appoggiati, dal tepore morbido del muschio. I rumori si staccano: un grido d’uccello verso valle, un richiamo dal paese, l’auto che lontana, sale sulla collina di fronte. Un tornante e i fari roteano su se stessi, poi un’altro, così fino al limite della noia.
La notte e l’altopiano ora respirano ancora più quieti. Non dormono, sono accucciati in attese di tempi non umani. Anche l’allodola ascolta e non vola.
In un paese del Carso, alle dieci del mattino di un giorno di lavoro, chi vuoi che ci sia per strada? Anziani, soprattutto, con qualche eccezione accompagnata da un cane che trascina donne interessate al tempo, allo squarcio di mare che si vede dal poggio, al colore dell’aria, al traguardo del fine mattino. Randagi di tempo e di luogo in un mondo che invecchia. Oggi i randagi hanno casa, reddito, oggetti importanti e intrasportabili, ma si rinchiudono tra mura proprie e non amiche.
Ciò che chiude non ci vuole bene.
Randagi in un mondo che non accoglie, che confina in circoli elitari, che ripete icone e discorsi. Randagi che assentono sentendosi dire quel che sanno e che non hanno mai messo in dubbio, che si rileggono sui giornali, che si riascoltano per televisione. Randagi, un tempo rassicurati dalla grazia del lavoro, dell’affetto, dall’approvazione circostante. Randagi, immessi consenzienti in un circuito devastante non solo per le idee, ma soprattutto per la vita. Randagi spaventati dall’ attesa rimossa di un Alzaimer pietoso che annulli ricordi e condizione e riporti in altri la responsabilità del proprio vivere.
In questo randagismo della mente non c’è eguaglianza, è questione di risorse vitali. Al solito le donne sono diverse, quando malferme, trascinano carrelli della spesa, puntano risolute verso case in cui rinchiudersi prima di sera, sono grandi per la determinazione del vivere, per le abitudini consolidate screziate da nuovi interessi. Sono grandi, ma randagie anch’esse dopo che il mondo conosciuto lascia la propria traccia solo attraverso una pensione, sono randagie di un percorso che s’avvita su se stesso e si vuota di rispetto. Oggi i randagi hanno casa e non sanno gestire il mondo in cui vivono, hanno silenzi crescenti e oggetti incomprensibili che lampeggiano attorno.
Randagi di vita e di curiosità stanziali, in questo paesino come nella grande città, i randagi sono in attesa di passaggi salvifici e organizzati per affrontare l’unica cosa che l’uomo non riesce ad accantonare e stanare da sè: la solitudine.
Si oscilla tra il bisogno di sè, contrapposto al terrore del vuoto. Inseguiamo il mito del raccogliersi senza pensieri disturbanti, col tempo che fluisce e l’ozio salvifico, mentre le vite sono piene per necessità o per scelta. Qualche giorno fa ero ad un inutile corso per manager stressati. Ci guardavamo straniti ed in preda all’horror vacui, ma avremmo dovuto ricorrere ad altro che non fosse la banalità dell’ introdurre il life management nel time management. Finchè ascoltavo, distratto pensavo alla vita mia e a quella di gran parte degli umani e di come la vita venga riempita a mo’ di vaso, salvo romperla talvolta per eccesso di pressione. A come le donne nella loro vita colma, introducano affetti nel tempo ed invece, come gli uomini caccino gli affetti per utilizzare meglio il tempo. Credo si sappia che non amo molto le generalizzazioni di genere, ma in questo caso sono i ruoli ad aver introdotto una diversità evolutiva, configurato caratteri e sentire differenti. Più o meno, credo sia così. Quando si fa qualcosa che è fuori della propria abitudine o conoscenza questa prende il carattere del piacere o della necessità; in entrambi i casi per la sua episodicità, è più intensa e performante rispetto alla consumata gestione della consuetudine. Quando un maschio si occupa di bambini, anche se sono i suoi figli, lo fa con stile diverso, attenzioni differenti, non è abituato, non è il suo tempo prevalente. E’ un esempio, magari ricco di eccezioni, ma non distante dalla realtà. O almeno da quella che io percepisco.
Torniamo alla vita piena e alla risposta alla domanda: perchè riempiamo le nostre vite?
Per paura della della solitudine,
per non pensare alla banalità del quotidiano,
perchè è più semplice fare anzichè pensare,
perchè la stanchezza è una buona soluzione ai problemi irrisolti,
perchè la necessità rimette la vita in un arbitrario ordine confacente,
ecc.
Credo che sia per questi motivi e per molto d’altro. E se alla fine, come per l’amore, riempire la vita è una pessima risposta alla solitudine, al contrario di risposte più soddisfacenti, è semplice e dà altre soddisfazioni, quali il provvedere, il farsi carico, il denaro, il successo, il potere, o più semplicemente è quell’espressione del bene portato verso l’esterno che è la presunzione del rendersi utili. Quindi un bene deviato per sè, applicato agli altri e che non serve a nessuno secondo quanto promette. In realtà tutto questo riempire è una enorme ” ammuina” per fare apparenza, ma alla fine, come ben sa ogni donna e uomo, il chiudersi della giornata, lascia vuoti e sgomenti di fronte alla prospettiva di un nuovo giorno che ripeta il precedente. Solo l’horror vacui gestito, cessa di essere abisso e cambia i tempi, le relazioni, la vita.
Abbiamo una via d’uscita che passa attraverso il rischio e la curiosità. Entrambe come vengono e senza l’obbligo del fare, ché quest’ultimo non è obbligo inferiore all’inazione e chi sbandiera il fare ha spesso qualcosa da nascondere a sè stesso. Già sapere che c’è almeno una via d’uscita, aiuta, eppoi se una valigia vera o interiore è sempre pronta qualche significato ci sarà pure. Perchè è proprio l’andarsene la via naturale al troppo pieno, la soluzione modulare e semplice che ognuno utilizza come crede. Con la fantasia, con la realtà, a piccole dosi o con grandi strappi. Andarsene per avere un’altra possibilità.
Ho visto uomini e donne bellissimi in Senegal. Camminavano nella polvere che viene dal Mali, giocavano con i bimbi sul mirador, entravano nell’oceano ridendo, dopo aver corso sulla spiaggia. Non mi hanno mai lasciato il tempo di pensare: chissà cosa pensano davvero? Mi pareva coincidesse il gesto col pensiero.
Ho visto uomini e donne bellissimi. Vendevano pesci sulla spiaggia, si coprivano il viso se eri indiscreto, ti offrivano cibo prezioso per loro e difficile per noi, pregavano 5 volte al giorno restando animisti, meditavano guardando il mare.
L’ africa è una soglia che s’ apre con una tenda, le porte sono ornamenti senza sicurezze: noi chiudiamo e loro lasciano che una tenda ondeggi alla brezza della notte. Cumbacarà è una porta, Kolda è una porta, Dakar è una porta, la Gambia con il fiume che si solca con un arco largo è una porta.
L’africa è un continente a perdere, han detto sommessamente gli gnomi dell’economia, materie prime in cambio di rifiuti, carità al posto dell’autosufficienza, ma questo, gli africani, non lo sanno, non lo vogliono sapere e neppure si rassegnano all’evidenza. E’ per questo che avranno futuro, perchè non ci ascoltano.
Si allenano, mentre riposiamo in riva al mare. Si allenano, mentre ascoltiamo musiche fatte di suono puro, di ritmo senza tecnologia. Si allenano nelle notti percosse dagli jambè, si allenano alzandosi con il sorgere del sole, passano da un lavoro all’altro senza angoscia, pensano cambierà.
Per noi è ancora la notte senza leoni che si riempie di rumori, di fruscii e correre di zampette, è la notte in cui davvero riposa il sole, è la notte sudata che sovrappone pensieri di panna acida: l’occidente si può bere, ma non metabolizzare. L’hanno capito loro, dovremmo capirlo noi.
Ascolto idee semplici che parlano di credito rotativo delle capre, di sementi. Noi siamo complicati, ma adattiamo i sensi di colpa al bisogno, portando soldi per acquistare greggi e fare orti.
Le donne bianche chiedono dell’infibulazione, del dolore inutile che viene inferto, parlano di dominio dell’uomo, di potere reiterato. Non si capisce quanto sia diffusa questa tragedia femminile; con l’istruzione la pratica si allontana, dicono. Quanto lontano non si sa, ma in Guinea si fa ancora, dicono. E il confine è appena oltre le risaie del villaggio.
Il rappresentante di 53 villaggi della Guinea Bissau ha un berretto trapunto d’oro e la veste ricamata. E’ arrivato per chiedere che una frontiera tracciata dai bianchi non sia il muro per contenere la miseria e il bisogno. Aspetta il suo turno mentre parlano le donne – sono loro le protagoniste-, gli verrà concesso di parlare alla fine. Ogni giorno è giorno per le donne. Vanno a scuola con i proventi dell’orto e delle capre . Chiedono spazi in politica, vogliono partecipare all’ amministrazione dei villaggi, alla gestione dei beni comuni. L’autosufficienza alimentare che parte dall’orto di casa, permette di pensare, di fare richieste sui ruoli e meriti.
Gli uomini apparentemente lasciano fare. Adesso i bimbi vivono meglio, gli anziani sono rispettati e le nuove prassi hanno anche una loro saggezza. Chissà cosa accadrà quando emergerà davvero il cambiamento.
Un ragazzo corre, reggendo sulla testa un bacile di carboni ardenti e lascia scie di fuoco nella notte. Cade una brace, lui la schiva con una mossa di ballo, e ridendo, si perde tra le case. Una ragazza vestita di rosso, chiede la carità, osserva, poi prende il carbone e comincia a lanciarlo in aria. Lo prende in mano, guarda la scia, lo riprende e lancia verso l’alto. E ride.
Questa è l’africa.
Questa è l’africa dei bimbi di Dakar e di Cumbacarà che già dormono nella stanza con le donne. Questa è l’africa che ha visto tornare la dengue con la stagione delle pioggie ed ora aspetta il vento del deserto per spazzarla via.
Questa è l’africa dei bianchi assieme con le ragazze ed i ragazzi, dei bungalow veri e di quelli finti, delle parole che suonano familiari, ma significano altro.
Questa è l’africa degli animali che mangiano le sementi e bisogna metterle sul tetto del thialy, questa è l’africa degli uomini che mangiano le sementi perchè c’è carestia e fame e non si ha tempo d’aspettare un raccolto nuovo.
Questa è l’africa dove l’acqua esce color d’argilla dai rubinetti e ci si lava pensando che è meglio che niente. Questa è l’africa dove la notte è filtrata dalle zanzariere e cola giù dai tetti assieme a rumori di uccelli e topi, finchè tutto si risolve tra squillar di galli.
Questa è l’africa dove il mare dà pesci a non finire per barche di legno con la prua a becco che odora di resina e vernice.
Questa è l’africa dove le buche divorano l’asfalto e le piste sono meglio della strada.
Questa è l’africa così colorata che pare sempre allegra, dove la miseria sfibra chi la vede e non toglie la speranza a chi la vive.
Questa è l’africa che non ha cartoline, che non è un pezzo d’atlante, che è il riso dei bambini che si vedono sulla digitale e salutano. Salutano quando arrivi e quando te ne vai e chiedono il tuo nome, non da dove vieni, e ti stringono la mano e ridono perchè ci sei. Questa è l’africa che si sovrappone alla vita conosciuta e si capisce che non si è capito nulla, ma davvero nulla. Ed allora per salvarsi si cambia idea perchè bisogna fare, e poi si cambia di nuovo idea, di nuovo, finchè subentra il rispetto, e finalmente si sta zitti finchè non cesserà la paura di sbagliare.
Da Dakar a Cumbacarà, Casamancã, al confine della Guinea Bissau, cosa cambia? In città manca l’albero degli antenati, l’albero magico che protegge gli abitanti del villaggio, l’albero dove si seppellivano i Griot, i cantastorie animisti che sapevano troppo ed avevano troppi dei per essere tollerati nei cimiteri monoteisti. Eppure l’albero non è sparito, è cresciuto dentro questo popolo che ondeggia e ritma sui Jembé improvvisati, che balla con i griot dal berretto crinato, che è animista anche con un solo dio e mescola colori, povertà, risate, speranze forti e lucide, come gli aspiranti lottatori che la sera si allenano sulla spiaggia, e si preparano per una competizione con un disegno chiaro. Un disegno che noi non capiamo più.
Appena fuori dagli alberghi, la vita ribolle, i bambini si affollano per un bonbon, una foto. i venditori offrono thè, arachidi, arance verdi, intrugli e schiuma di tecnologia. La notte è tiepida, ma dura poco per noi occidentali, indagatori su piatti di carne, riso e strane presenze che emergono da pertugi pieni di fuoco per essere serviti. Cosa c’è dentro, cos’è, com’è fatto? Poi gli interrogativi s’accantonano e avvolgendoci d’autan, i discorsi ondeggiano tra ciò che si è visto e il pensiero della malaria, della dengue, della febbre gialla, delle zanzare. Già, le zanzare che portano tutto quello che non piace e che preoccupano noi e non chi vive tutto l’anno in questa terra. Tra poche ore il muezzin inviterà alla prima delle cinque preghiere, e noi, nei letti umidi, ci chiederemo dell’inverno, dell’africa, del giorno dopo.
Noi, non loro.
Il capovillaggio di N’diaye N’diaye ha detto, prima di pregare per noi e tra noi, che l’uomo può solo sperare, ma non cambiare il corso delle cose. L’ha ripetuto anche ai tedeschi che gli hanno promesso l’elettricità: servirà, ma non è tutto. Dicono abbia cent’anni, non è vero, ma oltre ad un corano e un quaderno, usa la testa e la parola lenta, ricca di sguardi, per governare. Non chiede – e come potrebbe se tutto è tracciato – ma accetta, riflette e comunica la speranza ai suoi, agli anziani che gli stanno attorno, da pari, alle donne che pestano arachidi nei grandi mortai di legno, agli uomini tornati dall’estero per aiutare il villaggio. Dice che è passato sopra l’Italia, una volta, andando alla Mecca, che ha un figlio che fa qualcosa da qualche parte tra noi. Non sa dove, ma tornerà. L’Italia annega nel sole che entra dalla soglia senza porta, tutti ascoltano la preghiera, mentre la luce invade il letto, la zanzariera piena di buchi rattoppati, la crepa larga sulla parete di mattoni crudi. L’Italia qui non conta, l’italia siamo noi che siamo qui, chissà per cosa e chissà perchè, con i dubbi di chi capisce poco e non ha pazienza, ma siamo benvenuti.
E’ stato un anno buono, soprattutto per me che non faccio consuntivi, nè propositi. E’ stato un anno buono, magari non per i risultati, ma perchè ha mandato avanti la vita. E’ stato un anno buono perchè ho conosciuto, capito, sofferto, gioito, arato dentro e allo svoltare dell’anno è rimasta la stanchezza di ciò che faccio.
E’ importante la stanchezza. Sono per la rivalutazione della stanchezza come mezzo salvifico per cambiare sè stessi e quello che sta attorno e siccome non ne posso più, presumo che il cambiamento cominci a farsi strada, prepotente come un germoglio, una radice, una foglia. Farà bene questa stanchezza e produrrà nuovi entusiasmi. Quello che vi auguro è che questo brulicare che si rinforza sotto il freddo, vi prenda e vi dia una direzione da percorrere. Che i giorni si alternino e che ognuno di essi abbia gli occhi giusti per essere visto nella sua novità.
Vi auguro un tatto che vi unisca dentro e fuori,
un udito che vi ascolti nelle parole che non dite,
un odorato che renda giustizia al mondo,
una vista che vi accarezzi allo specchio,
un gusto che scomponga il conosciuto nella novità.
Vi auguro di non accontentarvi e di apprezzare i doni, di avere desideri possibili e una memoria benevola, di sorridere spesso e di essere ascoltati. Questo vi auguro e molto di più, a ciascuno secondo il bisogno.
A presto, con affetto.
Willy
Grazie per questi mesi di compagnia e per il bene reciproco scambiato. Per qualche giorno mi sarà difficile leggere e scrivere su questo mezzo, userò i pensieri e la penna, poi se ci sarà da dire, si dirà al ritorno.
C’è calma d’acqua e vento. Riprenderanno nella notte a lavare e scuotere. Il tempo si sovrappone, il prima inghiotte il dopo e genera l’adesso, così le gocce hanno rigato vetri e intonaci, si sono raccolte in rigagnoli lunghi dai rumori quieti. Da qualche parte la fogna è traboccata e un segno di fango nero si contende la mezzaria bianca della strada. A Venezia l’acqua era alta stamattina, con i bimbi che giocavano negli stivaletti colorati. Non si farà mai, l’abitudine alla trasgressione dell’acqua. Anche da adulti. Ascoltare Bob Marley è sguazzare nell’acqua dopo la pioggia –pensavo- Marley avvolge come l’acqua e la sua musica, nel buio dell’auto, è la mia pozzanghera in cui ridere e per poco,perdersi – pensavo-.
La città stanotte, si chiude come un fiore che teme di sciuparsi anzitempo. Potessi anch’io chiudere le poche cose buone rimaste dentro – pensavo- e lavare i ricordi che salgono senza sirena d’avviso. Tu che ne sai delle mie pene? e di quelle che s’annidano in queste case percorse di pioggia? e parlavo con i luccichii che la fine della pioggia enfatizza e scompone in colori densi.
Perchè ci si fa male -pensavo- quando lo star bene è così chiaro e sotto gli occhi, manon è dentro quella parte che ci ostiniamo a chiamare amore e che in realtà si divide tra cervello e nervo simpatico. E non possiamo identificarla così perchè c’è un primato dell’effetto rispetto alla causa, e non importa dove s’annida, ma ciò che fa alle nostre vite.
Queste trasversalità di pensiero, sono la mia benedizione -pensavo- tolgono enfasi e smussano punte. Fanno riemergere lo spirito vitale, il sorriso ironico che acquieta.
A volte penso a tutto questo lavoro di cellule, di ordini trasmessi attraverso scambi chimici ed elettrici, di mutazioni ubbidienti per una volontà disubbidiente, e al fatto che l’ordine regna comunque nel corpo. Anche nel dolore, regna l’ordine, anche nella felicità irrefrenabile, continua a regnare. Come se l’impalcatura delle emozioni fosse solida di equilibri forti e dinamici, ma sempre in discussione con essi. Come se si potesse discutere una montagna, mentre ciò che deperisce è il rifugio.
Così pensavo mentre mi dicevo che forse è perchè quel bene è così certo da non muovere alcun dubbio, che non muta l’insicurezza che portiamo appresso e che spiegarla a chi non la possiede è tempo perso.
E l’auto si faceva strada in percorsi senza senso e tempo, mentre dentro, combatteva la voglia di riaprire ferite mai del tutto aperte. C’è saggezza nell’aprir ferite –pensavo– e nel nettare lo sporco che vi spargiamo sopra. C’è coraggio nel rinchiuderle ed osservare poi le cicatrici.
A Modugno, a Venosa, a Bitonto stanno raccogliendo le ultime olive. Grandi reti verdi sotto gli alberi fino ad invadere la strada. Dai cavalcavia mi fermo a guardare il mare verde. E’ lo stesso di Kalamata e di Delfi verso il santuario. Da tremila anni gli stessi gesti, lo stesso mare, gli stessi odori e sapori.
Ieri notte vicino al frantoio, si sentivano le macine e il profumo forte dell’olio, l’ho assaggiato intinto nel pane abbrustolito. E’ un archetipo del gusto, uno standard per il jazz della cucina, viene da tanto distante che tutti i popoli della pozzanghera lo conoscono.
Oggi lungo la strada, vedo gli ulivi morti. Troppi per le gelate che non ci sono state. E solo lungo la strada. Anche se la natura è molto più paziente degli uomini, è una sentenza nei nostri confronti: gli ulivi sopravviveranno.