mantova

La storia che mi ha guidato verso questa città di mattoni perduta nelle nebbie della bassa, inizia con una bomba alleata (ma di chi sono alleate le bombe?) che polverizzò la cappella Ovetari, con la chiesa degli Eremitani e il ciclo delle storie di san Giacomo. In quella chiesa, che stavano ricostruendo, sono cresciuto, tirando pigne e correndo sui marmi, nascondendo munizioni dietro l’altar maggiore, ma questa è un’altra storia. Il primo Mantegna era in quella cappella, dissolto in 50 casse di calcinacci e in un unico grande affresco salvato, solo perché non c’era. Mi piaceva quel particolare della freccia nell’occhio del tiranno nel martirio di san Cristoforo, la sua lezione che al male torna il male. Ancor più mi piaceva quel tappeto così perfetto nella tragedia, le finestre su cui si appoggiavano i soliti perditempo che guardano le disgrazie, il corpaccione enorme in prospettiva, era un ritratto di un mondo che ben oltre la fotografia, raccontava più storie, più tempi, più pensieri che si annodavano, mescolavano, scioglievano, in un flusso che veniva verso me che vedevo. Naturalmente allora ero solo incantato, guardavo e mi perdevo nei particolari, ma lì nacque la voglia di vedere altro. E dove, se non a Mantova, potevo trovarlo.

La prima volta ci arrivai con un treno da periferia dell’impero, un treno che ancor’ oggi ci impiega tantissimo, tra campi e stazioncine, ma chissà, forse tu arriveresti da sud o da ovest e magari passeresti per Sabbioneta, ti fermeresti e non andrebbe bene. A Sabbioneta bisogna andare poi, dopo essere stati a Mantova, meglio nel mezzogiorno del giorno dopo, ma anche questa è un’altra storia. A me piace la strada che arriva dalla bassa, seguo l’ Adige e i paesi che via via si riempiono di mattoni a vista. La bassa padovana e veronese è bella, passa dai campi di grano alle risaie, percorre piccole cittadine murate. E Montagnana è bellissima, ma non ci si può fermare, si va a Mantova e la provinciale uno continua, cambia nome passa tra case e campi finché si arriva al Mincio, al lago, alla casa di Sparafucile. Qui dal lago, salgo a piedi, oltre la porta e la prima sensazione, è quell’acciottolato che sfocia nella piazza. Il Palazzo Ducale è lì con le sue file di persone che aspettano l’entrata nei giorni di festa, con l’idea che il Duca dal balcone saluti in ermellino gettando monete alla folla. Non mi piace il Duca, colpa di Rigoletto forse, ma con lui e con i Gonzaga bisogna fare i conti. Loro erano la città, la furbizia, la gloria, le chiacchere, le storie dei nani, la munificenza. Salgo, nell’infinito di questo palazzo punto alla Camera Picta, allo Studiolo di Isabella. Ci si può perdere lì dentro, ma non te lo lasceranno fare perché spingono, hanno fretta di vedere, quella fretta che tu non hai. Vedere, assorbire, farsi vedere dall’opera d’arte, richiede tempo, lo stesso che si usa, quando con rispetto, si prende in mano l’opera di un altro, Chessò, un mobile, un oggetto, una cornice e si pensa di farle riprendere vita. La mano passa sulle modanature, accarezza ascoltando con le dita i guasti.  Gli occhi percorrono, i pensieri sovrappongono, cercano di capire, scelgono. Le cose più intense sembrano solo l’effetto della cura di chi li fece o possedette e riportano alla luce particolari tra le ferite della vita, li mostrano come glorie di esserci.

Mantegna, allora, lo seguii a Palazzo Ducale e a Sant’Andrea e qui scoprii, che il Mantegna era altrove, in mille rivoli, ruberie, mutilazioni, vendite e miserie dettate dall’arte del vendere e disperdere il bello. Decontestualizzato, ammirato, tenuto da conto, ma non dove era stato pensato. Ma il suo spirito era ancora qui, non perché c’era la sua casa, ma perché la città dialogava con lui. Così lo senti nelle forme classiche, nel suo amore per il bello riscoperto, nel suo restaurare la forma degli antichi in questi posti di nebbia e di quiete, e mi viene il pensiero allegro che il Mincio è lo scarico di un lago che prima di gettarsi nel Po, ha bisogno di dilagare, di formare a sua volta un lago personale. E addirittura ne fa tre di laghi, che un tempo erano quattro e creavano un’isola, come se questo fosse un piccolo mare nella pianura. Minuscolo come i ducati di un tempo e smisurato nella fantasia che nasce negli uomini che sanno vedere.

Adesso ti porterei altrove, senza una meta precisa, bisogna camminare e fermarsi tra piazza delle Erbe e le vie che le stanno attorno. Ascoltare i rumori di questa città di agrari, gonfia di rendite solide, di campi che rappresentano le realizzazioni dei destini. Bisogna immaginare Tazio Nuvolari – qui c’è il suo museo- in  giugno, mentre corre in moto o su una Maserati tra le stradine – così le vedremmo ora- ficcate tra campi di grano, oppure di notte in una mille miglia irta di fari, di gente, di vino caldo. Bisogna immaginare la velocità del lampo e la sosta sudata, entrambi insieme, e mescolarla davanti a una tovaglia a quadretti rossi con il parlare fatto di vocali aperte, con le carte battute sul tavolo, con il vino rosso denso, con i risotti, gli gnocchi e le rane. Bisogna immaginare il giallo della zucca, questo è uno dei regni della zucca, il mescolarsi del dolce e del salato nei tortelli e negli gnocchi, il confluire del giallo nella sbrisolona. Bisogna fermarsi in quel bar d’angolo sotto i portici, appena fuori piazza Sordello, respirare, stare zitti e ascoltare. Ti mancherebbero un sacco di cose, se tu decidessi di partire ora, Giulio Romano e Pisanello, palazzo Te, palazzo Bonaccorsi. Ma soprattutto la bellezza di Leon Battista Alberti. Quando lo vedo la mia testa racchiude le forme in rettangoli, traccia diagonali e si accorge che la sezione aurea era davvero il riposo della perfezione. Ti perderesti scrigni di opere d’arte rimasti dopo le rapine, i laghi, la campagna attorno con i boschetti di pioppi lungo l’acqua. O forse no, non ti perderesti tutto questo, ma t’innamoreresti di un luogo e avresti voglia di tornare, di aggiungere, di sentire ancora, di più.

Per me bisogna camminare, fermarsi, ascoltare, perdersi tra stradine girando in tondo e lasciare il libro aperto, godere di una trattoria con cortile. I due cavallini ad esempio, oppure del legno sulle pareti di un caffè vecchio d’anni e di mediatori di campi e bestiame. Ho bisogno di tutto questo, e altro, magari non durante il festival della Letteratura, perché lì è bello andarci perché la città stessa diventa flusso e c’è un brulicare di idee, di voci che ti fanno pensare che lo scrigno si sia aperto e stia parlando con il cielo e che lo spettacolo sia fuori, nella gloria del dubbio e dell’intelligenza. 

Forse dovremmo parlare di risorgimento, da queste parti si costruiva l’Italia in campagna e sugli spalti di Belfiore, ma credo ti piacerebbe, se tu la vivessi come vivo io le mie piccole città, con un flusso di pensieri e sensazioni, con un mescolarsi che alla fine si consolida in un luogo del cuore. Il cuore fa posto e restituisce, è un galantuomo. Come avveniva da queste parti, basta un guardarsi negli occhi e una stretta di mano: affare fatto.

E questa o quella per me pari non sono.

 

dipanare

E’ mattina, caffè, la notte che se ne va. La radio trasmette notizie dall’Egitto, dalla Libia, dalla Spagna. Il pendolo delle notizie oscilla sopra l’Italia, ma non è solo l’economia che preoccupa, è il fatto che la somma dei problemi individuali non è un problema collettivo. Oscilliamo tra attesa e disgregazione, intervento salvifico e realtà quotidiana.

No, voglio uscire dalla spirale dell’analisi. Chiudo la radio, metto musica. 

Il difetto del pensiero lento è che scava, scivola di lato, agguanta qualcos’altro che non va per il verso giusto. No, questo non è il migliore dei mondi possibili. Scegliere di chiudere tutto, di appellarsi all’abbiamo dato. Oppure usare le cose pensate da altri, le rimasticature, che tanto vanno sul blog e nella vita, o ancora puntare sul personale, sul vitalismo, raccontare/ci che fare è meglio che essere. Io non ho problemi con il passato, è il passato che ha problemi con me. Eppoi che me ne frega del passato, del mio naturalmente, se c’è una cosa di cui sono convinto è il bisogno di interpretare se stessi, e l’età in cui si vive, senza schemi, cercando di assomigliarsi. Questo permette di vivere anche nel migliore dei mondi possibili. 

La giornata si dipana, è una bella parola dipana, dà l’idea del gatto che gioca con il gomitolo, dello svolgere del refe andando a pesca, un’idea sequenziale della vita. Quando disfavano un maglione in casa, la mia richiesta di avvolgere il filo su un pezzetto di carta ripiegata, era subito accolta e mentre formavo il gomitolo, guardavo il filo che scorreva da un lato all’altro del maglione che si disfaceva per linee. Con una polverina sottile di tessuto, diventava sempre più piccolo e sempre meno maglione, mentre il mio gomitolo, per strati trasformava quelle due dimensioni lineari in una sfera. La mia giornata ricostituisce il maglione, dipana un gomitolo di sensazioni 3D in linee ordinate. Lo penso, nel viale di platani, camminando tra le foglie, mentre mi godo l’aria, lungo il fiume, il cielo azzurro e terso, e il sole che mitiga il venticello freddo. E’ un giorno da mare, da spiaggia, seduto con la schiena appoggiata ad un muretto e le ginocchia raccolte a reggere il mento, un giorno da tempo senza tempo, con la fretta del solo caldo, quando occorre. Ma non sono al mare, e la mia giornata dipana verso il primo guaio, ben conosciuto ed ormai solo doloroso. Molte persone con cui non condivido nulla, e che in uno scontro politico sarebbero dall’altra parte, mettono in campo il loro modo di vedere il mondo, cercano di prevalere, ma accettano il confronto e rispettano. Ecco, il rispetto riscatta l’errore, il mio anzitutto e anche il loro. So bene che il secondo guaio non sarà così. Uno del secondo guaio mi ha detto, ridendo, che lui è un bastardo e la regola è quella di chi vince. Qui vado in crisi ed il dipanare diventa stanchezza. Stanchezza di questo modo di vedere il mondo, con cui ho ben poco a che fare. Gli ho detto una volta che se lui era come era, la colpa era anche mia, perché in altri anni lo avevamo liberato dai calci in culo dei padri, avevamo reso normale la nostra devianza e quindi anche la sua. Non mi illudo abbia capito qualcosa, e comunque se ha capito lo considera un atto dovuto. Non ha fatto nulla, ma era un atto dovuto. Dovuto a chi? A me forse, non a lui. 

I pensieri dipanano, la sensazione dei muscoli delle gambe rilassa e crea energia, sorrido al mio camminare veloce tra i ragazzi che vanno a lezione. Dipanare e seguire il filo o lasciare un filo come Teseo per ritrovare la strada, penso all’Arianna che tradiva ed è stata tradita.  Alla circolarità del tradimento.

Meglio seguire il filo della propria vita,

divoratori di spazio e di suono sono gli occhi,

la città di mattina soddisfa la bulimia del seguire/sentire. Dipano, seguo, penso che un guaio risolto è uno in meno e che si potrà dimenticare. 

il peso

Da qualche parte, a casa di mia madre, dovrebbe esserci una valigia che ricordo da sempre. Fatta di un materiale di un bel colore biondo, rigida, con le chiusure a scatto d’altri tempi, quella valigia aveva seguito mio padre e mia madre, sin dal loro viaggio di nozze di guerra. E la ricordo, pesantissima, da bambino, che d’estate si riempiva di spaghetti, “subioti” e altro, per le nostre lunghissime vacanze al mare, dove non c’era la varietà di cibo della città. C’era una gara, con mio fratello, per portarla su e giù da vaporetti, filovie, treni, poi sarebbe tornata leggera, come i nostri occhi, che si sentivano straniati guardando la casa, le scale, le cose mie e nostre, dopo tanto tempo d’assenza.

Ecco, quella nozione antica di peso, non la trovo più, le valigie hanno le ruote, i portabagagli sono diventati rari nelle  stazioni, negli alberghi il trasporto in camera, spesso, e’ su richiesta. Un campione di platino iridio giace a Sevrès, ma per chi sarà quella sensazione tangibile da palmo della mano? Sono i nuovi abitanti del mondo a circolare con enormi valigie e bagagli. Mani, muscoli, spalle, collo, testa, equilibrio, tutto connesso al quotidiano, ma ancor più alla nozione del vivere. Una nozione che sfugge ormai in occidente, nella civiltà dei colletti bianchi. Mi sono chiesto, vedendo le montagne di bagagli che seguono uomini e donne vicino a corriere, treni, aerei, da dove venissero quelle enormi valigie, quei borsoni a misura d’uomo, nel senso che possono tranquillamente contenere un uomo. La risposta, dalla Cina, e’ parte della domanda, perche questo significa che c’e un mercato compreso da qualcuno, che giustifica una produzione di massa, che esiste altrove una percezione di una realta’ del mondo fatta di grandi numeri rimossi dalla nostra necessita’. E quindi esperienza del reale, che vediamo e non capiamo perche’ la cosa non ci appartiene piu’. In Africa, in Asia, ovunque, ci sono file di persone in cammino, cumuli di fagotti, di scatole, valigie più o meno sfondate, una sensazione del peso che ci e’ sfuggita. Ci siamo gradatamente liberati dal peso per liberarci dalla fatica, adesso e’ la borsa della spesa a dare la misura, e tende a pesare di più, come sempre accade nei periodi crisi: le cose leggere costano di più, mentre il pane, la pasta riempiono e saziano. Gli anziani lo sentono di più per i limiti fisici e per il progressivo impoverimento. E il senso del peso indica la relazione tra popoli ed economia. In questo caso, riflettere sulla fatica si connette alla percezione del mondo, un rendersi conto di dove siamo e come stiamo mutando, noi, qui ed ora. Quasi un tracciare il limite del nostro recinto, culturale, economico, fisico che, nella liberazione della fatica ha trovato la propria ragion d’essere, ma non riflette e perde senso se non capisce che precarietà e peso sono condizioni del vivere e che lì c’è una delle contraddizioni dell’economia eguale.

ti parlo di Ferrara e ti racconto dove s’è fermato il suono

Di Ferrara ho dentro, una neve che fioccava e saliva (perché la neve nel vento sale e riluce di riflessi), nella notte tra il castello e la piazza.

Ho una nebbia d’autunno, gialla e bellissima, che impediva di vedere oltre qualche metro e faceva sentire le voci, e le risate degli altri passanti, allegri e vogliosi di questo anonimato improvviso.

Ho il ricordo d’essere uscito da teatro, con l’eco di un concerto bellissimo, e quella musica che non mi lasciava, era in auto nei 90 chilometri verso casa, tanto che, per non turbarne la bellezza, la radio restò stranamente spenta.

Di Ferrara ho l’oca giuliva, un posto vicino al porto, sul fiume, dove ascoltare il cibo e il dialetto. Ho la gioia del camminare seguendo i percorsi dei palazzi degli Estensi, il guardare tutt’attorno in piazza Ariostea, e la sensazione che se una famiglia, che dava nome ad un palazzo Schifanoia, era già moderna nel 1500. Ma soprattutto ho Bassani e la sua liason tra città e persone, tra fasti e decadenza.

E’ una città da sfumature Ferrara, da sangue sottile che, appena si supera lo stupore del rosso del cotto, entra nelle arterie, pulisce ovunque e lascia la bocca buona. Come un lambrusco secco e il pane fatto di cornetti ritorti e ragni di pasta. Bisogna stare attenti a non romperli, i ragni, come la città, e poi staccarli uno per volta – sono quattro più il corpo centrale – per gustarne la morbidezza croccante, con voluttà.

Ho una strada, che si apre sul lato destro del castello, sorpassati i portici del teatro, e che porta verso le mura. A Ferrara tutto porta più o meno verso le mura.

Questa città, la amo più di notte e di primo mattino, che nel giorno pieno, più d’autunno e in primavera che nelle altre stagioni. Nella luce, il rosso dei mattoni invade la vista, è una sorta di persistenza nell’occhio, per cui tutto, anche nei sensi, prende questo colore come radiazione di fondo. I colori, il selciato bellissimo, i marmi del duomo, le piazze, le facciate delle case e i cortili ombrosi che s’intravvedono dai portoni, tutto ha un ricordo del rosso del mattone a vista. Forse è una forzatura, ma anche il colore della cibo è caldo, forte, robusto di pianura e di paziente cottura. Ma quella strada di cui parlo, che porta verso il cimitero, questo colore non lo tiene con sé, perché è un luogo sospeso, asincrono a noi e al tempo. Un luogo fatto di mura alte e di varchi, di un giardino che si vede oltre un muro e sembra enorme, come il Giardino dei Finzi-Contini, e così subito porta a Micol e al suo essere questa città. Ai lati della strada, case un tempo modeste, erano periferia del principe ed oggi sono un altrove dell’anima. A maggio ci sono rose che sbucano dai giardini, i marciapiedi di ciottoli, ( porta scarpe basse dalla suola sottile, le devi sentire queste pietre che hanno rotolato nei fiumi, ed ora accarezzano il piede), ma soprattutto c’è il suono fermato. Oltre alla bellezza del posto, cui manca solo una carrozza che lo percorra, per narrarne il tempo, è il suono che m’impressiona. Ogni volta. Le voci, i rumori sono educati, governati, con una sensazione di pace ovattata che testimonia esistenze e senso della misura. Il passo rallenta per ascoltare il silenzio, l’aria è dolce ancora per un poco, poi le punte di freddo si stempereranno nei bar, nella cioccolata. Amara e densa, per me, grazie. Con la panna a parte. La sensazione sparirà poco a poco nella passeggiata sulle mura, ma ti resterà il bisogno di tornare. Non per una mostra od altro, sarebbe troppo banale, ma per il posto che sentirai romantico, come pochi altri e fatto di silenzi e pensieri circoscritti. I tuoi.


piccole felicità

Trieste ti prende le braccia, da dietro come in gioco di ragazzi, e ti taglia l’urgenza del fare. Ti prende il cuore, non ascolta le tante inutilità che vorresti dire, e ride, mentre risale alla testa e ti muta i programmi. In cambio t’investe di sole, di vento, di profumo di cipresso e di platano potato, di erba alla soglia del mare, di terra, di falesia, di sasso e ancora non finisce di stupirti. Solo i pesci guardano muti tanta profusione insensata che ancora non si ferma e posa.

Dal molo Audace si vede intera piazza Unità, un anfiteatro di palazzi che si fida del mare, che accoglie chi arriva. Dovrebbero attraccare qui le navi, come un tempo, ma non quei mostri multipiano che in ogni porto abbandonano in città, l’equivalente degli abitanti di un paese. No, dovrebbero attraccare  i piroscafi, le navi svelte di una volta, quelle piene di speranza, e non di noia, e fargli scendere piano i passeggeri per dare, intera, la sensazione del suolo che si ferma. Fargli sentire le gambe che hanno voglia di correre, e spingerli a lasciar liberi gli occhi, di scorrere sui marmi e sulle pietre della riva, perché ognuno abbia la sua personale meraviglia. E poi fare una corsa dal molo fino a piazza Unità, senza sentirsi ridicoli, ma felici del sole, di tanto essere uomini in sé, in questo luogo, che è qui e altrove. Come in ogni mare, perché senza essere pesci è il mare che ci unisce. 

Cammino. Lastricato, palazzi, tavolini e caffè all’aperto. Respiro. Cammino.

Respiro soprattutto, il savor di salso, di casa, di buono, di attesa, di pomeriggio, che si stende pigro e promette. Sul mare, tra la marittima e il molo, i canottieri vogano veloci e ridono di mille sfide.  Dall’altra parte, il porto vecchio. Sorgeranno nuovi quartieri, abitazioni, grandi negozi, una nuova città davanti al mare. Smonteranno e demoliranno tutto il possibile, ma speriamo lascino una gru di banchina, una di quelle alte, che finiscono in un becco e sembrano un grande uccello posato tra le navi. Se non per altro dovrebbero lasciarla per ricordare il lavoro, la testa dei costruttori di un tempo, il passo ondeggiante dei facchini, l’odore lontano della merce che arrivava.

Magari davvero la lasceranno davvero. Il sole illumina il porto, le fabbriche, le case, ma soprattutto il mare e il cuore si apre e mi commuovo. E penso alla libertà, al senso del tempo, a ciò che mi e’ stato dato e che spesso mi sembra un fardello. E improvvisamente sono felice di essere qui, in questo tempo.

l’esperienza delle nuvole

Per tre giorni, la nebbia l’ho colta sui tetti, stamattina era scesa sulla strada per Trieste. Sono sceso nel chiarore sfumato, con allegria, non è ancora tempo di paure ed infinite attese, e così è bello immergersi nella calugine bianca che, a tratti, veleggia così bassa da sembrare una continuazione del mare che immerge una barca e non un’auto.

Quando è così tenera e vicina a terra, spiace calpestarla ed avvolgerla nelle ruote. I primi momenti danno la soddisfazione dei bimbi nel pestare e battere forte i piedi, poi sembra di violare una nuvola. Si vorrebbe, allora, che le ruote, l’avvolgessero come fionda pronta a ributtarla in cielo, senza sfioccarla in piccoli pezzi che si sciolgono al calore dell’auto. Annuso queste nuvole di terra, caduti angeli senza futuro. Non più veleranno sole e cielo, non più respireranno venti, pronti al gioco e alla violenza, non scateneranno furie di fulmini e pioggia, non più. Consegnate alla terra e a me che fendo questa calugine bianca, e non occlude la vista e mostra verde sconfinato e gialle punte di pioppo, già al sole. Tutto appena sfuocato, appena misterioso. Non è ancora minacciosa, adesso è amica, come nelle strade di città quando, più densa, avvolge le mani degli amanti, le bocche e, curiosa, spinge i rossori verso nuove conquiste.  

 

treni di giorno

Facciamo gli stessi viaggi, viaggiamo su treni di giorno, senz’ avventura di sentire che ci cambi.  Abbiamo ricordi comuni di tempi diversi, le stesse fotografie si rivedono fatte con estri differenti. Occhi ripetitivi guardano insiemi che ci accolgono indifferenti, in attesa d’essere toccati nel profondo. Baie di meraviglie dove l’identità si sovrappone, la mia, la tua, avanti un’altro. Qui una serie di foto del bazar, lì la musica comperata in quel negozio sul corso che portava al porto. Leggiamo le stesse guide, percorriamo strade simili in momenti differenti, beviamo, dormiamo negli stessi letti e mangiamo negli stessi alberghi. Confrontiamo i ricordi, le coincidenze, i c’era ancora… Se siamo accoglienti, sovrapporre non sarà una gara, altrimenti l’anch’io diventerà  il di più. Il mondo si è ristretto, la leggerezza del turismo di massa comporta lo snocciolare una serie di mete raggiunte e di obbiettivi per il prossimo tempo. Quasi ci si dispiace di non poter programmare, ancor più, questa raccolta di figurine in cui l’unica cosa davvero interessante è l’emozione provata. Questa sì singolare e unica, se c’è stata. E la domanda non dovrebbe essere dove sei stato o cosa hai visto, ma cosa è entrato in te?

battalia

Non molto tempo fa, la mattina, appena svegliato, mi dedicavo tempo per guardare fuori dalla finestra, poi respiravo profondamente il primo caffè, mettevo in ordine gli impegni, stabilivo una colonna sonora della giornata e uscivo. I pensieri che mi riguardavano da una parte e il lavoro, i problemi esterni da un’altra. Nei miei post più vecchi c’è traccia di questo modo di uscire in battalia.

Molte cose sono rimaste eguali: il caffè, la musica, il modo di vivere i miei pensieri, molti interessi e passioncelle. Altro è mutato in questi tre anni, non pochi “amici” di lavoro se ne sono andati, qualche errore ha morso la carne, la divisione tra spazi interni ed esterni, si è spesso frantumata. Ma le cose che tengono in piedi il mio modo di vedere il mondo sono sostanzialmente rimaste, segno che contano davvero. Di queste una è particolarmente chiara: il rifiuto fisico di sottostare a qualcosa che mi è estraneo.

L’attualità, ad esempio, faccio fatica a dirne perché mai come in questi anni di comunicazione continua è diventato regola parlare solo del momento, dell’oggi. Come se il nostro tempo, quello che viviamo, fosse una infinita serie di avvenimenti rotti, frantumati, dai successivi. Macerie d’istanti e d’emozioni su cui camminiamo per andare verso il futuro. Oggi c’è la morte di Steve Jobs, ieri il processo di Perugia e Amanda Knox, domani le dimissioni di Tremonti o chissaché. Tutto imposto, tutto rilevante per un giorno, tutto manipolato, collimato con i sentimenti medi, premasticato, digerito in fretta.

Non mi va.

 Non mi va da sempre. Non mi piacevano le prime, i lanci con la corsa a vedere o a leggere per primi, gli avvenimenti eccezionali a priori. La notte dello sbarco sulla luna, andai a letto presto, non mi succede mai, eppure di quella notte ricordo tutto, l’emozione permane, ma soprattutto mi ha cambiato. Lo stesso potrei dire per la grande idea di riportare la parola scritta ovunque, rompere il dominio della parola detta, del telefono, della televisione. Oggi si scrive molto (e male) grazie a Steve Jobs, questo è nelle nostre vite oltre la notizia del giorno e a questo penserò con i miei tempi.

La velocità è un idolo della modernità, residuo futurista, sostituto dell’essere. Riporta il primato del fare sul pensiero, ne da visione economica come fosse l’unica lecita. E la velocità porta con sè il mito dell’oggi, del momento. E’ la definizione fisica di velocità, lo spazio parcellizzato dal tempo in tanti minuscoli segmenti. Zenone sorpasserà subito la tartaruga e non imparerà nulla dal suo altro modo di vivere, la scarterà come incongrua stabilendo che il mondo la può tollerare, ma non ammettere alla pari. Con la velocità e l’odierno si attacca il tempo, il tempo diviene obsolescente, scappa è più veloce di Zenone che continua ad inseguirlo e perde il senso della corsa. Della lentezza parlerò ancora, continuerò a farlo, ma ciò che mi preme adesso è il rifiuto dello stereotipo, dell’imposizione. I riflessi di tutto questo sono enormi, contengono il positivo (in parte) e il negativo del mondo, ma escludono la scelta. Bisogna adattarsi. E io non mi adatto, penso a ciò che è importante per me, ascolto la mia musica, affronto la battalia con le mie armi. Molto datate devo dire, poco efficienti ed efficaci, disorientanti spesso. Ecco, il vantaggio è questo disorientare, che significa togliere le stelle fisse e portare la navigazione su obbiettivi più larghi del giorno, perdersi contando di ritrovarsi.

Vorrei darvi una buona notizia, o cattiva per alcuni: siamo naufraghi, non arriveranno i soccorsi e dovremo contare su di noi, sul nostro tempo. Per ritrovare un senso bisogna pensare che il culto del giorno ci fa perdere il piacere dell’isola in cui siamo finiti.

S’arzola

Un grande spazio di terrazza naturale, un campo aiutato dall’uomo a spianarsi, appena fuori del paese. Una vista magnifica. Verso ovest digradano i monti, oltre c’è il mare. Siamo al centro della Sardegna, nel Mandrolisai. Fortezza naturale, luogo di passaggio per le greggi, ma soprattutto sito di arcaiche stanzialità contadine. Sul lato del campo, un lastricato di pietre antiche, cavate, squadrate, posate con sapienza d’uso. Un tempo era il luogo della battitura del grano, adesso è un campo delimitato da una grande quercia. Si scende per un sentiero breve. Con me, donne, uomini, in abiti scuri, da domenica d’un tempo. Una serie di sedie vuote attendono. Poi arrivano le donne, tutte vestite di nero, reggono rami d’albero con biglietti scritti, appesi. Si siedono, sembrano dormire, attendono il silenzio. Poi parte la musica di sottofondo e la rappresentazione inizia.

Qui la descrizione si ferma. Potrei parlare del giallo della paglia che si mescola al marrone della terra, del sole che fa vibrare le foglie di quercia, che trascolora il nero e scalda abbracciando terra e uomini, assieme, delle voci che si inseguono, della gioia degli uccelli in settembre,  dei monti che si fanno azzurri, ma tutto questo era cornice. Anche le donne, attrici brave, intente ad un compito che non è il loro usuale, sono diventate, per me, canale di sensazioni. Così il testo, che mi arriva a blocchi, segmentato in mattoni di significato denso d’umanità, diventa sensazione. E la sensazione è quella del rito della terra che si ripete. Solo le donne possono essere officianti del miracolo del riprodursi, ma sono l’evidenza del rito, la sostanza si agita nel profondo. L’uomo contadino, guarda e apprende ciò che sa: occorre una certezza ragionevole, solida, perché la terra diventi stabile in lui. Prima che diventasse contadino, la terra non era parte umana, l’uomo seguiva le migrazioni degli animali e delle messi selvatiche, mangiava tutto il mangiabile, poi si spostava. L’archetipo si stabilizzò con la sensazione di concretezza, di risoluzione buona di un problema vitale, diventando esso stesso vita e ritornando sull’uomo. Questo sento, finché parlano di lavoro duro, valore del denaro che devia le menti, accumulo, contrapposti ad una economia primigenia, basata sulla necessità, sul gruppo, sulla convivialità.

Una verità percorre il sole del pomeriggio: la guerra sacrifica i contadini. La fabbrica, gli operai, sono necessari alla guerra, ne forniscono materia e sostegno. Non per colpa loro, è il capitale che così decide nella divisione del lavoro sporco, ai contadini morire e combattere, agli operai tocca fornire materia e scopo della vittoria. Sentivo dentro le stesse cose sul san Michele, sopra Gorizia, dove masse immense di contadini si sono macellate a vicenda, 100.000 morti in tre mesi. Molti erano sardi, ma anche siciliani, calabresi, veneti, lombardi, abruzzesi, piemontesi. I contadini si assomigliano tutti, qual’era la differenza quando erano a terra morti, o quando vivevano dentro la terra, nelle trincee che scavavano come a far canali per portare l’acqua nel campo. Nessuna. I contadini conoscono la terra e poi, pensavano i generali, i contadini si riproducono facilmente, i contadini fanno contadini, e con la guerra intanto, si diminuiscono le bocche da sfamare.

Il carso assomiglia a questi luoghi, Anche lì il mare è appena oltre i monti, il territorio è arso d’acqua, pochi boschi, tanta piccola macchia. Terra anche quella di contadini. Ritrovo qui le emozioni di luoghi che conosco, ma ciò che la rappresentazione evoca, va oltre. Un soffio caldo di passato, e gelido d’assenza, di rottura con l’umanità ricevuta. L’archetipo del contadino lo possediamo tutti, eppure sembra scomparso. Dove s’è interrotta la sequenza del mettere assieme lavoro duro ritmato dalle carestie, del con dividere, del trasmettere sapienze e specificità d’un luogo, con le vite?

Karl Kraus diceva che mettendo assieme terra e sangue si ottiene solo tetano, ma lui pensava già all’emergere dei miti della razza, sentiva che i perimetri umani senza accoglienza diventano morte. Qui prima, l’accoglienza era sacra. Ancora oggi lo è.

E’ tutto così arcaico in questo luogo, la quercia è un contenitore di simboli, assieme alle pietre allineate per contenere il raccolto, alla vista dell’universo chiuso dai monti. L’infinito di Leopardi, vissuto ogni giorno. Uscendo per tornare, appena fuori delle luci del paese, sotto una stellata incredibile, ho riprovato la stessa sensazione d’un universo che si mostra e piega verso il basso, e tocca e feconda la positività degli uomini.

La mente va alla Sacre di Stravinskij, anche qui, ad Austis, potrebbero esserci necessità d’ingraziarsi dei riottosi di benedizione, ma è l’uomo, non il dio antropomorfo, che si aggira per il campo. Ci sono due sfere, quella degli uomini che sanno cosa li attende, il rischio e la speranza. E questo è il loro luogo. Poi il contenuto esterno al progetto del vivere, ovvero quello che la fatica e l’ingegno non governano. Lì subentra la paura del conosciuto negativo e la necessità di capovolgerlo in bene, o di almeno limitarlo. Ma oggi quella parte non si sente, si avverte l’uomo che è stato navigatore, guerriero, cacciatore ed ora s’è fermato. Un uomo che vorrebbe dire la ragione della bellezza del vivere in questo posto, raccontando perché, pur con fatica, questo è il suo luogo. Al suo posto, lo raccontano, le opere stanziali, l’aia, le case, la cura degli alberi e dei campi. E con il silenzio e la nenia. Se avessi talento, scriverei un’opera per Austis, fatta di silenzio, occhi per vedere e nenia. Nenia è quella musica che si ripete durante la fatica, nella solitudine. Che mutata arriva alla culla, e poi ancora esce all’aria filtrando tra i denti, passata in altri. Non è il ballo gioioso e bellissimo che seguirà poi nella piazza, non il canto a tenores e neppure le gare di versi a tema tra poeti. No, il silenzio, la nenia, le parole che restano a mezzo, tra bocca e aria, risuonando nelle teste, sono il dialogo dell’uomo con la terra. 

La nenia e gli altri sensi sono la compagnia di chi parla con il mondo. In confidenza, e timore d’autorità, gli sussurra, accettandolo anche nelle sue sfuriate, sapendo che non dura. La terra. Un tempo, la terra era ovunque. La terra non era sporca, veniva calpestata con leggerezza, per rispetto del suo ruolo di madre. La terra, oggi così incongrua da uscire dal vissuto, è la terra che parla poco, che quasi non fa rumore, che viene rimossa dall’esistere..

Cercavo di trovare la terra in noi, ascoltando e guardando, davanti alla quercia. Cercavo la terra leggera di vita e il sentire, mi interrogavo sulle sovrapposizioni: dove finisce l’uomo di carne ed inizia l’uomo di terra.

Tutto questo accadeva a s’arzola, ad Austis, ieri.  

pozze di nero

E’ una casa solida, antica. Una di quelle fattorie fortificate che si usavano nei territori di frontiera. Forse questa è una ragione che è proseguita nelle teste. Nel sangue, si diceva un tempo, rendendolo più spesso, impermeabile al cambiamento del tempo.

Adesso è un ristorante, si mangia bene, sono gentili e sbrigativi. Il dialetto è bello, quasi del tutto incomprensibile, e le alpi carniche, testimoni di migrazioni, fatiche e invasioni, sono bellissime e vicine.

Guardo la mensola del camino e sparisce il piacere del vino e del cibo. Vedo foto con cappelli che conosco. Sono foto vecchie, i cappelli sono quelli che usavano gli ustascia, in una cornice c’è un gruppo con auto degli anni ’30, uomini in divisa, ufficiali. Continuo ad osservare e su un lato c’è un piccolo busto di bronzo, davanti a una foto di Mussolini.

Non indago oltre, ma non ho più voglia di scherzare, mi concentro, è un pranzo di lavoro e prima finisce, meglio è.

Penso alle pozze di nero che ancora si annidano, ideologie che non s’asciugano, fango che ha seppellito uomini, cose, possibilità, accoglienza.

Mi versano il vino. Nero, come dicono da queste parti. Per me, rosso, insisto. Sono un cugino per loro, accettato perché veneto, ma altra cosa, quasi straniero.

Saluto ed esco. La casa è bella, fatta di pietra viva squadrata, il cortile è grande, circondato da un muro alto. Dietro gli alberi, e le alpi. Non voglio e non devo immaginare, cos’ha visto questa casa, è un luogo che evoca pensieri bui, adesso.

Poco oltre, sulla strada, trovo un campo grande di alberi secchi, grandi, spezzati e sradicati, come fosse passata una tromba d’aria. Sembra essere uno specchio di ciò che produce una pozza di nero. Di qualsiasi colore nero d’anima e di cuore.