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I numeri hanno una loro importanza, richiamano analogie, contengono e significano oltre.

Quella tela immensa pensata assieme al Palladio, per la sala del refettorio, sarebbe stata la madre di tutte le cene e i pranzi su tela successivi e doveva occupare una parete così grande da essere essa stessa stanza e mondo. E non c’era sistema metrico per misurarla, allora si usavano misure differenti, il piede ad esempio, che valeva a Venezia ma già oltrepassando un confine avrebbe mutato lunghezza e nome. Insomma c’erano abitudini che tendevano più al raffronto che all’assoluto. Da dove siano venuti quei 666 cm, non si saprà mai, ma è il numero della bestia dell’Apocalisse di Giovanni. E l’apocalisse arrivò con quel cavaliere di sventura che chiuse una repubblica millenaria, che fece tagliare a pezzi la tela e la inviò a Parigi, come restituzione parziale di danni di guerra. Sì era napoleone e gli oltre cento carri di opere d’arte inviati in Francia erano furto e preda, non risarcimento. Così è finita al Louvre la tela di Veronese, quelle nozze di Cana famosissime in cui si riconoscevano imperatori e popolani, in cui lo stesso mondo si fondeva tra il silenzio del miracolo e il tintinnare dei bicchieri, serpeggiava nel gorgoglio dei vini, nell’oro delle vesti, nel giocare di cani, nel vociare e nelle risate, nei giochi e nel fascino del corteggiare. Era lo splendore di un’epoca che celebrava se stessa in matrimonio col mondo, ma era anche una festa di nozze, e se guardiamo con attenzione le figure, non riconosciamo gli sposi, al centro c’è il Cristo affiancato da Maria, ma i soggetti della festa non si sa dove siano. O forse i soggetti sono tutti i presenti che mostrano i loro abiti migliori, conversano, sorridono, guardano verso punti di richiamo, e lo sono anche i servi che s’impegnano nel portare vivande, confezionare cibi, mostrando un’allegria e un fasto che li dimostra coscienti di essere ad un evento che li riguarda tutti. Quella parete immensa di san Giorgio Maggiore non poteva accogliere che una meraviglia, così come l’isola aveva accolto imperatori e sovrani, doveva rappresentare ad essi e al mondo la munificenza dell’ordine Benedettino che guardava il bacino di san Marco, ne vedeva il brulicare delle genti, delle merci, dei linguaggi, assisteva alle terribili cerimonie tra le due colonne di San Marco e San Tòdaro dove la giustizia veneziana eseguiva le condanne capitali, guardava il balcone dogale che si spalancava ad annunciare notizie, vedeva gli orifiamma delle navi in entrata che issavano il gonfalone con il leone, ne osservava il libro e sentiva quel: viva San Marco, urlato prima dal coffiere in vista e ripetuto in bacino prima della fonda. Quel grido sarebbe continuato dopo il passaggio del cavaliere dell’Apocalisse e si sarebbe ripetuto chissà quante volte fino a Lissa, quando dalla tolda dell’ammiraglia di Wilhelm von Tegetthoff, si levò nuovamente assieme agli ordini dati in veneto, solo che chi vinceva era la marina dell’impero austro ungarico e la sconfitta era la marina della nascente Italia.

San Giorgio maggiore, con il suo bianco incandescente di marmo, con i suoi chiostri silenti, vedeva tutto e accoglieva principi e papi, mostrando le meraviglie dotte dei codici miniati, l’immensa biblioteca, le tele dei grandi pittori veneziani che magnificavano la gloria di un ordine che era forte per studio e disciplina, oltre che per ricchezza, ed era esso stesso azienda e comunità. Napoleone per conquistare Venezia usò il disprezzo e una cannoniera che era poco più che un barcone. Fu ordinato di forzare il blocco di San Nicolò del Lido, che faceva entrare nell’aere sacro della laguna. qualche cannonata, la nave francese perse il capitano e Venezia una indipendenza di oltre mille anni. La Repubblica che già aveva permesso di essere violata nei territori dagli eserciti dell’uno e dell’altro, si inginocchiò e il gran Consiglio, pur privo del numero legale, decretò la sua fine. Quello che non era riuscito al turco nelle sue eterne guerre, al Papa e alla lega di Cambrai, agli imperatori Austriaci e Tedeschi, ai re Magiari, ai Francesi, al Moro, insomma quello che non era riuscito a nessuno, riuscì a quel senzadio che portò il conto della storia consunta dell’Europa al suo capezzale. Venezia era vecchia, sofferente e restava splendida per volontà di popolo, ma ormai se doveva inginocchiarsi tanto valeva farlo davanti a chi avrebbe piegato regni e imperi, umiliato il Papa. Chiusa nell’angolo da ogni forza bellica del tempo, non accennò a nessuna resistenza e sperò nella clemenza del generale indifferente. Era esausta di tempo, prigioniera di riti, orgogliosa della sua memoria ma ormai incapace di avere un comando all’altezza di ciò che accadeva in quegli anni di rivoluzioni. Cedette alla forza chiedendo un rispetto che non ottenne. Venne lo sghignazzo e la rapina, la spogliazione e l’affermazione di diritti inesistenti. La rovina. Venezia restò nuda, privata di governo, sovranità e gloria, ceduta senza quasi colpo ferire, umiliata da un trattato concordato nella casa di quell’ultimo Doge Manin a Passariano. Una casa di famiglia dove l’uomo e lo stato fu due volte piegato e umiliato.

San Giorgio dopo aver visto la festa e la gloria, vide e subì la miseria e il numero della bestia di quel dipinto si materializzò nella sua divisione, nel furto, nella riduzione a caserma del convento. Tagliate a pezzi le nozze di Cana vennero ricomposte al Louvre, come se una finestra sul mondo incredibile che aveva generato l’opera, il lustro, i miracoli si potessero aprire in una parete diversa da quella in cui quell’opera era nata. E il refettorio rimase spoglio, la parete cieca e muta, priva di speranza senza quelle nozze generatrici di discendenza, gloria e potenza, senza miracolo dell’acqua che mutava in vino. Perché Venezia questo fece: mutò l’acqua che solcava in vino che dissetava, inebriava ed era fonte di ricchezze e di stile di vita e lo distribuì facendone parte importante dei suoi commerci e ricchezze all’Europa nei secoli che se non erano bui, erano assetati di nuovo e di meraviglia. Anche per quello in quelle nozze di Cana, immagino, una domanda gentile chiedeva un miracolo perché la festa continuasse, perché gli sposi, che chissà dov’erano, non fossero dileggiati, perché il mondo potesse gioire senza che il disdoro della penuria piombasse sull’evento. Napoleone chiuse la festa, e quella tela, che era la più grande, non spettava a un vinto, ma non poté impedire che restasse la memoria di un epoca immensa per sfarzo, che il genio del Veronese, con la sua eresia e la voglia di vivere, avesse giudiziosamente disseminato in cene e pranzi giganteschi posti in altri luoghi, la stessa misteriosa gloria.

Davanti a san Giorgio Maggiore ora passano altri gaudenti, sguaiati, disattenti, guardano dall’alto di navi alte quanto e più dei 75 metri del campanile. Sorridono con sguardo rapace, scattano innumerevoli foto che non guarderanno e sventolano fazzoletti a chi non li attende. Passare per il canale della Giudecca è molto richiesto dalle compagnie turistiche, per i nuovi dominatori che affollano navi che muovono l’acqua verso San Giorgio, verso Punta Dogana, verso la riva degli Schiavoni. Passano e salutano un moribondo a cui non portano rispetto. Non generano nulla, non c’è gioia, stile, epoca, non c’è il miracolo: sono la continuazione di quel depredare che iniziò nel 1797. Forse è la nemesi di una gloria essa stessa costruita sulla rapina. Forse è la chiusura di un mondo in cui più nessuno grida: viva san Marco. Il forse è la misura dell’incomprensione, di ciò che ci sfugge perché ci pare assurdo e la ragione si rifiuta di capirlo. Ma in quel piccolo, miserevole, profitto come può esserci ragione e se non è tornata la tela ma solo una sua riproduzione, come può San Giorgio maggiore guardare il bacino di San marco e venirne una rinata gloria? No, vede il passare di navi che l’oscurano e battono bandiere di stati compiacenti col fisco, vede innumeri piedi che non attendono a nessuna gloria, vede pietre che si sconnettono e consumano e acqua che cresce.

San Giorgio Maggiore era stato svuotato dai monaci, requisito da Napoleone, occupati i chiostri con le truppe, spenti i marmi, tolto il toglibile, ma chi venne dopo fece altrettanto. Anche quel regno d’Italia che aveva perso a Lissa. Come poteva San Giorgio far miracoli, benedire (cioè dir bene), accogliere nuovamente i re e i nuovi dogi nell’isola che era stata dei Memmo? Nel concederlo alla fondazione Cini lo Stato Italiano nel 1951, ha fatto una cosa buona. Ora è luogo di cultura, di meraviglia per i restauri, di pensiero, ma sembra azzoppato ancora, avvolto in una misura che non è la sua: cioè quella di essere il luogo in cui il potere si riconosce non nella forza ma nella gloria del fare. Forse togliendo le navi, contingentando i turisti, insegnando loro la meraviglia di quel passato che non si è auto generato ma è stato comunque un miracolo. Forse parlando del futuro e di come esso sia a misura d’uomo allora l’acqua potrebbe nuovamente trasformarsi in vino. Ma servirebbe un doge e un popolo, un viva San Marco che sconfiggesse la bestia e tutti gli altri cavalieri dell’apocalisse, un miracolo, insomma.

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