sette anni fa

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Il vento si era alzato nel pomeriggio dopo il solito pranzo fatto di cous cous, di hummus, baba ghanoush (una salsa di melanzane) e piccoli pezzi di carne. Il cielo era percorso da nuvole scure, squarciate d’azzurro, e attorno si sollevava una polvere gialla e sottile che veniva dal deserto. La cittadina era piccola, un paese ormai, fatto di case a uno o due piani intonacate di bianco, che delimitavano strade tortuose. Un tempo era stato una città importante, presente nelle carte romane e bizantine, poi la decadenza e infine la scomparsa di quasi tutto quello che ricordava l’antica ricchezza. Appena fuori le case, avevo notato un filo di ferro tra pali di legno, una specie di recinzione che delimitava un ovile vuoto. Il fil di ferro era giuntato con la forza delle dita e in uno dei capi era rimasto un ciuffo di lana che ora si muoveva col vento, resisteva e non si staccava, abbarbicato al filo, come non avesse altro, come se lasciarsi andare fosse perdersi definitivamente. Lo guardai a lungo, curioso su cosa sarebbe accaduto, oscillava, si allungava, ma non si staccava. Attorno, oltre quella costruzione precaria c’erano muri a secco che delimitavano proprietà poco coltivate. Gli abitanti erano spariti nelle case, presagendo il temporale, solo alcuni lavoravano all’esterno e avevano coperto la bocca e il naso con le kefiath per ripararsi dalla polvere: toglievano sassi e pietre dalla terra e li ammucchiavano vicino ai muretti.

Volevamo visitare una città morta, una delle oltre cento che si disseminavano tra le colline prima di giungere al deserto. Sembrava che in questa ci fossero mosaici, sfuggiti alla furia iconoclasta che aveva scalpellato ovunque i visi e spesso l’intera figura. Camminavamo lungo una stradina verso le rovine, che erano oltre la collina, con una voglia di riparo che cresceva ad ogni passo. Arrivavano suoni di lamiere, di voci distanti e belati, di imposte abbandonate e sbattute, poi in cima il vento calò all’improvviso e tra i muri d’una casa senza tetto c’era un pastore con poche pecore e un asino. Ci guardava senza parlare, e la guida scambiando qualche parola in arabo, gli spiegava chi eravamo e da dove venivamo. Sorrise, accettò una bottiglia d’acqua e alzando il braccio disse qualcosa, forse il nome, della città abbandonata che ora si vedeva ai piedi della collina. Cominciava a piovere, noi aprimmo gli ombrelli e lui, il pastore, si accucciò appoggiandosi al muro, sotto la pietra che era stata un davanzale, le pecore si ammucchiarono più strette. Li guardai mentre mi allontanavo, sembravano un mucchio di lana che attendesse qualcuno che lo portasse via, ma senza fretta, per ora era importante superare il temporale.

Pensai in quel pomeriggio che su quella terra erano passati in molti, avevano devastato col fuoco e con la spada, gli antenati del pastore avevano atteso che se ne andassero o rimanessero. Erano cambiate lingue, bandiere, leggi, e loro avevano sempre atteso che tutto tornasse ad essere abitudine. 

La città morta si rivelò bella più per quello che evocava che per ciò che era rimasto. Tombaroli offrivano monete, vasi di vetro e alabastro, pezzi di mosaico staccati e messi su legno, statuette antiche. Erano appena nascosti nelle mura senza tetto. Fuori c’erano guardie che fumavano e facevano finta di non vedere, se ci fossero stati acquisti avrebbero avuto la percentuale. La visita continuò a lungo, immaginavo storie che non mi venivano raccontate, ma c’erano botteghe, case, lastricati di strade segnati dalle ruote dei carri, resti di teatri, chiese e colonne di templi. Questa città aveva brulicato di storie, amori, fatti eccezionali e consuetudini. C’era stato potere e chi l’aveva subito, gloria e condanne esemplari, soldati e mercanti, artigiani, donne e bambini, ma soprattutto molta vita quotidiana per quasi 500 anni, poi gli abitanti erano fuggiti in massa. Di luoghi simili ce n’erano diversi, messi a segnare vie di commerci oppure  nati attorno a un culto, a santi particolari e strani nei comportamenti, diventati oggetto di esempio, di alternativa al vivere, oltre che speranza di miracolo. Poi le scorrerie, le guerre, le invasioni avevano deviato i commerci e seppelliti i culti. Non c’era più ragione di stare in quei luoghi. Come già cominciava ad accadere in quel momento.

Però m’illudevo, avevano viste così tante invasioni, gli abitanti, che avevano resistito all’inimmaginabile, e si erano spostati solo un po’ oltre la collina: erano sempre rimasti. Magari facendo largo a chi invadeva e voleva restare, ma erano stati fedeli ad una patria. Non so cosa sia la patria per un invasore, di sicuro non è un concetto praticato dalla geopolitica, però è qualcosa di radicato negli uomini che hanno bisogno di terra, di odori, di alberi e di punti di riferimento, di colori, di cibo cotto in un certo modo e di rumori diurni e notturni che sono suoni per chi ascolta. Questo sentire andrebbe rispettato perché è parte di quelle persone e senza esse sono molto meno. Il concetto di buono, di relazione, diventa labile quando manca la libertà di essere in un luogo. Il buono diventa impotenza e rabbia che cresce e vuole che cessi la sopraffazione, la sottrazione di identità.

Lo penso in questi giorni in cui il vento non è più quello del deserto, sono in una casa calda, se fuori piove la mia città riluce ed è più antica di quelle città e anche se è stata distrutta è poi risorta più bella. Lo penso perché venti di guerra si gonfiano e non vedo preoccupazione sufficiente, non sento umanità per chi è stato privato di tutto e ora è ostaggio della carità dell’occidente. Lo penso perché ci sono indifferenza e inanità mescolate, perché le elezioni si vincono indicando un nemico e allora la guerra diventa plausibile. Ma ora questa guerra si avvicina e fosse pure per egoismo, servirebbe la pace, per chi muore e per chi ha timore che tutto questo non abbia una ragione sufficiente a evitare una catastrofe planetaria. 

Sette anni fa, in aprile, ero in Syria, iniziava una guerra, ne vedevamo i primi segni e ci dicevano sarebbe finita subito.

3 pensieri su “sette anni fa

  1. La cultura del nemico rivela l’insicurezza della propria identità e cultura e chi viene reso nemico lo diventa. Per quanto tempo si può pensare duri la sopportazione di ogni angheria.

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