mortificare come negazione del vivere

Quando qualcosa diventa altro, eppure questo qualcosa è ricompreso, nascosto in un insieme più grande, non e’ metonimia, ma è la mortificazione in agguato. Ed anziché una parte essere simbolo del tutto quella parte sta necrotizzando qualcosa, lo imprigiona e con esso imprigiona noi.

Ci sono infiniti modi di mortificare, scrivere al posto di vivere ad esempio, oppure pensare che il piacere duri all’infinito, forzarsi di vivere nel momento togliendosi il futuro, parlare di sé senza cogliersi e sapere che il particolare raccontato è il grande paravento. 

La mortificazione, tolta dalla disattenzione altrui, oppure dall’indebito rimprovero, è faccenda personale, passeggiare sul limite tra vero e falso, dove il falso non è così falso, ma solo una parte, una scorciatoia per non affrontare la difficoltà di vivere. Come una giustificazione per qualcosa che si farà, o ancor meglio, non si farà. 

C’è mortificazione quando, scientemente o meno, ci si toglie qualcosa perché sostenerla non è comodo, potrebbe mutarci. Faccio un esempio se lo scrivere è un piacere che dilata il mio sguardo, mi porta problemi e li risolvo dialogando con me e non solo con la forma, con la grammatica, sono meno attento al contenitore e molto alla mia verità nel contenuto, allora lo scrivere allarga la percezione, il dialogo non è solo un soliloquio. Se invece lo scrivere è un rifugio, un rinchiudermi nel mondo personale, anzi un chiuderlo ancor più, allora diviene mortificazione della possibilità e quindi mortificazione di qualcosa che ho dentro.

L’aggiungere diviene il discrimine tra ciò che amplia e ciò che rinchiude, e l’aggiungere non è il numero, ma lo sviluppo della possibilità, il lasciare ch’essa cresca, divenga parte di noi, piccolo passo avanti. Per questo penso che la lotta tra la mortificazione e la possibilità siano una costante forte del vivere che scende oltre la superficie, e penso altresì che la scelta non debba necessariamente essere mortificazione, ma quanto più vicina è a noi stessi, tanto più essa amplia e quindi è esattamente il contrario della mortificazione. 

Si dice spesso che la non scelta è una scelta e spesso di grande peso, ma nel non scegliere mortifichiamo e quindi diviene una scelta negativa peggiore di quella esplicita che evitiamo perché la consideriamo troppo contro noi stessi, troppo violenta nel suo rifiutare ciò che sentiamo giusto per noi.

Il mortificare è un topo furbo che si nasconde beffardo, è il rivolgersi in continuazione contro di noi attraverso l’ apparente piacere immediato, attraverso l’ordine esteriore, attraverso la rottura della regola per la rottura e non per l’emergere di una nostra regola interiore. Il dialogo con la mortificazione, con lo thanatos che ci accompagna è continuo, faticoso, estenuante spesso, se non affinando la capacità di non prenderci troppo sul serio, nel sorridere di noi con l’ironia dello sguardo che distingue tra ciò che ci fa bene nel tempo e ciò che ci fa bene immediatamente. Non è una posticipazione del piacere, sarebbe una visione molto deviata e fintamente cattolica dell’uomo, ma la sua tranquilla crescita in un progetto personale che comprende la vita come bene sommo e non persegue la sua costante negazione.

In fondo la vita è l’esplorazione di queste segrete stanze che conteniamo e il lasciarle aperte alla luce del nostro vedere.

5 pensieri su “mortificare come negazione del vivere

  1. ho in mente il capitolo di un libro di studio sulla mortificazione dell’altro, l’ho letto mille anni fa, ero una ragazzina ancora da fare e ce l’ho ancora in mente. togliere via quel pezzo di vita che c’è nelle cose, tagliare all’altro la possibilità di farci leva. che bei pensieri si fanno a leggerti.

  2. sa il cielo come io appaia quale bis(bet)ica che manco la password d’accesso mi ricordo… forse dovrei approfittarne per fare quel che ci siam detti, ma ora, nell’esatto momento in cui l’ho scritto e stavo qui per commentare questi tuoi bei pensieri, già perso il senso dell’esprimere.
    la mortificazione autoinflitta, quella che santifica, quella dell’alto sacrificio (a chi se non a noi ed alla stessa nostra vita? e non è pertato un controsenso?), quella che ci protegge dal rischio dell’inatteso, sconosciuto futuro, senza il quale siam già sopravviventi

  3. Ed è così che si fa esercizio di “perverzione”.Con la parola,attraverso la scrittura,nel godimento di svilire la vita.
    L’alternativa? C’è.Riappropriarsi della serietà-ferma della propria Dignità come un tempo ho fatto anch’io,dopo aver capito che,abbassare la testa piangere o urlare era solo un restare ingabbiati da una propria incapacità a reagire razionalmente,complice dello stesso “sistema” di quel gioco perverso.Umiliare o mortificare non è mai “segno” di bene (buono),semmai un buon esercizio di d’egoismo dominante.
    Bianca 2007

  4. Con questo scritto cogli in pieno un sentimento che sto provando nell’ultimo periodo. Il senso che attribuisco alla mortificazione è nella segregazione egoistica che avviene perfino nei sentimenti. E’ la stretta prigione che diviene prigione di tutto l’essere e provoca dentro un senso di decomposizione e di morte. Tutto deve evolvere, compiere il suo ciclo, infine morire, ma l’atto di impedire la possibilità della crescita è il modo per diventare costruttori di prigioni.

  5. credo che la mortificazione autoinflitta sia un suicidio lento e differito contro il quale la vitalità combatte una eterna lotta. L’esito non è scontato ed è strano scoprire in continuazione forze ignote ed amiche.

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