il grafo della fine dell’infanzia

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In fondo erano poche strade, anche se a me parevano tante, il grafo dei miei percorsi l’avevo in testa, con relative priorità e gradi di piacere, ma allora non sapevo cos’era un grafo ed erano solo strade e luoghi di congiunzione tra necessità e libertà. Avevo 11 anni, quasi 12, come il millequattro quasi  millecinque di non ci resta che piangere. Casa, campo da pallacanestro, patronato, scuola, i giardini di certe case in rovina, case di amici, il Prato e gli zii, i giardini dell’arena e le piazze. Percorsi con i calzoni corti, di corsa, da solo, in compagnia, nel sole delle estati afose di città, piano, sotto i portici, d’inverno. Alcuni pensieri ancora li ricordo, erano di attesa di cose buone, di futuro. E poi quella nuova scuola. Tetra come sanno essere i conventi strapazzati dagli usi civili, ricca di superfetazioni, laboratori, cemento e aule ricavate in spazi che un tempo dovevano essere belli. Una scuola professionale, perché questo aveva pensato per me il maestro, ed era stato pure ascoltato; che stupidaggine vista la mia manualità e la fantasia solitaria e galoppante. Comunque era un’ altra scuola e a me bastava per uscire dall’infanzia. Non più l’elementare vociante dei bambini, dei grembiuli e dei fiocchi, dei nonni in attesa, delle dita sporche d’inchiostro. Non più le aule che odoravano di vecchio e di legno, i finestroni altissimi che si riempivano di pioggia, le tende pesanti, nocciola di sporco e di canapa, gli alberi visti mentre desideravo esser fuori e lontano una voce spiegava, spiegava e io sognavo di tagliare un ramo del tasso che vedevo per farne un arco (come Robin Hood), non più lo stesso maestro, gli stessi compagni, gli stessi percorsi: tutto nuovo, strade nuove, occhi nuovi per un’età che cresceva troppo piano e troppo in fretta rispetto ai pensieri e al corpo che s’inerpicava nell’età prepubere. L’età informe e indecisa, la terra di nessuno in cui sarebbe accaduto molto, troppo, e capito nulla o quasi. l’età delle trasformazioni in cui scoprivo la libertà, la possibilità d’essere solo e felice. Eppure in quel vivere mi sembrava di non imparare nulla di confrontabile con il prima ed erano pochi i ricordi che restavano dei giorni, delle cose, quasi a negare l’età precedente, perché il ricordare è faccenda personale, un riposarsi nel passato, cosa davvero poco interessante quando si cresce o si esce da un’età e si entra trionfanti e timorosi nella successiva.

Eppoi c’era una nuova casa, perché in quell’anno traslocammo, nuovi pensieri e nuovi luoghi di gioco. Ambienti più grandi da odorare, un sole diverso che irrompeva da finestre disposte secondo nuovi orientamenti, odore di calcina e di lacca, pavimenti di legno a lunghe tavole, il terrazzo veneziano nel soggiorno, una televisione, un frigorifero, un giardino, un muro alto che separava da un convento pieno di ragazze che cantavano canzonette, una terrazzetta, due scalini di legno su cui mi sedevo guardando il Santo, con le sue cupole e l’angelo con la tromba che si muoveva con il vento e la soffitta e i mobili in cui nascondere fumetti e un tumulto dentro con la scoperta della malinconia. Forse mezzo chilometro, ma il mondo era davvero cambiato. Io ero davvero cambiato.

E continua…

il corteo

Le strade sono le stesse. Quasi. Il rumore di un corteo è fatto di slogan e di voci tranquille, quasi sommesse. In un corteo c’è molta gioia oltre che rabbia. Anzi direi che quasi sempre prevale la gioia. Sul corso sfilano gli studenti, gli autonomi, bandiere variegate, striscioni, qualche bandiera anarchica. Qualcuno di quelli che sfila, ha la mia età. Li guardo perché non hanno mai lasciato quella che è sembrata l’acquisizione della vita, ma non c’entrano adesso, raccontano d’altro, sono una memoria che non ha riscontri. Al centro del corteo c’è un camion con due immense casse che trasmettono musica rap, ad altissimo volume, spesso si inserisce una voce, che, con la cantilena delle manifestazioni, indica obbiettivi, slogan, ingiustizie in corso, appelli. Poi riprende la musica. I ragazzi sembrano lieti, c’è il movimento degli studenti, tanti hanno un fazzoletto, una bandiera, un cartello. Molti loro colleghi stanno riempiendo le pizzerie al taglio, i kebab, le pasticcerie abbordabili, qualcuno saluta e si sfila. Davanti ci sono dei ragazzi con dei grandi rettangoli colorati. Sembrano di legno leggero, sono scudi per una testudo che da qualche parte troverà pure una ragion d’essere. Poi li vedrò sul video di repubblica disfarsi sotto due cariche di polizia. Ho pensato a Pasolini quando le ho viste, quando parlava dei celerini come i veri rappresentanti del popolo, del proletariato. Adesso non condividerei quell’articolo, i poliziotti hanno un mestiere, un lavoro, molti di questi ragazzi non l’avranno. Sono loro adesso i portatori di richieste logiche senza diritti. In stazione parte una carica della polizia, la guardo e mi chiedo se era necessaria. Non capisco, mi pare violenza in più. So invece che questi ragazzi non sono rivoluzionari di professione, so che cominciano a capire che il mondo è sempre più comunicante, ma loro sono sempre più soli. In piazza c’è il comizio della CGIL, molti pensionati, molte aziende in crisi, cartelli, bandiere rosse. E’ pacifico tutto, la lotta sarà lunga, è lo slogan che circola per la piazza. Bisogna durare un minuto più dell’avversario. Lo si impara in ogni trattativa sindacale. Chissà se ci sarà tanta pazienza.