marginalia

Sembra sempre che qualcosa manchi.

Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio.

La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa.

La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce.

Il tempo: troppo quando rimando.

Troppo poco, devo andare.

Meglio scrivere sul margine del tempo,

cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale

lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, contento delle sue conseguenze.

Dispettoso e allegro, pensoso.

Chissà dove andrà a parare?

Inseguirlo e meravigliarsi un poco.

Farò a tempo.

Arriverò in ritardo.

Ce la faccio.

Bello scrivere quando il tempo è poco,

e s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre.

La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede.

Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria.

La pioggia aspetterà.

Non aspetta. Cade.

Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo.

Aspetta ancora un poco. Per favore. 

o meglio così:

Sembra sempre che qualcosa manchi. Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio. La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa. La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce. Il tempo. Oh il tempo: troppo quando rimando.Troppo poco, devo andare. Meglio scrivere sul margine del tempo, cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale. Lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, è contento delle sue conseguenze. Lui. Dispettoso e allegro, pensoso. Chissà dove andrà a parare? Inseguirlo e meravigliarsi un poco. Farò a tempo. Arriverò in ritardo. Ce la faccio. Bello scrivere quando il tempo è poco, però s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre. La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede. Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria. La pioggia aspetterà. Non aspetta. Cade. Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo. Aspetta ancora un poco. Per favore. 

le vanità oggettive

In quell’attività dell’anima,

ch’è guardarsi nel mio specchio,

vedo segni del tempo,

un lampeggiare d’occhi,

tratti che riconosco,

e allora indugio nei pensieri,

che resistenti, han modellato solchi, tracciato mappe:

segni ch’io seguo e ricordo.

Chi mi vede, scivola su tutto questo,

chissà che cerca,

ma anch’io mostro la vanità d’esser un po’ sopra il ripiegar la schiena,

e tengo per me, e per pochi altri davvero,

il senso di quelle strade che anch’io costante indago.

Di tanti anni, ed errori, m’è riuscito il riconoscermi

(il ricordo è così mutevole e creativo),

mentre a dire ciò ch’è accaduto, solo i segni restano oggettivi ,

forse ciò rende contento, d’improvviso, il sapere

che una mano ancora lasci impronte di calore sulla mia.

Andare, mentre mi guardo,

andare in scelta compagnia,

andare restando qui,

in cerca di me stesso.

ritorno

Specchio dell’andare, il ritorno non è mai perfetto. Manca sempre qualcosa e disperdiamo ciò che serve, ma questo, che lasciamo dove amiamo, altro destino non può avere, ch’essere lasciato lì, perché quello è il suo posto.  Questo vale per le persne e i luoghi, e così, stamattina alle cinque, per poco, il sonno si è sospeso: attendeva il parlar cantando del muezzin, poi è subentrata la sensazione del letto, il silenzio, il freddo, la stanza, prima di scivolare nel sogno nuovo. Fino a ieri, il muezzin metteva fine al sonno, così strano e lieve, dell’esser via. Perché si è sempre via finché una nuova abitudine non subentra, e il sonno è un’abitudine piena di circostanze. Le circostanze di questi giorni erano suoni, rumori d’animali sul tetto e intorno ai bungalow dove dormivo, silenzi improvvisi e così strani da trattenere il fiato. I silenzi nei mondi commisti d’uomini e animali non sono mai perfetti, nel mondo antico occidentale era così, ora non ne abbiamo più memoria, il nostro è il silenzio delle macchine, quasi mai minaccioso, invece quando il silenzio subentra tra gli alberi, inquieta, è timore collettivo. E il tempo si fa lungo, lunghissimo, finché poi tutto riprende con un sospiro che è ciarlare che intreccia versi, storie di specie diverse, gridi d’uomini e d’animali, ciascuno che s’ addensa nei luoghi in cui ha deciso di stare, ma trabocca, esonda, si fonde.

Le mie sono impressioni del sentire, chissà cos’hanno sentito gli altri. Dell’Africa conosco pezzi, se conoscere si può racchiudere in quello che ogni volta mi scuote nell’andare. La mia Africa è la sensazione di sterminato che si prova nell’ approdo, l’esperienza di un luogo che si apre. Ne parlerò a pezzetti, assieme ai progetti di Cumbacarà e degli altri villaggi, ma ora sono ancora sospeso tra due mondi, con la sensazione che, ancora una volta, un pezzetto sia rimasto lì ad attendere un ritorno. Torniamo per ritrovare, ma quello che c’era si è evoluto dentro di noi, ha acquistato fattezze diverse, eppure c’è nell’aria. Mi pare, riconosco, ma ciò che riconosco è nuovo, e quel nuovo sono io che rimetto in ordine. Quand’ero bambino e tornavo dopo 5 settimane di mare, la casa, le stanze, le scale sembravano estranee, come familiari cresciuti distanti che si riconoscevano, ma non appartenevano più. Impiegavavo qualche giorno a ritrovare le abitudini, la fessura del pavimento su si giocavo, la merenda con il profumo di casa. Adesso, quando viaggio, l’estraniarsi è dai fatti, dagli odori, dai suoni, per l’appunto, più che dalle cose, ma anche dalle dimensioni delle notizie. Dopo tanto vedere privazione, già lì, la miseria ha bisogno di definizioni geografiche. Quel banale dire “non ho parole” adesso è ricerca di significato alle mie parole, ben sapendo che quello che ne uscirà non sarà la realtà, ma come io la sento. Capisco meglio il suono che muta con i popoli, la necessità che le parole abbiano significati diversi nei posti in cui si va, e mentre avverto una delle motivazioni affascinanti e misteriose delle lingue, ho la stessa testa con più cose dentro, la mia stessa lingua da precisare. Bisognerebbe far una lezione, un corso, su una sola parola, definire assieme un colore, un suono, un sentimento e un mondo si spalancherebbe. Noi ci spalancheremmo, come quelle case che non hanno finestre, ma solo zanzariere, dove la terra battuta è pulita come un pavimento in ceramica, dove le galline mangiano nel piatto di portata prima che questo arrivi in tavola, ma si capisce che accolgono, sono attente e rispettose di chi è arrivato. Le lingue servono come gli occhi, ma io ho solo i sensi ed in Senegal se ne parlano cinque, di lingue. Dal tono e dalla velocità si può fantasticare sul mondo in cui sono nate e servivano le parole, come costruzione progressiva, utensile adatto all’uopo. Le lingue veloci del lavoro e della caccia, le lingue lente del racconto, dell’educazione e del commercio, le lingue mute del sentire, intercalate dalle espressioni di gioia o sofferenza o richiesta grave. Le lingue esplosive del gioco, le lingue del parlare con gli spiriti e con gli animali, più ricche di consonanti e vocali lunghe.

Io non capisco ciò che dice il muezzin, ma quando sento il primo Allah, con la finale aperta, lunga, modulata, penso che un po’ d’amore, di regole ci dev’essere in questo mondo. Io che non sono credente, credo che il refe che unisce gli uomini scorra nel suono delle parole, che quando questo s’allarga, si aprano speranze, che inizi il giorno, sia quello vero che quello virtuale. Alle cinque non c’è invito alla guerra, ma il saluto al sole. Penso allora che ogni risveglio è una possibilità e che questo unisce quest’Africa alla mia Europa. Mi manca il muezzin, mi lasciava a letto e mi faceva allungare il corpo nel primo risveglio, tra luce e sonno. Poi veniva la fatica del giorno, ma solo poi.

p.s. adesso è presto, uscirà un po’ per volta, il racconto, cosa in fondo facile, e ci sarà la lettura di ciò che provo davvero, cosa difficile, perché tra il positivo e il negativo si tende a far bilanci ed invece dovrei solo lasciar fare al mare che disegna in continuo la mia spiaggia. Proverò.

p.s. 1 ciascuno a suo modo, mi siete mancati, non c’era molta possibilità di rete, ma tutto questo vi rendeva più reali. Grazie per gli auguri: sono serviti.