tutti uguali

Tutti uguali, gli uomini, sempre in fuga, incapaci di decidere davvero, vocati a tenere il culo su più sedie.

Tutti uguali a raccontare a mezzo, a lasciar intendere, a dire ti amo al posto di ti voglio bene e dir ti voglio bene al posto di ti amo.

Tutti uguali con le loro superiorità di merda, con le abitudini incomprensibili, con il loro far star male noncurante, con il condividere banale.

Tutti uguali nel narcisismo affamato, nel fascino gettato con leggerezza bieca verso sorrisi gentili.

Tutti uguali nel dire:sei speciale, sei unica, non è mai stato così, pronti ad esibire sofferenze oscure: perdio come soffre a non amare più, come soffre.

Tutti uguali al 98% e quello speciale davvero è capitato a te? Ma fammi il piacere, và, fammi il piacere.

Tutti uguali, occhei e allora che si fa? Oltre a cercare di educarli all’amore, di conquistarli, tenerli, mutarli per renderli accettabili e carini, che si fa?

Una danza, una giarda tra l’esserci e il non esserci, tra l’inchino e lo sberleffo, tra il contatto promettente e la distanza. Ecco quello che si fa.

Chissà che volevi, mia cara ed invece, se va bene, hai un  compagno di ballo, una terapia che aiuta a trovare i propri limiti e bellezze, che fa esercitare i sentimenti e il corpo. Una presenza che ti fa incazzare mentre fornisce  dimensione al reale e al sogno, che fa soffrire e gioire, educa a capire e a dimenticare. Ma in realtà fai tutto tu. 

E il bello è che lui non lo sa e continua imperterrito ad essere uguale.

E le donne come sono eguali?

muore a letto con l’amante, poi è rissa

I fatti sono semplici: un uomo muore nel letto dell’amante, questa, disperata, chiama soccorsi, constatato il decesso la polizia avvisa la famiglia. Arriva la moglie, accompagnata da un fratello e dal figlio. Scoppia la rissa.

Dove finisce il possesso e inizia l’amore?

di genuina bontà

Non leggo i messaggi minatori, le disperazioni vaghe a cui non mettere rimedio e metto in campo azioni di genuina bontà. Rifiuto, allontano, distacco perchè, complice la stagione, non sopporto. Quando il segno viene superato anche il necessario diventa troppo, provoca ripulsa, trattenuta per cortesie antiche e ricordi comuni. Ecco che di genuina bontà faccio professione per non esserci più, per essere “basta” senza alzar la voce. Ognuno ha in serbo tal forza e malgarbo da far annichilire: armi non previste dalle convenzioni, ma d’uso comune nelle pareti di città. Nell’ insistenza, nel volere che le asimmetrie diventino simmetriche si distorce tutta la realtà e ciò che non c’è non diviene passato. La Didone è sempre abbandonata, ma tutto è più normale: è settembre, è solo la vita che abbandona il sontuoso caldo, gli ozi e i pensieri circolari: l’autunno sarà clemente. Si spera.

volume

Volume è parola tonda. Felice o preoccupata del proprio spazio, essa è destinata all’immagine, ad essere manipolata, adattata, espansa in orizzontale, verticale, ora anche in obliquo. Non a caso, parola importante nelle fortune contemporanee, compresa quella iniziale del presidente del consiglio, viene negletta, posta in seconda fila, non indagata. Discende, essa parola, nella regola pubblica, dalla presunzione d’ordine; mai sola nella sua attuazione: volumi concessi, edificati, trasformati, venduti, massimizzati, occultati. Con gli aggettivi sminuenti il volume acquista qualità sorprendenti: di servizio, comune, tecnico, ecc., Sono questi aggettivi, vere offese al volume e tali da fargli perdere fisicità, tanto che come per il censo, lo si può vedere diversamente: metro cubo sì, ma non come gli altri e perciò valere un terzo, un mezzo. Salvo poi risorgere economicamente, come sanno tutti quelli che abitano in un garage o magazzino trasformato, ma non è la rivincita del volume, è il trionfo dell’ipocrisia delle regole.

Parola poco indagata, volume,  soprattutto nella percezione dello spazio individuale e nella sua correlazione con la felicità e ancora giù nella scala verso benessere, accettabilità, indifferenza, malstare, disagio, incompatibilità.

Se noi rappresentiamo il nostro stato interiore – e non la sua proiezione – in relazione al volume disponibile, “nostro” o sognato, la sua concretizzazione può essere vista su spazi orizzontali dove espanderlo oppure collocato in alto, per vedere/dominare ciò che sta attorno. Il ritmo del costruire e quindi della città viene scandito da questa solidificazione di desideri, di rappresentazioni ovvero il mercato in sintesi è il prevalere del vedere fuori vs. il vedere dentro.

L’alternanza del verticale con l’orizzontale, inframmezzato da spazi verdi corrisponde ad un’ idea d’ordine nel quale riconoscersi o meno, ma comunque oggetto di comprensione ampia e confronto. Guardando una foto aerea, magari all’infrarosso, oppure meglio, vedendo la città dall’alto di un grattacielo, nella sequenza di spazi e nella collocazione fisica individuale, si legge la trama degli equilibri, del ben stare o del disagio, dell’anossia o della libertà.

Noi sappiamo ciò che è brutto, ci adattiamo al brutto cercando di trasformarlo, trasfigurarlo, mutarlo in sembiante del bello, dell’armonico, del vivibile. Come nei paesi dell’est, o nelle fabbriche casabottega degli artigiani del nord est, superato il brutto esterno, si accede al bello individuale, interno. Il volume ri-ordinato e manipolato internamente è imago del sè, con una forte corrispondenza tra ciò che abbiamo dentro e ciò che ordiniamo fuori, anche in termini di autoillusione. L’interiore assume il compito di rendere più piccola l’influenza dell’esterno, in un bilanciamento che ci permetta di dire: questo volume è mio, solo mio, ha la mia impronta, la mia cifra. Capita nelle vecchie case, anche riadattate, di sentire la presenza di chi ha abitato, come se i muri, un tempo rispondenti ad una diversa concezione del volume, ne avessero conservato l’impronta e permanesse un esistere non spento. 

Quindi questo dialogo con il volume esiste, è un a priori. Noi ci adattiamo al volume, esprimiamo desideri, sogni (chi non vorrebbe una villa con parco in centro?), ma alla fine ci adattiamo, lasciando che la compensazione avvenga all’interno, che sia stabilito un equilibrio tra essere e dover essere, che la testa si conformi e si adatti. Dovrei dire che, a parte uno spazio fisiologico, con l’evolvere dei desideri, è più importante l’esterno che l’interno ed è proprio questo confine che è il meno indagato, ma è forse l’unico a poter definire il vero volume aggettivato, quello fisiologico.

Il volume asseconda le nostre inclinazioni e non è solo per motivi costruttivi che il costruire verticale importante italiano è sporadico, e comunque spesso ricondotto più ai servizi che alla residenza. Mentre si opera su altezze spesso banali, fatte più della logica del mucchio che della intuizione costruttiva. Azzardo una suggestione: la stratificazione storica, che comunque ognuno di noi possiede, porta verso spazi orizzontali, verso domini netti, chiede comunità piccole, se possibili nucleari, come se la storia fosse di per se stessa aggregante e identitaria: non c’è bisogno dell’alveare, della megalopoli, ma piuttosto delle celle, delle unità.

Ma questa ipotesi o qualunque altra, contrasta con la rendita immobiliare, con il valore determinato dalla trasformazione dei suoli. I delitti contro il volume, compatibile con noi, si compiono qui e non nella legittima attesa della remunerazione del capitale investito, bensì piuttosto nella sua massimizzazione smodata. Si può osservare che gli alveari umani sono sempre esistiti, solo che un tempo erano il prodotto della povertà, del bisogno adesso invece, diventano modo d’essere e pianificazione delle relazioni.

Immaginiamo una operazione mentale che ci veda entrare nella parola volume, che come in un cartone animato, si apra una porticina su una superficie riflettente, ma che forma ha questa superficie per noi? E’ geometrica, un cubo, una sfera, un parellelepipedo oppure è qualcosa di mobile come una bolla che muta, una forma amebica che può avere spigoli assieme a curve? Già dalla forma cominciamo ad entrare nella parola e nel nostro significato di volume. Il passo ulteriore sarà nella nostra percezione della superficie del volume: tranlucida, trasparente od opaca. Vogliamo vedere, oppure isolarci? L’operazione si chiude da dentro collocando parola e significato nello spazio intorno a noi e rappresentandolo come contesto includente, ma al tempo stesso rispettoso. E’ in questo dialogo tra interno ed esterno, da come noi avremo collocato il nostro concetto di volume che si avrà la percezione dello spazio vitale.

Questo dialogo intimo è già punto d’arrivo, ininfluente se non ha una manifestazione esterna, politica nel senso di relazione, di polis, ma comunque fonte di consapevolezza. In questo estrinsecarsi dei desideri/bisogni, una variante di piano regolatore assume un’ influenza sulle nostre vite, ben superiore alla percezione usuale: sarà questo atto il regolatore dei volumi, dei nostri volumi. E darà senso, all’essere dentro al volume e al camminare esternamente ad esso, ci permetterà di predisporre condizioni al benessere oppure di partire con l’handicap di un malessere da incongruenza di spazi. La necessità individuale si misurerà con le condizioni che le regole consentiranno al costruire, è qui il vulnus che verrà perpetrato alla nostra concezione di volume e qui bisogna agire. Compatibilmente, ma agire.

Non mi sono sforzato a mettere in ordine i pensieri, nè ho cercato di renderli chiari. Una traccia può essere sintetizzata nel dire che se si parte dal significato di volume si arriva allo spazio che abitiamo interiormente ed esteriormente. E che la possibilità di vivere più o meno bene nello spazio dipende da un oggetto di cui ci occupiamo molto poco: il piano regolatore. Fonte di fortune economiche e di riordino di relazioni, ma anche di infelicità collettive e di difficoltà del vivere.

Bene, se le cose erano così semplici, perchè adoperare tante parole?  Perchè le cose non sono semplici e il significato che io attribuisco a queste cose, non è necessariamente il Vostro. Come direbbe un’ Amica: mi posso permettere solo questo appartamento, non posso complicarmi la vita. Tu butti sempre tutto in politica. E invece io penso che l’appartamento che affitta questa amica potrebbe essere diverso e avere lo stesso costo e farla vivere meglio e in maniera meno complicata. Ma questa è un’altra storia. 

O forse nò?

parliamo

note per una lettera 1…

…non abbiamo più niente da dire, te ne sarai accorto. Scherziamo, parliamo del passato, ci prendiamo in giro. Soprattutto mangiamo e beviamo. Ma non abbiamo niente da dire. Il presente è fatto di lamenti, non c’è un’analisi decente, una via d’uscita. Non sono gli altri che sono migliori, siamo noi che siamo peggiorati e senza futuro. Ecco, non abbiamo nulla da dire sul futuro.

Assieme passeremo pezzi d’estate, le donne si abbronzeranno ancora e noi dispersi tra sabbia e sonno parleremo, parleremo. Di cosa parleremo? Di libri, di film, di amici, di vini, di lavoro e di politica. Ma poco di questa e lamentandosi, perchè è già ora di andare a cena. Non un sogno, un progetto che coinvolga i sentimenti e faccia luccicare gli occhi: abbiamo bisogno di gesti gratuiti, di essere noi tra tanti e di lasciare che le parole semplici ci entrino dentro.

Noi. Ti ricordi quando questa parola era un limite e una promessa, una porta da cui fare entrare il mondo, non un circolo chiuso in cui si sta bene. Perchè poi si sta bene tra noi, perchè sappiamo molto di noi, perchè non parliamo più davvero e accettiamo la realtà ? Ma non è così che si vive, lo sai perdio che così si muore. Si aspettano solo le cattive notizie, così.

Cominciamo di nuovo, è ora di uscire dalla melassa. Parliamo, davvero…

certezze

note per una lettera…

E’ come sapere che una cella ti attende: è lì, vuota per te e tale resterà finchè non verrai preso. Ti puoi illudere, puoi muoverti come se si fossero scordati di te, ma tu sai che non è vero.

Ti aspettano senza fretta, nè bisogno di rincorrerti: se non ti consegnerai, ti prenderanno lo stesso. Anche per i tuoi troppi, voluti errori. Hai parlato di necessità, d’amore, ma hai evitato la ragione vera e non hai lottato a sufficienza per la tua liberazione. 

Per questo pensi da prigioniero, vivi da prigioniero, sei prigioniero.

costringere

“…credo di essere stato io ad avere iniziato a costringerla (costringerla ad amarmi), benchè tale compito non sia mai univoco ed è impossibile che sia costante, e la sua efficacia dipende in gran parte dal fatto che i ruoli vengano di tanto in tanto scambiati e che sia la persona costretta a costringere l’altra.” 

Javier Marías Un cuore così bianco

Forse l’asimmetria ha una pazienza che, con piccole spallate, fa oscillare e compensa le difficoltà, le cadute di interesse, gli sbalzi di passione. Così può continuare un dialogo in cui l’uno parla alla persona che vorrebbe, ma non è.

E dopo sarà il turno dell’altro.

perchè?

Perchè non la lascia, perchè non sceglie me?

Non mi importa che lo faccia davvero, forse neppure lo vorrei, ma così è sempre tutto precario. Si gioca a fare gli amanti, le vite hanno traiettorie proprie. Non lo vorrei in casa. Vivo e dormo bene da sola, manca solo la stessa condizione, la libertà e il non essere subordinata ad altre esigenze. E’ come non ci fosse mai stata una scelta bilanciata, il coraggio di una scelta comune. Non basta che le cose siano chiare, che i presupposti siano rispettati, ci sono cose che non si dicono per non far male, mezze verità. Tutto mezzo e dipende da questa precarietà della non scelta. Non lo lascio, ma se trovo un altro che mi prenda davvero non ci penso un attimo. Quando rifletto non  mi piace quello che accade, poi mi adeguo, ma vorrei essere scelta per davvero. Io non sono solo una storia, una serie di scopate eroiche. Qualcosa a cui voler bene e basta. Il bene è un limite, un confine, bisognerebbe oltrepassarlo per vivere davvero. Sennò ci si accontenta. Ecco mi accontento di molto, ma mi accontento. Come una moglie che ha qualcosa da perdere se non è moglie.

Me l’ha chiesto di nuovo ed io le ho risposto sinceramente: mia moglie non la lascio. In fondo, anche se non me lo dico, sto aspettando che questa storia finisca, ma non sarò io a farla finire. Delle volte penso che sono doppiamente vigliacco perchè in realtà non scelgo, ovvero ho scelto, ma non taglio. Non scelgo perchè da nessuna parte starei bene. Allora faccio la scelta meno complicata, quella che ha meno problemi per il futuro, meno dolore. Certo sacrifico Lei, però sono stato chiaro, l’ho sempre detto che non me ne andavo da casa. In fondo vivere così non mi dispiace, ho la passione e la certezza di un rapporto lungo. Se mia moglie volesse di più, mi obbligasse a scegliere, forse lo farei, ma lei sta al suo posto, non fa domande. Anche se sa, tace. E poi i colpi di testa si fanno a 30 anni, adesso ho una carriera, gli amici, un nome. Perchè buttare tutto via, ripartire da zero, pagare alimenti, cercarmi una casa. Meglio fare gli amanti, niente legami, poche responsabilità, solo passione. Non parlo d’amore, è impegnativo l’amore, costringe a fare i conti con le proprie contraddizioni. Va bene così. Siamo adulti. Vediamo la realtà per quello che è e abbiamo il meglio. Se mi lascerà, le vorrò bene. Poi ci penserò al futuro. E’ vero, tengo un piede su due scarpe, ma non è questione di scopate, lì non c’è storia, stiamo bene a letto assieme. Altrimenti questa storia non durerebbe da così tanto tempo. Cosa c’è di male, a prendere il meglio dall’una e dall’altra parte? Vorrei che anche lei si rendesse conto, non facesse domande. Vivesse e basta. 

mi sono chiesto perchè spesso i rapporti si incrinano, perchè si vogliono più cose assieme. Non è male volere più cose assieme, ma è difficilissimo che entrambi si stia bene. Manca sempre qualcosa e da qualche parte il rapporto sbiadisce. Ho parlato di una lei e di un lui, ma i ruoli sono intercambiabili, i pensieri spesso simmetrici. Manca la moglie o il marito che hanno molta più forza di quanto appare e che sono scelti, spesso senza sapere, con un bilancio di convenienza poco nobile. Per non complicarsi la vita, per non far male. Mah, chissà se conviene davvero, anche a loro? Ho pensato che in realtà da un certo momento in poi, la solitudine diventa un valore, che si arricchisce con il sentimento e con l’amore. Ma che la solitudine simmetrica possa essere una scelta forte, il primo passo verso una stagione nuova del vivere. Anche in un matrimonio, in una convivenza: esserci quando serve per l’uno e per l’altro e poi essere autosufficienti.

la terza parte

Il clamore da pollaio della disputa Travaglio vs Schifani, nasconde la coda di paglia di un’informazione poco libera e di una politica acquiescente. Ma non per costrizioni esterne, piuttosto per ossequio e vantaggio. Dovrei aspettarmi un sussulto che non sia al servizio di qualcosa o qualcuno, la coscienza che al pari della magistratura, esiste un potere terzo, anzitutto, utile al cittadino. Ma questo sussulto non c’è e chi ha questo potere, non lo esercita, se non per eccezione, fa un mestiere senza dubbi, è assenteista alla società.

Almeno si radicasse questa terza parte civile che critica con coscienza e non si astiene, saremmo tutti più liberi e Berlusconi sarebbe solo un presidente del consiglio. E, badate bene, che non vorrei i professionisti dell’opposizione, ma solo uomini di modesto coraggio al servizio di sè stessi, degli altri, della funzione per cui sono pagati.

Le eccezioni che ho in testa, gli esempi di voce chiara ” che gliele canta”, sono quello che potrebbe essere e non è, non la normalità quotidiana.

Spinelli sulla Stampa dice parecchio, aggiungerei dell’altro sull’abitudine di mandare alla gogna persone e violentare la verità in un titolo, ma questo è corollario alla condizione di indipendenza di chi scrive.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=4530&ID_sezione=&sezione=

bello

C’è stato un tempo in cui il bello non apparteneva, in cui era possibile costruire una casa in riva al mare, un castello tra i monti, scolpire una statua e metterla in un quadrivio.

C’è stato un tempo in cui si dipingevano le facciate delle case, in cui si scolpivano le teste dei travi, in cui si sceglieva il legno nel bosco comune, secondo la turnazione della necessità.

C’è stato un tempo in cui il bello si raccontava e pareva di vederlo e ai bimbi, che ancora non l’avevano visto, brillavano gli occhi.

C’è stato un tempo in cui il bello riposava l’uomo, lo rendeva felice solo per averlo visto e l’uomo non l’avrebbe mai recintato perchè il bello voleva uscire ed essere ovunque.

C’è stato un tempo in cui il bello si è incendiato, mutilato, buttato nelle fornaci per farne calce.

C’è stato un tempo in cui il bello dei vincitori era più bello ed un tempo in cui il bello dei vinti dava la rivincita.

Voglio piantare un piolo di legno di frassino nel cuore del bello, impedirgli che morda i nostri cuori di ferro, che ci faccia soffrire per la sua latitanza, ucciderlo e farlo a pezzetti e poi chiedere, cosa farete ora nelle vostre case esposte al mare, come vivrete le grigie vite senza speranza?