Volume è parola tonda. Felice o preoccupata del proprio spazio, essa è destinata all’immagine, ad essere manipolata, adattata, espansa in orizzontale, verticale, ora anche in obliquo. Non a caso, parola importante nelle fortune contemporanee, compresa quella iniziale del presidente del consiglio, viene negletta, posta in seconda fila, non indagata. Discende, essa parola, nella regola pubblica, dalla presunzione d’ordine; mai sola nella sua attuazione: volumi concessi, edificati, trasformati, venduti, massimizzati, occultati. Con gli aggettivi sminuenti il volume acquista qualità sorprendenti: di servizio, comune, tecnico, ecc., Sono questi aggettivi, vere offese al volume e tali da fargli perdere fisicità, tanto che come per il censo, lo si può vedere diversamente: metro cubo sì, ma non come gli altri e perciò valere un terzo, un mezzo. Salvo poi risorgere economicamente, come sanno tutti quelli che abitano in un garage o magazzino trasformato, ma non è la rivincita del volume, è il trionfo dell’ipocrisia delle regole.
Parola poco indagata, volume, soprattutto nella percezione dello spazio individuale e nella sua correlazione con la felicità e ancora giù nella scala verso benessere, accettabilità, indifferenza, malstare, disagio, incompatibilità.
Se noi rappresentiamo il nostro stato interiore – e non la sua proiezione – in relazione al volume disponibile, “nostro” o sognato, la sua concretizzazione può essere vista su spazi orizzontali dove espanderlo oppure collocato in alto, per vedere/dominare ciò che sta attorno. Il ritmo del costruire e quindi della città viene scandito da questa solidificazione di desideri, di rappresentazioni ovvero il mercato in sintesi è il prevalere del vedere fuori vs. il vedere dentro.
L’alternanza del verticale con l’orizzontale, inframmezzato da spazi verdi corrisponde ad un’ idea d’ordine nel quale riconoscersi o meno, ma comunque oggetto di comprensione ampia e confronto. Guardando una foto aerea, magari all’infrarosso, oppure meglio, vedendo la città dall’alto di un grattacielo, nella sequenza di spazi e nella collocazione fisica individuale, si legge la trama degli equilibri, del ben stare o del disagio, dell’anossia o della libertà.
Noi sappiamo ciò che è brutto, ci adattiamo al brutto cercando di trasformarlo, trasfigurarlo, mutarlo in sembiante del bello, dell’armonico, del vivibile. Come nei paesi dell’est, o nelle fabbriche casabottega degli artigiani del nord est, superato il brutto esterno, si accede al bello individuale, interno. Il volume ri-ordinato e manipolato internamente è imago del sè, con una forte corrispondenza tra ciò che abbiamo dentro e ciò che ordiniamo fuori, anche in termini di autoillusione. L’interiore assume il compito di rendere più piccola l’influenza dell’esterno, in un bilanciamento che ci permetta di dire: questo volume è mio, solo mio, ha la mia impronta, la mia cifra. Capita nelle vecchie case, anche riadattate, di sentire la presenza di chi ha abitato, come se i muri, un tempo rispondenti ad una diversa concezione del volume, ne avessero conservato l’impronta e permanesse un esistere non spento.
Quindi questo dialogo con il volume esiste, è un a priori. Noi ci adattiamo al volume, esprimiamo desideri, sogni (chi non vorrebbe una villa con parco in centro?), ma alla fine ci adattiamo, lasciando che la compensazione avvenga all’interno, che sia stabilito un equilibrio tra essere e dover essere, che la testa si conformi e si adatti. Dovrei dire che, a parte uno spazio fisiologico, con l’evolvere dei desideri, è più importante l’esterno che l’interno ed è proprio questo confine che è il meno indagato, ma è forse l’unico a poter definire il vero volume aggettivato, quello fisiologico.
Il volume asseconda le nostre inclinazioni e non è solo per motivi costruttivi che il costruire verticale importante italiano è sporadico, e comunque spesso ricondotto più ai servizi che alla residenza. Mentre si opera su altezze spesso banali, fatte più della logica del mucchio che della intuizione costruttiva. Azzardo una suggestione: la stratificazione storica, che comunque ognuno di noi possiede, porta verso spazi orizzontali, verso domini netti, chiede comunità piccole, se possibili nucleari, come se la storia fosse di per se stessa aggregante e identitaria: non c’è bisogno dell’alveare, della megalopoli, ma piuttosto delle celle, delle unità.
Ma questa ipotesi o qualunque altra, contrasta con la rendita immobiliare, con il valore determinato dalla trasformazione dei suoli. I delitti contro il volume, compatibile con noi, si compiono qui e non nella legittima attesa della remunerazione del capitale investito, bensì piuttosto nella sua massimizzazione smodata. Si può osservare che gli alveari umani sono sempre esistiti, solo che un tempo erano il prodotto della povertà, del bisogno adesso invece, diventano modo d’essere e pianificazione delle relazioni.
Immaginiamo una operazione mentale che ci veda entrare nella parola volume, che come in un cartone animato, si apra una porticina su una superficie riflettente, ma che forma ha questa superficie per noi? E’ geometrica, un cubo, una sfera, un parellelepipedo oppure è qualcosa di mobile come una bolla che muta, una forma amebica che può avere spigoli assieme a curve? Già dalla forma cominciamo ad entrare nella parola e nel nostro significato di volume. Il passo ulteriore sarà nella nostra percezione della superficie del volume: tranlucida, trasparente od opaca. Vogliamo vedere, oppure isolarci? L’operazione si chiude da dentro collocando parola e significato nello spazio intorno a noi e rappresentandolo come contesto includente, ma al tempo stesso rispettoso. E’ in questo dialogo tra interno ed esterno, da come noi avremo collocato il nostro concetto di volume che si avrà la percezione dello spazio vitale.
Questo dialogo intimo è già punto d’arrivo, ininfluente se non ha una manifestazione esterna, politica nel senso di relazione, di polis, ma comunque fonte di consapevolezza. In questo estrinsecarsi dei desideri/bisogni, una variante di piano regolatore assume un’ influenza sulle nostre vite, ben superiore alla percezione usuale: sarà questo atto il regolatore dei volumi, dei nostri volumi. E darà senso, all’essere dentro al volume e al camminare esternamente ad esso, ci permetterà di predisporre condizioni al benessere oppure di partire con l’handicap di un malessere da incongruenza di spazi. La necessità individuale si misurerà con le condizioni che le regole consentiranno al costruire, è qui il vulnus che verrà perpetrato alla nostra concezione di volume e qui bisogna agire. Compatibilmente, ma agire.
Non mi sono sforzato a mettere in ordine i pensieri, nè ho cercato di renderli chiari. Una traccia può essere sintetizzata nel dire che se si parte dal significato di volume si arriva allo spazio che abitiamo interiormente ed esteriormente. E che la possibilità di vivere più o meno bene nello spazio dipende da un oggetto di cui ci occupiamo molto poco: il piano regolatore. Fonte di fortune economiche e di riordino di relazioni, ma anche di infelicità collettive e di difficoltà del vivere.
Bene, se le cose erano così semplici, perchè adoperare tante parole? Perchè le cose non sono semplici e il significato che io attribuisco a queste cose, non è necessariamente il Vostro. Come direbbe un’ Amica: mi posso permettere solo questo appartamento, non posso complicarmi la vita. Tu butti sempre tutto in politica. E invece io penso che l’appartamento che affitta questa amica potrebbe essere diverso e avere lo stesso costo e farla vivere meglio e in maniera meno complicata. Ma questa è un’altra storia.
O forse nò?