una generazione che voleva spiccare il volo

Prima delle parole, colpisce il fumo. E’ una tribuna politica e il giornalista, che rivolge a Berlinguer la domanda sulla possibilità di cambiare nome al Partito Comunista, sta fumando in televisione. E quel fumare, non la domanda (che pure farebbe riflettere in questa stagione in cui i partiti cambiano nome con più frequenza della biancheria intima) , rende consapevoli del distacco tra questi e quegli anni. Distacco di abitudini, distacco culturale, distacco di parole e di idee. Credo che una parte del film di Veltroni, sia incomprensibile a chi oggi ha meno di 40 anni, e che parole come eurocomunismo, U.R.S.S. , i nomi dei protagonisti, la stessa parola comunismo, non abbiano significato pratico, cioè non corrispondano a nessuna esperienza vera. Questo iato generazionale si è consumato senza che la mia generazione se ne avvedesse, continuando a pensare che i suoi termini di esperienza, e quindi le parole, fossero comuni mentre, in realtà, queste perdevano consistenza per le persone a cui parlavamo. Quindi non si è trasmesso nulla o quasi e ciò che ha caratterizzato una parte importante della storia comune del Paese diventava, intanto, materia per storici, non tessuto vivo su cui innestare il nuovo.

Non è una constatazione amara, è una consapevolezza. Quello che ha infiammato discussioni, provocato sconvolgimenti collettivi, cambiamenti e mobilità sociale non esiste più come cultura comune. Di certo i fallimenti dei partiti, provocati da quella questione morale che Berlinguer aveva indicato con tanta acutezza, facevano parte di un ordine possibile delle cose, ciò che non si era messo in conto era il fallimento contemporaneo delle idee. E non perché queste fossero staccate dalla loro possibilità di modificare il futuro del Paese, e quindi di tutti noi, ma perché quelle idee non erano più materia di passione, non erano in grado di cambiare le vite dei singoli, prima che quelle di tutti.

Quando c’era Berlinguer, parla di un uomo e di una generazione, che non importa fosse o meno comunista, ma che viveva tutta in un confronto di futuri possibili, di alternative alla insoddisfazione del presente. E questo si collocava in un situazione nazionale e internazionale che era comunque movimento del’umanità. Due blocchi e due prospettive, e tutte le varianti nazionali. Quando Berlinguer davanti al 63 congresso del P.C.U.S.  rivendica la libertà dei singoli partiti comunisti nazionali da quello sovietico e rifiuta il ruolo egemone dell’ U.R.S.S.  defininendo la democrazia e l’alternanza, come ambito politico per governare gli Stati, nell’enorme sala c’è il gelo, ma in occidente se ne parla ovunque. Ovunque significa non solo nei giornali, ma nelle case, al lavoro, nei bar e diventa materia di ulteriore confronto, di idee personali, e infine di consenso politico. La politica e le vite hanno un legame, le parole conseguenze e sono veicolo di cambiamento. Mi è stato chiesto cosa significasse allora essere comunista. Per me e per molti altri, voleva dire avere un’idea in grado di orientare una vita, il suo impegno sociale, il lavoro, lo studio, la famiglia e il coinvolgimento riguardava il singolo per un obiettivo di tutti. Non era un’idea angusta, era un modo grande di vedere la società, i suoi rapporti, il suo evolvere verso forme più giuste ed eguali. Credo che Gaber lo abbia sintetizzato mirabilmente nel suo qualcuno era comunista, parlando di una generazione che voleva spiccare il volo.

Il film di Veltroni è fatto bene, era importante farlo, non per la ricorrenza dei 30 anni della morte, ma per la testimonianza che qualcosa è accaduto. L’inizio dice tutto, con quei ragazzi che non sanno chi era Berlinguer, non sanno nulla di ciò che c’era, e ci fanno capire che se si spiegano delle vite, milioni di vite, con parole solo nostre, in realtà si racconta una storia. Quella che si legge sui libri, non quello che si sente dentro, quindi una nozione. Ecco il motivo per cui un film che mi è piaciuto, mi ha reso malinconico, oltre al ricordo e all’esperienza diretta: avevamo ricevuto un testimone, comunisti o democristiani che fossimo e non siamo stati in grado di passarlo, non è passata nessuna idea di mondo alternativo, si è lasciato darwinianamente fare. Sembrerà strano, ma c’era più libertà allora, più possibilità di crescita, più alternativa di adesso, dopo che una parte ha perduto e l’altra è dilagata. Ma anche questo lo si capisce per confronto e i ragazzi non lo sentono e non è il loro modo di vedere il mondo e neppure la loro idea di cambiamento. Questo fa sentire il baratro che si è aperto e lascia quella sensazione che si sia davvero chiusa un’epoca. Non nobis domine, non più, tocca ad altri che abbiano le giuste parole.

alcuni audaci in tasca l’Unità

Ma quanti comunisti ci sono ancora in Italia? Ieri il numero dei novant’anni de l’Unità è andato esaurito presto, tanto che lo ristamperanno domenica. Nella mia ricerca, gli edicolanti dicevano che di buon’ora erano rimasti senza ed erano loro stessi stupiti. Strana questa cosa in un Paese in cui anche il partito a cui il giornale fa riferimento, il PD, si guarda bene dal considerarlo un modo per tenere assieme idee ed elettorato. Strano che tanti ancora ricordino con piacere e nostalgia, anche se votano altro, il tempo in cui il PCI italiano era il più grande partito comunista occidentale, difendeva i lavoratori, i diritti dei cittadini, le pensioni, e diceva che il capitalismo rende gli uomini ineguali e alimenta l’ingiustizia. Strano che la generazione dei sessantottini, che poi leggeva il Manifesto, si ricordi con piacere de l’ Unità, perché da questo giornale era partita. E’ vero quello che dice Guccini, alcuni audaci in tasca l’ Unità, era un’ostentare una diversità, un’appartenenza. Tanto che la domenica mattina si diffondeva casa per casa, anche dai cattolici che, mai e poi mai, l’avrebbero comprato in edicola. Forse sono solo i vecchi che ricordano le spinte vitali dell’ideologia, le battaglie per il lavoro e i diritti di tutti, la risposta quasi pavloviana tra bisogno e lotta, però la settimana scorsa a parlare di costituzione, i giovani non mancavano, esprimevano disagio, voglia di essere visti oltre che ascoltati. Che bello sarebbe se il giornale che porta nel titolo l’idea dell’essere insieme, della solidarietà, diventasse la palestra delle idee dei giovani, il luogo del confronto oltre le notizie. Gramsci, quando lo fondò, voleva parlare a tutti, ma soprattutto a chi non aveva parola. Era il 1924, l’anno in cui sarebbe stato assassinato Matteotti dal fascismo, che pur vincente, non tollerava la critica e il dissenso, e quindi la libertà. Sembra che la data si perda in un nulla di secoli, eppure se ci guardiamo attorno eguaglianza, diritti, libertà, hanno bisogno di voce, di essere vissuti assieme, di incoscienza dentro al basso ventre. Buon compleanno a tutti i “comunisti” che ancora lo pensano.