Il ricordo è molto più interessante a noi che a chi ci ascolta e significa per noi cose che spesso non si possono comunicare, eppure la nostra comunicazione è infarcita di ricordi, di fatti più che sensazioni, perché troppo scoperte esse, troppo nude nel mostrare lati deboli di difesa, meglio l’epica del ricordo, la sua magnificazione di noi. Ma cosa racconta a noi il banale, l’inutile del ricordo?
Non c’era davvero nulla d’interessante in quel luogo. Di certo non i grandi cartelli pubblicitari 6×3, che fortunatamente coprivano case assolutamente identiche nella banalità a quelle di 30 km prima. E mi chiedevo, ridacchiando, cosa si provasse ad avere come panorama davanti alla finestra una pubblicità. Forse c’era la noia e poi l’attesa della novità della prossima affissione, ma anche la prigionia dell’ossessione del consumo: terribile, come vivere perennemente in un super mercato. Poco distante, c’era la costa e il mare, non si vedevano, ma erano pur sempre gli stessi nella loro bellezza indifferente delle geografie politiche. La strada e la segnaletica avevano cambiato solo la lingua, e non erano particolarmente curiose, quindi, oltre a un pensiero di fastidio, non c’era un motivo per ricordare quel posto, eppure ritornava in mente. Perché? E siccome, assieme a quel ricordo, tornavano anche altri luoghi: la casa di Cannes con il grande murales di Harold Lloyd, il percorso verso St. Raphael lungo la costa, l’artigianato improbabile di Roquebrune, i profumi di Grasse, Mougins con le sue stradine in pietra, ed erano tutti luoghi di significato e belli, mi chiedevo cosa differenziasse quell’incrocio dai mille altri visti in Francia o altrove. Non riuscivo a capirlo perché non c’era alcuna necessità di ricordare una rotatoria all’imbrunire, un brutto albergo e una serie di edifici anonimi ripartiti a raggiera lungo le strade. Eppure quella immagine tornava (e torna), assieme all’albergo scempio sul mare, visibile di lì a poco all’inizio della Tourbie. Ma l’albergo aveva il fascino respingente della ricchezza priva di limiti, mostrava il privilegio per pochi di vedere l’intero golfo, sospesi nel cielo, in una ostentazione di potenza del denaro che aveva la perversa bellezza di un acuto. Qualcosa d’innaturale e impossibile a tutti, se non ad uno, scritto e realizzato per lui, dopo un sogno e per questo vero e fragile, senza un futuro, immagine bella del brutto, dell’impossibile alla norma, oltraggio che lascia silenti, ma non sgomenti, perché la natura provvede, avrebbe provveduto, per l’acuto, come per l’albergo, a cancellare e tutto sarebbe decaduto e ruinato, ma intanto era lì a dimostrare che c’è una sprezzante grandiosità nell’uomo e che esso può riconoscere, proprio nella transitorietà, la violazione dell’ordine naturale in un’opera che confonde l’unicità con la bellezza, ma resta a sfidare chi ascolta o vede. Quindi un gesto che rimane e che contrasta la morale, ma non tanto a lungo da non poter essere perdonato dalla sua fine. Del resto non avevo forse visto in Svizzera quei condomini a gradoni che seguivano il declivio della collina e la rivestivano di terrazze verso la valle. E lo stesso non si riproduceva, poco oltre quella rotatoria, in decine di terrazze verso il mare, lato di piramidi tronche e quadre, che massimizzavano l’utile e l’esclusività dei luoghi, prima impervi, in un’orgia di denaro immobiliare. E non era tutto questo grandioso nella sua perversità, con il fascino della ferita, del segno che interrompe la bellezza naturale, in fondo essa stessa arrogante nella sua potenza e monotona nel succedersi uguale. Era il fascino bello del male che mostra la sua faccia vogliosa di possesso, oppure una sfida alla natura, che avrebbe certo vinto, ma almeno per un poco sarebbe stata impegnata in una battaglia per lei inusuale presa com’è dalle sue forze e indifferenza? Ecco forse tutta quella architettura violenta era una sfida alla indifferenza della natura e la costringeva a mostrare la sua reale potenza all’homo faber.
Di tutto questo, che si mescolava in una sensazione di repulsione e fascino, restava appena l’atmosfera o il ragionamento, mentre di quella rotatoria, di quell’inizio di strada, della concessionaria d’auto, dei negozi buttati là per bisogno e già chiusi, degli appartamenti illuminati, dei residence bui che si sarebbero riempiti di turisti, del freddo di quelle stanze in aprile, di tutto ciò, restava una sensazione e un’immagine forte: di sera, di luce che si spegneva, di precarietà nell’entrare in un mondo che sotto pulsava di altri significati, come ci fosse una vena nascosta e vitale. E questi significati, a me, allora ed ora, erano preclusi, ma c’erano e mi sollecitavano a loro modo e li avrei potuti decifrare, se solo avessi trovato il bandolo di quel filo che era nella mia testa, più che tra le persone, mettendo assieme ricordo, sentire e ciò che stava attorno. Insomma ciò che vedevo, percepivo, ricordavo, con una operazione che io solo potevo fare e che non serviva a nessuno, se non a me, ed era trasformare il banale in significato illuminante, capire attraverso un particolare, un luogo, infine me.