Essere amici dei potenti comporta dei rischi e qualche certezza. Il rischio è quello di essere coinvolti nella caduta, la certezza è quella che al favore ottenuto si unisce una dipendenza difficile da sostenere. Però scegliere di evitare le “amicizie pericolose” ha un costo, spesso la marginalizzazione in politica o negli affari. Anche nella professione queste “indipendenze” si pagano. Guardo le vicende veneziane di questi giorni, penso a quanti esibivano la frequentazione dei potenti di allora come passe partout per il proprio accreditamento. Molto oggi viene negato, nelle teste vengono ricapitolate occasioni e incontri, ciò che era a pacche sulle spalle ricondotto a semplice istituzionale e necessaria conoscenza. E tutto porta a rapidi reset del passato. E così penso all’evidenza, alle carriere degli yes man, le contiguità vantate, le feste esclusive, il potere esibito. Ci sono degli indicatori infallibili per capire quanto si conta nella testa dei potenti: l’essere invitati nei palchi d’onore, ai ricevimenti dei prefetti, alle tavole esclusive di C.L. Se questi inviti cessano, significa che non si conta più, ovvero che non si è potenzialmente interessanti per altro e che il proprio ruolo pubblico è scomparso. Visto quanto accade, ed è già accaduto in passato, capisco che non cercare le “amicizie pericolose” è una predisposizione inconscia, che conoscere per lavoro è molto diverso dall’essere sodali, che “non contare” è una libertà grande, che ciò che salva è una timidezza diffidente che induce a non lasciarsi andare, a non cercare confidenze eccessive. E infine, che dire di no, non è facile, ma paga se è conforme a ciò che si sente. Potrebbe essere definita una scarsa attitudine a puntare verso l’alto o meglio, un’ambizione molto limitata. Ma non è una diminutio, è una vera benedizione se si sa apprezzare l’equilibrio che genera.