attraversando la Sicilia di notte

  

Attraversando la Sicilia di notte, tra luci gialle di paesi e masse nere di rocce che scorrono a lato, i lampi rossi e rosa degli oleandri, illuminati dai fari, la compagnia di radio concitate, i profumi densi, inumiditi dal bujo.

La Sicilia di notte si apre senza fatica, i nomi dei paesi suonano dolci, si ripetono in un mantra che distende i pensieri. Grammichele, Lentini, Vizzini, Chiaramonte, luci ammassate in collina, scrigni di vite parallele, destini, speranze da spendere, passioni. I camion corrono a nord, e corrono davvero, curve, controcurve, salite, discese, prima erano Nebrodi, poi Erei, adesso Iblei e pensieri, molti pensieri che s’aggrovigliano e distendono

Energia nervosa, caffè nelle luci del distributore, pisciare in posti malpuliti, strada. Ancora strada. Quanti km? Non si legge la destinazione e si sente che questo mare di terra rossa, di odori, di camion incrociati, è un luogo senza meta, senza luogo. Solo terra, che adesso sa di notte, e luci, e odori di piante arroventate dal sole, e nomi che suonano bene, e canticchiare, e andare finché si può, prima di fermarsi, e approdare in reception, in stanze condizionate, e balconi aperti, e luce filtrata all’alba, dalle tende mai troppo spesse.

La notte di questa traversata, si scioglierà in qualche albergo mai frequentato, finché verrà il giorno, e sferragliando consapevolezza, prenderà alle spalle con il paesaggio svelato. Con i B&B dai nomi improbabili, il traffico immane, le strade interrotte, i ristoranti che erano trattorie, ed era meglio se non cambiavano, le fabbriche che funzionano e quelle che si disfano, i centri commerciali e la massa dei negozietti. La confusione di scritte, tabelle sovrapposte sui pali, sui cartelli turistici cancellati, sul benvenuto e il saluto di paesi che si scrosta nelle vernici a basso prezzo. I messaggi senza senso, rivolti allo straniero, il vuoto che si aggiunge, ed ingoia il pensiero d’essere in un posto che toglie l’urgenza di capire le persone ed i luoghi, e le trasforma in cose, in cibo, in souvenir.

Tutto annega nei cartelli mancanti delle città prossime, chi è il vicino, dove sarà? E così non sai più dove vai, dove sarai nel pomeriggio. E ti passa la voglia di andare e capire, non accendi il navigatore, pensi che non ti perderei mai davvero, che sarebbe bello che sparissero i cartelli e restassero le persone. E ti prende lo schifo per questo costruire violento che t’attornia, e pensi che ogni azienda, che ora cade a pezzi, è stata assistita, che anche quelle che funzionano, sono state assistite, ed era naturale allora, come adesso. Lo sai che da come verrai salutato, presentato, saprai quanto conti, che la gentilezza senza forma, invece, la troverai nel bar dove ti fermi, che è tutto lo sfacelo che annulla storia, gloria, identità che non sopporti più, che nulla più giustifica quell’enorme scempio che è stato fatto, che è tutto finto, che tutto imploderà, ma noi non lo vedremo e quindi non consola, ed intanto, resta quello che vedi, quello che non sopporti. E’ tutto finto, finti i soldi, il potere malato, le donne che ti danno la mano e non capiscono chi sei, le piscine e i gioielli ostentati, i saluti cerimoniosi, le marchette, gli articoli di giornale scritti prima dei convegni. Tutto finto, anche le luci di Modica, così belle questa notte adesso si perdono nel giorno che mostra la pietra violata. E’ tutto finto, tutto deviato, qui come altrove, non solo in Sicilia, ma in Lombardia, in Veneto, in Toscana, ovunque. E non c’è ragione del brutto, dell’inutile, del falso, della patacca. Né qui, né altrove. Per questo cerco di viaggiare di notte, e di giorno evito le autostrade e punto nella campagna già bruciata dal primo giorno d’estate, e mi piace il trattore che mi rallenta, la strada che ho sbagliato, la canzone che canto da ieri, la voce che ricordo bene e che veniva da Palermo, e poi se n’è andata.

Come me. Che mi difendo, ricordando il mare di stanotte, la luce violenta del distributore, la solitudine immensa del sole che illumina e non vede. Conservo l’ultima traccia d’un saluto sincero, e il pensiero più bello che ho avuto, e mi pare di aver tutto e niente in questo dividersi binario, che guida, separando e mescolando, giorno e notte, bianco e nero, lì sulla linea tra yang e ying tracciata nei bar nell’ l’accento musicale di chi mi parla, nello scrivere che incuriosisce, nell’ultimo mezzo sigaro fumato. Il vivere, è vivo, e non è rifiutato, come il motivo finalmente dolce, chiaro del perché preferisco attraversare di notte la Sicilia. Perché solo così posso ancora ancora amare questo posto, e non vederlo violentato e disgraziato di potere, miseria e denaro. Perché di notte sembra possibile che ci sia tempo per raddrizzare ciò che è deviato. Perché, semplicemente, di notte non si vede e non si ricorda, ma si sente cosa non è cambiato.

 

 

 

la fabbrica



Scavati nei mattoni d’allumina, decine d’occhi, lampeggiano d’un giallo di bestia, di drago tenuto a bada. All’interno della macchina, migliaia di bruciatori espirano fuoco con un suono slabbrato, basso, continuo, soffiando quei 1600 gradi per fondere sabbia, soda, calcare, dolomia, nel liquido magico che solidificherà, galleggiando su un lago di stagno fuso a 1100 gradi. Qui si genera la magia di un nastro di vetro perfettamente piano.

La macchina dei forni e dei trattamenti, si allunga nell’ unico corpo rettilineo di oltre duecento metri. Segue due livelli e scende, come onda, da quello più alto fino ad un fine macchina che non è  fondo, perché oltre ci sono ancora macchine e poi il magazzino. La fabbrica sembra non finire mai.

La traccia gialla della sicurezza è un bordo di banchina, oltre c’è la nave immota dove la materia, che più somiglia all’acqua solidificata, scorre sulla chiglia, trascinata da incessanti rulli gommati.

Il rumore della cesoia lineare ritma la separazione nell’infinito nastro di vetro, in lastre di 6 metri per 3.21, e la corsa, fluente, continua,verso il bacio delle ventose pneumatiche.

Clang, ooooff, clang, ooooff, clang, ooooff. Taglia, aspira, solleva, taglia, aspira, solleva: il flusso non si ferma mai.

La lastra tenuta dalle ventose, si alza, gira su se stessa, si mostra nuda alle luci gialle e verdi che la guardano cercando l’imperfezione, poi, scelta, si posa, pronta per accoppiarsi su un’altra lastra eguale, inframmezzata da un film di PVB, una plastica dal nome lungo, polivinilbutirrale, che darà una sicurezza nuova, prima mai conosciuta dalla sua fragilità.

Del vetro mi ha sempre affascinato la natura, la fisica da liquido sorprendente, la fragilità dura di poeta, la trasparenza che muta con il tempo, la capacità d’essere altro restando se stesso.

Un flusso di molecole che solidifica senza cristallizzare. Non subito. Lo farà con i suoi tempi, per noi in decine di secoli, mutando la superficie e la trasparenza in insiemi setosi. Come si chiudesse in sé dopo tanto mostrare altro.

Qui nasce il vetro float, il vetro piano. Guardo la fabbrica nuova che si allunga nella sua epicità di grido, di sfida al mondo. La complessità, nel nitore della fabbrica, fatto di volumi grandi, d’aria e luce, di masse enormi di colore, risalta ancora di più. E’ una complessità diversa da quella degli edifici delle città, che è ritmare spazi, superfici, collegamenti, ipotesi di vita. Come non chiedersi cosa avviene nel cervello che pensa i volumi, scava l’aria, mette assieme spazi e percorsi, misure e funzioni, e corregge, modifica, sostiene tesi, enuncia.

Ma la complessità che mette insieme gli uomini, che a loro volta ricostruiranno percorsi, luoghi e funzioni, calandoli nell’architettura delle loro vite, occulta le strutture, le forze che tengono assieme, sostengono ed assicurano le altezze, estraggono la profondità. Nella fabbrica tutto è a vista, anche le macchine possono stupire, ma non confondono, mentre il gioco delle travi nude, delle coperture evidenti, il taglio delle luci dirette, i pavimenti lunghissimi, fortissimi e levigati, gli impianti, i tubi, i colori di delimitazione e sicurezza sono sotto gli occhi, e impudichi, mostrano il disegno funzionale che li ha messi assieme.

Tutto viene in primo piano, come in un tempio greco, dove ciò che sorregge e tiene è forza visibile, palpabile nell’aria, lasciando al fregio, alla decorazione, il distogliere dal gioco geometrico per aprire lo sguardo verso l’anima, cioè la parte che vola e non può preoccuparsi di quello che serve per scandire il tempo del mondo.

Nella fabbrica la complessità del semplice, della scatola che contiene, è tutta in questo parlarsi fra ambiti differenti: la funzione e il lay out, il costo e la rappresentazione, la macchina, il suo produrre e l’uomo. Ognuno al suo posto, senza scarti, possibilmente. In equilibrio. Le ragioni del produrre, le ragioni della macchima, le ragioni dell’uomo, le ragioni dell’edificio.

Guardo travi da 50 metri, leggere come può esserlo un prefabbricato, fatto di costole scavate ed alleggerite, tutto tiene in un equilibrio di forze tese ed immote tra loro. Guardo le pareti a picco, levigate, i tiranti di rinforzo per cavi ponte, tutto apparentemente semplice nel vuoto dove corre l’occhio nitido e composto. Ci sono stati mesi in cui gru enormi hanno sollevato travi e lastre, sono stati scavati basamenti, inserite plinti nei giunti a bicchiere, stesi kilometri di reti di ferro dolce dimentiche del passato di rottame. Si sono fatte gettate ripetute, di cementi ch’erano stati pietra, sono stati coperti sottofondi di ghiaione stesi con sura e spianati, tracciate piste di cantiere, posati cavi, tubi, in un brulicare di funzioni che correvano in mille operazioni di predisposizione, costruzione, finitura. Tutto calcolato, commisurato ai pesi immani che cominciavano ad arrivare, e piano piano, sono cambiati gli uomini, i costruttori e la struttura è passata sullo sfondo, finchè, adesso, è divenuta, finalmente, contenitore.

In queste lunghezze che gli operai percorrono in bicicletta, si producono 6 milioni di metri quadrati di vetro float. Vetro piano che diventerà facciata, contenitore, barriera, difesa, struttura.

Ma nello spazio mutato in contenitore, si potrebbe produrre qualsiasi cosa, in questo sta il grido della fabbrica, lo sforzo del combinare, mutare, creare ciò che non c’è, che non ci sarebbe. Una sfida che permette altre sfide, che aiuta la diversità. La fabbrica è parte di quel processo che consente la capanna e il grattacielo all’uomo, che non limita la scelta, come se la razza umana divaricasse in continuazione dalla yurta al castello, dalla foresta alla pietra levigata delle città e la separazione tra l’homo habilis e l’homo erectus non fosse davvero mai terminata e il pensiero del primo permanesse nel secondo, ma fosse proprio il primo a consentirlo. A permettere che l’uomo sia diverso, che possa rinunciare apparentemente all’economia, al costruire, al fare collettivo.

Solo apparentemente.

prima

 

Penso alla sopravalutazione dell’immagine. Alla superficiale violenza con cui si separa il bello, da ciò che lo contiene.

Nella mia percezione prima viene la grazia, poi lo stile ed infine, la bellezza.

Il sesso è altra cosa.

Sirena

Il suono sordo di sirena percorre la spiaggia, la riempie, trabocca tra le tamerici, gli ulivi di bohemia, i tronchi delle ultime mareggiate, ammutolisce gli strilli dei ragazzini in acqua, lascia occhi che si chiedono da dove venga. 

Si ripete, più volte, adesso profonda ed inquietante. Sui moli è simbolo di saluto festoso, copre abbandoni e lacrime, apre viaggi e futuri, finché man mano si spegne assieme alla poppa che s’allontana. Qui insiste. Assomiglia al corno delle alpi, richiama e dialoga col mare, non ci sono rive assiepate e neppure si vede la nave.

Assisto muto, alzando gli occhi dal libro, cerco nel mare basso di mezzogiorno. Qualche barca a vela, motoscafi in riposo. Questo ripetersi trasforma il saluto in apprensione, come ogni volta che un segno conosciuto s’articola diversamente. In quest’isola, tra laguna e mare, ci sono cantieri navali, ormai in disuso. Dove nascevano navi, ora riparano vaporetti e ferry di Venezia. Fuori dai circuiti della cantieristica, svuotati dalla tecnologia e dai bassi costi della Cina, in pochi anni si perderanno abilità secolari. Mastri d’ascia, saldatori, battilamiera, falegnami, fonditori. Basterà meno di una generazione. Qui ora si vive di fermo pesca, più che di pesca, di piccola edilizia e ristrutturazioni, per veneti inquieti che scoprono questo angolo domestico e selvaggio. 12 kilometri di sabbia, diga e pennelli a mare per fermare l’erosione delle maree. Terra di marinari, pescatori e dialetto stretto: né veneziano, né chioggiotto. Ma ci si annoia, non c’è nulla che possa assomigliare alla movida di Sottomarina, o di Jesolo, o del Lido. Di sera la gente esce nei campielli e sulla strada, porta le sedie, impagliate o di plastica, dipende dall’età, cucina e chiacchera. Chiacchera fino a notte di ciò che sta attorno, della vita propria e altrui. Nei campielli nulla è mai interamente proprio o segreto. Non la cena che si scambia, non i guai e le allegrie di famiglia, non gli auguri, le feste o gli amori. anche se questi ultimi hanno tradizioni ferree. Le trasgressioni sono sottaciute, non segrete, come le malattie.

La sirena ripete ancora il verso, mette in evidenza la plastica, i parabordi (ma come faranno a perderne così tanti), le boe sfasciate ed i tronchi. Tanti da immaginare riscaldamenti senza spesa e grandi fatiche per tagliarli. Non c’è nessuno in spiaggia, sono le tre di un giorno ante la festa, solo i mezzi foresti venuti dalla terraferma stanno al sole e al vento. Il vento che è ancora caldo di scirocco, ma già porta lame di freddo. Una signora mi spiegherà che sono i temporali di pianura, ancora lontani, loro li sentono col sole, annunciati dal vento che muta colore verso il blù.

Siamo pochi e tollerati se non disturbiamo, se non cambiamo le abitudini ed i pudori. Ci tengono come i nuovi proprietari di case che tra poco se ne andranno, stanchi dei ritmi indigeni, delle feste patronali e delle chiacchere, ma anche della solitudine che si insinua se non sei accettato. Lasceranno posto a nuovi tentativi di insediarsi e ad un equilibrio millenario che si crede eterno.  Ma non è così, scomparendo il lavoro, le abilità, solo a volte ne subentrano altre, più facilmente ci sarà la migrazione e l’inutilità di chi resta.

Tre ristoranti, i pescherecci ormeggiati in lunghe file, il muretto, le chiacchere. Una barca a vela manovra per attraccare davanti al ristorante sulla riva. Poco distante, uno svasso, uccello di laguna, si muove appena, indifferente alla barca, attento al suo pasto che si muove sott’acqua. Mentre scendono parlando, scompare con una capriola silente. Ed il tempo del suo riapparire sembra interminabile. Adesso si siedono. Prosecco freddo e poi inizierà la danza interminabile degli antipasti e dell’eccesso. Ma non si vive di questo, l’isola non vivrà di questo.

Lo svasso continua a rituffarsi e riapparire. Per ora godiamoci questa solitudine d’altri tempi. Non era infrequente in laguna. Altro verrà da queste parti, i contenitori vuoti vengono sempre riempiti.

La spiaggia è scomoda, non c’è nulla. Senza un bar, un gazebo, un tavolino. Solo mare, sabbia, cielo e pietre di diga. Un paradiso, finché dura.

La sirena non suona più. Anche le erbe stanno al loro posto, ospiti come me.

arena morenica

Governare sé. Con il capire profondo, fatto di silenzi che cavano parole per riconoscersi.

Guardare dentro e trovare la libertà. Metterla davanti ed allora dire di no. All’unisono, tra dentro e fuori.

Tutti i no necessari, non per capriccio o convenienza, quelli sofferti e quelli sereni. Con incompreso amore, dire.

 

Nel sole del primo pomeriggio, davanti alle alpi Giulie. Arena morenica, magredi, ultime tracce di neve. Alle spalle: voci, parole piene di vocali che si aprono, intercalare di bestemmie senza intenzione. Qui dio è di casa, non si stacca dalle vite.

Il maglio ritma colpi sordi, dentro il capannone. Batte cuore possente, parla di fatiche. Arriva al bar, dove le parole parlano di fatiche. A volte ridono, ma il riso è rappresentazione,  attende il consenso di chi ascolta, ed intanto trattiene il respiro. Poi ancora, fiotto, nero, di sangue usato e rappreso, le nuove fatiche narrate.

Epiche.

Presenti.

Future.

Ad est la vita dei campi s’è trasferita in fabbrica, portando con sé la religione della forza e della fatica, l’istinto di piegare qualunque cosa si metta davanti alle braccia. Pasolini era nato poco distante, sapeva che la fatica si compie anche sui libri. Pervicacemente capire, piegare, penetrare, disfare con dita grosse e gentili, rifare. Come piantare una pianta da orto: scegliere il sole e l’ombra, il riparo dal vento. Crescere, provando, riprovando e il raccolto verrà.

La religione del fare. Dal bujo dei secoli a Pasqua, nella messa dello spadone, il prete alza al cielo il simbolo di guerra. Lo mostra e lo offre. Una guerra per forza, come il lavoro, come lo studio, come la cultura. Non c’è velluto, né morbidezza, ma poesia sì, in questa eterna lotta che strappa il vivere ai giorni. Mai arrendersi, riposare per ricominciare.

E l’uomo si identifica con la fatica. E’ fatica.

cercare Venezia


Venezia, giovedì era stupenda. Parlo della mia Venezia, quella degli itinerari seminascosti e deserti di turisti. La Venezia dove un campo è piccolo, ha di due panchine, una è vuota, e nell’altra, i vecchi parlano con i piccioni.

Camminare nel sole ed ombra, guardando i particolari d’una trama che, ai tempi della Serenissima, non era ancora scritta. C’è una Venezia dell’ 800 e del primo ‘900, dove finiscono i marmi bianchi, il Sansovino, lo Scamozzi, il Sanmicheli e gli epigoni del Palladio. Dove la mercatura non era arrivata ed il lustro del Canal Grande è lontano assieme all’apparire. Una Venezia di gatti, calli strette, ponti miserelli e case operaie fatte di mattoni. Siamo vicini al lato nascosto di quella che fu, un tempo, la più grande fabbrica veneziana: l’arsenale. Munito castello che conservava l’arte, i segreti e l’ingegno dell’andar per mare su legni e ferro d’armi. Un immenso agglomerato di sale enormi, di mattoni, di colonne possenti, di camini e pareti in rovina. Davanti c’è Murano e l’isola dei morti, il cielo e un braccio di mare a dimensione domestica. 

Sia pur vecchia, qui la vita della città, dei veneziani, esiste ancora. Non è coartata, mutata geneticamente dai foresti, abbagliata dal colore dei vetri, delle maschere, dei merletti, del tutto cinese, del tutto da vendere e nulla da conservare. E’ ritratta in sé e guarda l’agonia dell’altra parte che vive d’apparenza, sente che essere nel mondo snatura, non esprime identità, così s’ aggrappa alla cultura che ricorda e si spegne.

Che senso avrà il padiglione Italia, proposto da Sgarbi, alla Biennale, con 2000 artisti invitati, dispersi ogni dove, in città e in Italia. Traccia di qualcosa che forse è altro e comunque non riconducibile ad una città. Non capisco, forse neppure i veneziani capiranno, ma non importa, basta arrivino turisti. La grande Venezia era gelosa, autoctona anche quando importava ingegni, piegava le menti ad un volere aristocratico, teneva il meglio del mondo, teneva e lasciava liberi se c’era compatibilità tra grandezze. Chiedete al Veronese cosa pensavano i monaci della sua cena in casa di Levi. Del resto l’aristocrazia aveva sbarrato le porte ad ingressi esterni, bisognava essere veneziani per governarsi, il resto era comprabile. E per partecipare al maggior consiglio, dopo la serrata, e quando già il declino era ben visibile, non bastava essere nobili, e neppure grandi, ma bisognava versare 100.000 scudi. Ma non illudetevi, pur indossando gli stessi abiti, non si sarebbe mai stati eguali davvero.

Città altera, generatrice d’orgoglio, forse l’unica dove appartenere era condizione, dopo Roma. Feroce con i nemici, assolutamente conservatrice, se non nella mercatura, finché poté averne una. Miope per sua grandezza. Ma non sono oggettivo, la mia città, che contribuì alla nascita di questo miracolo, attraverso i suoi abitanti spinti dal terrore dei barbari, ha chiuso la propria grandezza di capitale nel 1406, quando il suo signore, i figli maschi e parte della sua famiglia, vennero strangolati nelle prigioni di palazzo Ducale. Si chiudevano così guerre che erano durate tre secoli, ed iniziava una damnatio memorie che, oltre a cancellare i Carraresi, precipitava Padova nel declino sonnolento della provincia. E solo l’ultimo contributo con il neo platonismo, con il metodo scientifico di Galileo e con la nascita della medicina moderna mostrò sprazzi di quello che avrebbe potuto essere la città se lasciata crescere. Antica inimicizia tra parenti, quindi, ma anche simbiosi non paritaria, per convenienza, necessità, rapporto di dominio. Secoli d’ombra. Forse poteva essere diversamente, per Verona fu così, ma bisognava schiacciare il cugino scomodo e infido. E Venezia ci riuscì bene.

Sembrano cose lontane, eppure, pur nel mutato ordine, le competizioni pesano ancora, in questo mondo dove primeggiare almeno in qualcosa è condizione di vita. C’è una battaglia tra galletti in corso, nuovi ingressi e nuova nobiltà di denaro orientano la crescita. I luoghi hanno bisogno di principi adeguati, lungimiranti di futuro e di opere, sfidanti di fortuna oltreché d’uomini, per crescere e far nascere appartenenze e culture nutrite di opportunità.

Venezia ora è altrove, corre per suo conto. La mia Venezia, si stende pigra e guarda quanto accade. E’ un enorme animale immoto, fatto di pietre senza dominio da mar, senza dominio da tera, e così punta al cielo. Dice: cibatevi della mia apparenza, porté bezzi foresti, fazì el vostro comodo, ma con creanza. ( portate denaro, fate il vostro comodo, ma con educazione) E il cuore batte piano altrove. Sempre tra acqua, terra e cielo, nei luoghi dove gli abitanti possiedono il tempo. Cosa che i turisti non possiedono. Dove c’è la coscienza d’essere diversi, ed è barriera impenetrabile per chi è frettoloso. Dove parlano di niente e pare di capire, ma nella ciacola, il suono conta più delle parole  e quando si segue lo sguardo di chi parla, in realtà non si sa dove guardare.

sabah an-nur

Ogni giorno che s’apre, sabah an-nur, mattina di luce per te che vai, che mi incontri, per la vita che ci mette assieme. 

In questo mare di pietre, ulivi, mandorli, pistacchi, viti in terra rossa e rada, pecore, galline, pastori, tombaroli, venditori di cartoline, l’orizzonte sono le montagne del Libano e il deserto.

Stiamo andando ad una città morta, sbagliamo strada, ci perdiamo, non c’è fretta. Capisco perché qui sono passati e si sono fermati uomini e civiltà che hanno lasciato tracce indelebili per noi umani dalla memoria cortissima. I regimi, gli invasori sono cose che passano, città, potenti, cose che sembrano immortali passano e i pastori lo sanno. Il loro concetto di mondo e’ così diverso, guardano la tv, usano il cellulare ma alla fine il loro mondo e’ questo, il resto e’ notizia, meraviglia.

Non preoccupatevi, ripete la guida che è un imam. Non preoccupatevi per i disordini, non preoccupatevi per il tempo, non preoccupatevi e basta. State sereni, godete di ciò che vi attornia.  

InshAllah. Anche per chi non crede la parola è piena di significato, possiamo sperare, fare quello che ci è possibile, il resto verrà.

La città più vicina è Hama, non è un caso che ci pensi. Qui ci sono stati i bombardamenti del padre dell’attuale Presidente contro i Fratelli musulmani, nel 1982.  5-6000 morti, gran parte civili dicono le fonti governative, decine di migliaia, dicono gli altri. Le famiglie, le persone ricordano la guerra, ne hanno esperienza diretta. In qualsiasi momento possono essere mandati a combattere. Basta scegliere il nemico. Il Golan ancora brucia, c’è solo un armistizio ed un lavoro diplomatico che non si conclude.  Anche con la Turchia, per Antiochia, c’è un lavoro diplomatico, ma più stanco. Forse il comune problema Curdo, tiene bassi i toni e non ostili, nella sostanza, governi. Tenere aperto un fronte giova, giustifica. Due ancor di più, ma non impedisce di vivere come se si fosse in pace. Un po’ più controllati, un po’ più precari, ma questa è solo la mia sensazione di occidentale. InshAllah.

Ci sono 150 città morte qui attorno, tutte bizantine, quasi tutte fuori delle rotte delle carovane che percorrevano la via della seta. La guida usa parole di velluto quando parla delle carovane e nella testa si materializzano file, anche di 1000 cammelli, che trasportano tonnellate di merce e meraviglie. Una nave che superava tempeste, pirati, epidemie, tempo ed arrivava, sciorinava la mercanzia, vendeva, ricomprava, ripartiva. Intanto i racconti si intrecciavano, si consumavano amplessi rituali nei templi, oppure se il cristianesimo era arrivato, fuori dai templi. Nei caravanserragli, nelle città, uomini si incontravano con rituali scanditi da secoli. L’offerta era importante come la modalità dell’accettazione. Emergevano testi miniati, racconti di miracoli che meritavano una deviazione, una visita. Lingue ed alfabeti si mescolavano, i segni tracciati acquisivano significati nuovi. Si percepisce che qui la scrittura e l’alfabeto sono nati come conseguenza, servivano, ed hanno mutato la testa degli uomini, il rapporto tra cultura autoctona identitaria e cultura contaminante, sino a definirsi universali. Universale era chi voleva conquistare il mondo conosciuto e per farlo usava eserciti e scambi culturali senza distinzione di gradualità.

Sargilla appare di colpo, pietre squadrate, ordinate. Gli edifici pur toccati dai terremoti della faglia sottostante, sono in larga parte visibili. Le chiese, i pavimenti musivi, la furia degli iconoclasti, il senso dei percorsi di una vita quotidiana. Il forno, i negozi, le case, gli artigiani, tutto in funzione della vita e di qualche reliquia che aveva portato in questi luoghi famiglie, viandanti, aspiranti alla santità. Ma anche giocolieri, incantatori di uomini, profittatori. Spinti dalle persecuzioni, dalla miseria, dalla caccia all’uomo oppure dalla curiosità, dalla fede. Non si conosce il nome del santo che viveva nella caverna sotto l’imponente basilica, certo che il suo nome e le sue opere passavano di bocca in bocca ed attiravano. Prima i discepoli, poi i preti e le genti. Un posto come un’altro dove vivere mentre appena oltre le colline c’era l’inferno. Un posto che il santo e i nuovi santi, che certo si sarebbero manifestati, avrebbero protetto, reso invulnerabile dalla corrente della storia che percorreva la riva del mare.

Perché decaddero le città morte? Perché i santi cambiavano, per la stanchezza di vivere maturata ben presto, perché erano impermeabili al nuovo. Bastarono due secoli per nascere, fermare lo sviluppo ed iniziare un declino rapidissimo. Ma decadeva il mondo in cui erano nate, gli dei che erano coesistiti fino a quel momento, si erano spaventosamente assottigliati auno diviso in tre religioni: la cristiana, il nascente islam, l’ebrea. Ci si era fermati abbastanza, si poteva ripartire. E poco a poco gli abitanti sciamavano con una emorragia continua che toglieva senso ai luoghi. Chissà chi fu l’ultimo ad andarsene e cosa pensava del suo mondo. Perché non c’è dubbio, che quello era il suo mondo, l’altro, con una velocità sconosciuta percorreva il mediterraneo e i deserti, ma già dimenticava i santi stiliti, gli eremiti, gli asceti che flagellavano il corpo per un rapporto personale con dio. Si era transitati nel tempo del plurale, nel predominio della massa, anche nel religioso.

Le pietre, gli edifici furono occupati dai pastori, segnati dal fico, dalla vite e dal cappero, sui mosaici camminavano e dormivano le pecore. E la sabbia del deserto, che misericordiosa, lucida e ricopre, salvò molto.

Pietre e vite d’uomini, in un coacervo di dialetti del vivere. Quanti linguaggi sociali parliamo oggi, e quanti se ne parlavano allora? Quante etiche abbiano davvero indisponibili? Maometto era figlio di un commerciante, e il commercio rigava il pianeta conosciuto. Nelle città, dotti e teologi, disputavano. Spesso non disputavano nel piatto in cui mangiavano. Cosa sarebbe l’occidente senza almeno il ricordo che il dna comune è in questa mescolanza di tracce, che le religioni sono state sostanza e veicolo, ma dentro le culture, e che gli uomini, sono stati il prodotto di certezze che mutavano.

Il giorno continua, la vita continua.

Sia una sera di luce per te.

masa’ an-nur   

tornare

Guardo il vicolo, la mia casa, tutto è familiare.  Eppure c’è qualcosa di sfuocato. I piani torneranno presto a sovrapporsi, ed apparentemente sconderò le emozioni, ma non tornerà tutto come prima, perché se adesso tutto si mescola, le sensazioni hanno unghiato l’anima.

Chissà se esiste l’anima per gli agnostici e se è la stessa dei credenti. Credo conti poco, la mia guida, che vuol fare l’imam, è convinto che siano la stessa cosa ed ha conoscenza e saggezza che non ho.

Non ho mai pensato all’anima in questi giorni, ma al sentire, cercavo di non pensare, di ascoltare e basta, e se adesso l’anima torna non è per rifletterci, ma per trovare un luogo da portarsi appresso. Una sorta di vaso che doni del suo e contenga assieme, dove mettere le mani e trovare unguento o riporre ciò che conta.

Di sicuro non ha relazione con l’anima il chiacchericcio della politica italiana che mi ha investito appena sceso dall’aereo. In questi giorni isolati da internet, ho potuto pensare a dimensioni e priorità di passioni. Al troppo che ci circonda, fatto di sensazioni momentanee che sembrano eterne, a ciò che ci raccontiamo e  ben di più a ciò che ci viene raccontato. Alla manipolazione in atto ed alla auto manipolazione, per autostima, in atto. Ovvero come raccontarsi balle in continuazione.

Alcune parole guida mi girano ancora in testa: potere, forza, pazienza, conoscenza, passioni. Ma con una connotazione più ampia, che dà speranza perché aiuta a vedere che molto di quanto accade è fuffa, distrazione. Penso anche alle battaglie senza passioni di cui mi racconta il giornale, cose che non durano, soverchiate da un quotidiano che brucia solo perché è una fornace. Eppoi diciamocelo, non sono passioni, ma il racconto di qualcosa. Narrazione, come si dice adesso.

C’è qualcosa di tellurico che ha mosso per secoli popoli, uomini, mondo. Come vi fossero state faglie umane che si sono scontrate, hanno allargato, scavato voragini, gettato ponti, ricomposto in continuazione il mondo. Continenti di pensiero ed azione, senza un fine che non fosse la verità di ciò che si voleva fosse ricordato.

 L’ Anima mundi che parlava con l’uomo.

Adesso sembra che i cicli siano rallentati, siano meno significativi e che tutto scivoli nell’uniformità, nell’anomia. Ma magari mi sbaglio: è difficile avere un’opinione vera su ciò che si vive.

Le impressioni si sovrappongono, ci sarà tempo per riordinare e per sentire altro che ora non immagino.

Che non posso immaginare. Verrà.

Non si parte mai davvero ed vero anche il contrario. Allo stesso tempo.

Ed è bello ritrovarvi.

 

ferite immaginarie

 

Siamo segnati da ciò che non saremo, che forse non saremmo mai stati.

Ci pareva.

Ecco. Ci pareva così tanto da sembrare vero e ad un passo.

Bastava poco. Una svolta appena accennata, uno stop inatteso, un appuntamento rinviato,

ciò che allora ha preso la guida, sembrava gentile, ma era forte e miope di noi.