


Il filare dei platani alza il grigio dei tronchi verso un trionfo giallo e bruno. Le strade dei contadini e dei signori erano piacevoli all’occhio, toglievano il peso dell’andare, almeno per poco. Novembre era un mese in cui i fittavoli che avevano terra e orto e stalla avevano già predisposto i campi per l’inverno e si dedicavano ad avere cibo e attrezzi necessari a superarlo. L’orto dava radicchi, verze, carciofi, cavoli. Le zucche erano scorta come le castagne e la frutta da maturare e seccare. Il maiale, ignaro, ingrassava, come i polli che non avevano notato il destino delle oche, tutti mangiavano in un ciclo in cui nulla veniva gettato. La sofferenza si consumava lentamente, inframmezzata da racconti e giochi, luci fioche, freddo ovunque che non fosse la cucina, la stalla o il letto con lo scaldino. Crescita e vite sempre nel limite della fame e della fatica.
La mezzadria, i patti agrari, il bracciantato sono termini che nessun giovane conosce, quelli della mia età li hanno rimossi. In cinquant’anni un paese agricolo si è trasformato in industriale, poi in generatore di servizi e marchi di moda, adesso non si capisce bene verso cosa vada.
Qualche giorno fa ero in mezzo alla campagna, all’inaugurazione di un impianto fotovoltaico a terra da 2.7 MW, cinque ettari di pannelli. Un tempo ci vivevano due famiglie fatte di nonni, figli, bimbi, anche 40 persone che coltivano grano, vino, orto, pollaio. Crescevano figli, imparavano molto dalle mani, il necessario sui libri, appena grandi sciamavano come uccelli, verso città di cui conoscevano a malapena il nome. Cercar fortuna era un modo di dire che includeva immane fatica, lingua nuova da imparare, usi, costumi, cibo, lettere da scrivere ai vecchi che avevano 40 anni ed erano ancora legati alla terra, alla fatica, agli alberi che erano sul limite del campo, nel fosso. Se c’era fortuna e generosità, un po’ di soldi andavano a casa, per comprare quella terra da stenti, la casa, con l’idea di tornare che troppo spesso passava e diventava racconto.
Non mi piacciono gli impianti fotovoltaici a terra, sono solo soldi senz’anima, che producono energia per alimentare spesso ciò che è superfluo e trascurano il cibo che un tempo nasceva da quella terra. Guardavo, sentivo pezzi di discorso, rumore di bottiglie stappate. Faceva freddo, c’era il vento giusto per il primo raffreddore di stagione. Su due tavoli con tovaglie candide, piatti di salame, pane fresco, vino e pasticcio caldo. Tre camerieri in giacca e grembiule bianco porgevano assaggi. Un quadro incrinato, felliniano e stridente, zuppo di significati e contrasti.
Una classe di ragazzi di un istituto tecnico, faceva folla, interessati al salame e a un lavoro futuro, trattenuti a forza nel presente e meno alla precarietà dei contratti che avrebbero conosciuto. Toccherà sempre ad altri, ma non è così.
Il prete ha parlato a lungo con Genesi e preghiere, la nascita della luce e il fotovoltaico, più stringato e concreto, l’amministratore della società tedesca ha tagliato il nastro. Io pensavo a Olmi e all’albero degli zoccoli e mi parevano fuori posto quei ragazzi, con i vestiti degli studenti di campagna, fatti di strati di felpe da mercatino e calzoni sformati di jeans, con la professoressa giovane, piena di freddo, vestita per altra occasione importante, ma non per quel posto in mezzo ai campi, (calza giusta, vestito di lana a pelle e giubbino da bar del pomeriggio). L’insegnante maschio, invece era incappottato e desideroso di tornare nel caldo di una stanza. Supponente come chi ne ha viste tante, e provate di più, sbuffava scetticismo sulle promesse solenni della politica. Sapeva che da essa e da lui, non sarebbe dipeso quello che quei ragazzi davvero avrebbero potuto fare nella vita. Senso dell’inutile a cinquant’anni, una diversa vecchiaia.
Quei ragazzi erano i nipoti dei fittavoli, poi diventati metal mezzadri e infine artigiani, a loro non era rimasta appiccicata la sofferenza degli avi.
I proprietari dell’impianto avevano scelto le 11 del giorno 11, San Martino, per l’inaugurazione. Chissà che funzioni davvero per questi ragazzi la baggianata delle coincidenze, che porti bene anche se nasce da sistemi di misura inventati da ometti che neppure sanno ordinare bene il mondo in cui vivono.
Intorno c’era la campagna della bassa, così bella d’autunno che (lei si davvero palindroma e insensibile), si poteva leggere in senso inverso e lo diceva a chi ascoltava con gli occhi : io c’ero prima e ci sarò anche poi, voi no.
Mi sono fatto travolgere dal pensiero di ciò che è stato, così immobile di stagioni e fertile di mani, come fosse un pensiero trasversale della terra. Un sistema di numerazione basato sull’11, che accorciava gli anni per seguire il tempo meteorologico che ormai sfuggiva le stagioni e mi faceva sorridere la capacità che abbiamo di entrare ed uscire dal reale pur di far finire quello che ci annoia.
Ero davanti al mare di foglie giallo brune di vite e di platano, immerso nel riflesso dei pannelli e pensavo che qui, in questo luogo, poteva nascere qualsiasi pensiero, qualsiasi idea che poi avrebbe rigato il mondo.
Con l’ultima parola che ancora oscillava dalle casse acustiche, è scattato il rompete le righe ed una folla di mani si è avventata su piatti, forchette e cibo. Il gruppetto dei notabili sorrideva, mentre con i proprietari, si avviava al ristorante.