Parlare di lavoro oggi quando ci è mutato tra le mani e la capacità di capirlo costringe a rincorrere i dati più che quello che esso contengono, porta a domande semplici, a parole che descrivono ciò che dovrebbe essere un lavoro: sano, sicuro, retribuito equamente, arricchente per chi lo compie oltre che per il datore, dignitoso. Ci sono mondi possibili ed economie alternative che contengono questo lavoro, difficili, certo, perché basati su giustizia ed equità, ma non fuori della portata degli uomini. Deaglio dice che bisogna partire dal lavoro com’è diventato oggi e su questo esercitare una comprensione e una guida che lo muti o almeno ne attenui gli effetti più impattanti in termini di precarietà. Ad esempio se la competenza diventa rapidamente obsoleta avere percorsi pagati di formazione continua che siano a carico di chi lucra su queste forme di innovazione dovrebbe diventare una componente del ciclo lavorativo. Portare il sostegno a chi perde il lavoro non verso la pensione ma verso un nuovo lavoro dovrebbe essere la caratteristica assistenziale di questo mercato mutato che non si basa più sul lavoro fisso e la competenza acquisita. Cambiare in questo modo il mercato tra domanda e offerta di lavoro non può prescindere dalla constatazione che gran parte di esso è ormai concentrato nei servizi e che la manifattura in Italia produce un quarto del PIL.
Tutto questo e molto d’altro giustificherebbe una comprensione della situazione e un intervento da parte dello stato che progetti un nuovo futuro e non lo subisca. Difficile che lo faccia un solo Stato con successo più semplice se diventa un problema europeo. Quello di cui non si parla spesso è se il lavoro, anche quando c’è, sia sufficiente nella sua retribuzione per assicurare una esistenza libera e decorosa. Oggi questo non avviene se non in parte e segmenta la parte più attiva della popolazione tra chi ha troppo (minoranza) e chi ha troppo poco.
Troppo o poco rispetto a una società che impone livelli di consumo insostenibili e funzionali a una produzione globalizzata che comunque retribuisce troppo poco gran parte del lavoro che impiega. Una via d’uscita sarebbe quella di aumentare costantemente il valore di ciò che si produce attraverso la ricerca e l’innovazione, ma questo è il settore in cui l’Italia spende meno. Altra consapevolezza da acquisire sarebbe quella che il lavoro senza limite a cui viene soggetto chi ha un contratto precario e non solo, isola ulteriormente la persona dal contesto lavorativo e sociale, non diviene parte di un gruppo che produce qualcosa di cui sentirsi protagonista ma è solo un fornitore senza identità collettiva. Questa parcellizzazione della persona che segue le tante altre presenti nella società della realtà digitale, impedisce una crescita comune. Si guarda il PIL ovvero quanti beni e servizi vengono prodotti ma non la società che li produce e così una nazione di schiavi potrebbe avere un pil elevato ma nessun diritto per chi lo ha prodotto. Ebbene una nazione di schiavi ha ancora la possibilità di un senso collettivo dell’identità derivante da una funzione, può socializzare l’ingiustizia e il sopruso e ribellarsi, una nazione di individui in competizione tra loro, con retribuzioni al limite della sopravvivenza non percepisce più l’ingiustizia come fatto collettivo, anzi la ingloba nella percezione normale della realtà. Questo è il campo in cui un nuovo partito e l’umanesimo socialista dovrebbe esercitarsi.
I parametri di valutazione del lavoro sono legati al profitto dell’impresa, quindi al PIL. Non c’è niente che rimandi alla sua dignità, alla sua funzione sociale. Il lavoro diventa dunque strumento d’oppressione e sfruttamento. Ed è quindi giusto partire da lì per ridefinirlo. E va anche ridefinito il tempo del non lavoro che rende il lavoratore dipendente, il salariato, mero consumatore, quindi sfruttato due volte. Il salario percepito torna al padrone sempre e comunque.
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