Della casa ricordavi le grida per le scale, i litigi che s’acquietavano dabbasso, nella grande cucina che sbucava sul cortile. La scala, in pietra d’Istria, la divideva a mezzo, i gradini avevano il colore biondo dei capelli delle ragazze che venivano dal Friuli. Qualcuna a studiare da maestra, altre a servizio in famiglie abbienti e se avevano figli da allattare, spesso erano balie a domicilio. Si trovavano sotto il portico, davanti alla porta in cui entravamo anche noi, erano messe a servizio dalla moglie di Nini, conoscevano strada e porta, si trovavano la domenica pomeriggio, come le moldave o i filippini, adesso.
Chissà che nome aveva davvero Nini. Era un omone grosso, possente e capace di una carezza quando passavo, le sue mani a me sembravano enormi, capaci di chiudersi a pugno ma anche di tenere con eleganza le carte trevigiane che causavano scoppi di voce e insulti immediati. Bastava una carta sbagliata, un punto perso e tutto veniva messo in discussione, la tovaglia, i bicchieri, il bottiglione mezzo pieno di un vino rosso, aspro sin dall’odore e potente nel colore, tanto che neppure la varecchina l’avrebbe tolto dalla tovaglia. Nell’alzarsi degli uomini e della discussione tutto volava in un angolo di quella strana stanza, e mentre liberava il legno del tavolo, scurito dall’uso, rovesciava le sedie, il vino si spandeva sul pavimento d’assi d’abete e finiva la partita. Il pavimento era macchiato tutto l’anno, fino a Pasqua, quando veniva sfregato e poi passato con gommalacca e mordente sciolti nell’alcool, allora assumeva un colore rosso brace che assorbiva ogni macchia e pungeva il naso. Era il momento della diaspora degli scarafaggi che in gran numero uscivano e si infilavano in buchi, sino a quel momento segreti, per non farsi più vedere per un paio di mesi. Alla mia richiesta su dove andassero, mi venivano date risposte che suscitavano ilarità che non capivo. Vanno a Sottomarina a prenotare la stagione estiva oppure scappano verso le pescherie a comprare pesce. Noi abitavamo vicini alle pescherie, erano dall’altra parte del fiume ma non riuscivo a immaginare una cassetta di sardine portata da un esercito di scarafaggi, e a chi le avrebbero portate? E in cambio di cosa? Tutti ridevano e ridevo anch’io.
Cosa facesse Nini, che poi era il capofamiglia che ci ci affittava l’ultimo piano, quello in cui ero nato, era sconosciuto come il nome. Quella stanza con il tavolo delle carte era quasi sempre chiusa. Di notte avvenivano traffici che la riguardavano e c’erano cose che entravano e uscivano. Quando era vuota giocavano a carte e se per caso assistevo, al momento della rissa, venivo fatto allontanare in fretta mentre l’ultimo sguardo coglieva le mani già pronte a parare o a dare e più spesso a prendere gli abiti dell’altro per spingerlo contro il muro. Allora la porta si chiudeva, le voci si alzavano di tono e i contenuti erano quelli delle parole che io non dovevo imparare. A volte la partita riprendeva, più spesso finiva con urli e un ultimo sbattere di porte. Quella stanza era vicina all’ingresso sotto il portico, aveva una finestra ed era stranamente sopraelevata rispetto al corridoio, di due scalini, anch’essi di legno. Sotto al tavolo c’era una gran botola che portava direttamente in cantina. La stessa che nelle prime avventure batticuore, scendevo con il figlio più piccolo di Nini, verso un buio appena rotto da una bocca di lupo che dava sotto al portico, con un’oscurità che non consentiva di distinguere le cose che si ammassavano sulle pareti sino al soffitto a volta. Finita la scala fatta di gradini di mattoni messi in taglio, scivolosi e neri di sporcizia, c’era un pavimento che anch’esso doveva essere di mattoni, ma la polvere depositata e impastata con l’umidità, lo rendeva cedevole al passo. Di passi ne facevo pochi perché c’erano rumori e, Bepi, il compagno d’avventura, diceva ch’erano pantegane così grosse che si sarebbero mangiate un gatto. Per quello di gatti in casa ce n’era solo uno, un soriano sempre in braccio alla moglie di Nini. Gatto pacifico, dall’artiglio bizzoso che non amava essere privato della quiete che aveva scelto. Della cantina sapevo l’odore di umido e di marcio, l’oscurità che prende forma di mobili, damigiane e cose, il brivido di freddo che già si sentiva nell’aprire la porta e che assomigliava all’alito spento dei draghi che illustravano il libro di fiabe che mi era stato regalato per la befana.
La casa mi sembrava grande, a te non era mai piaciuta se non per le stanze ampie e alte e per la vista sui tetti e sul fiume. Eravamo nel centro della città vecchia, si vedeva la torre dell’università, con il suo parafulmine che era fonte di paura per te e per me di ulteriore avventura nell’attesa che una saetta fosse catturata dalla punta di ferro ritta sulla sommità e che, come mi raccontavano gli amici dei giardini dell’arena, l’intera corda di acciaio intrecciato che scendeva al suolo, si illuminasse e restasse incandescente a fischiare e sfrigolare tra sbuffi di vapore. Devo dire che pur attento e impavido, non ho mai visto quella corda infuocarsi ma un fulmine, quello sì che vidi, e il suono fu immediato, tanto era vicino, e fece tremare i vetri e tu ti nascondesti con me in camera. Con la Nonna sentii il terremoto e ci nascondemmo sotto al tavolo, ma la casa doveva essere abituata perché non si aprì neppure una crepa.
La cucina dava sui tetti e sul giardinetto dove c’era un ciliegio che era prodigo di frutti, buoni da alcool e da sciroppi o marmellate, ma poco dolci al gusto. C’erano ragazzi che ne andavano ghiotti e s’arrampicavano sul muro di divisione dal cortile del palazzo a fianco, per coglierli e riempire le mani e le magliette che si alzavano su canottiere bucherellate dall’uso. Erano gli apprendisti del falegname e dell’idraulico che avevano bottega nel gran cortile del palazzo e a me sembravano grandi, ma avevano forse undici o dodici anni. Tu mi raccomandavi di non frequentarli, avrei disubbidito volentieri ma per loro il tempo dei giochi era già finito e se il loro “padrone” li avesse visti giocare con me, li avrebbe presi a calci perché dovevano imparare un mestiere ed era per questo che le famiglie lo pagavano. A fianco della cucina soggiorno, c’era la stanza stretta e lunga, in cui dormiva mia Nonna, con una finestra alta che dava sulle scale illuminate da un grande lucernario. Poi c’era un corridoio largo che dava sulle scale e sull’altro lato una stanza simmetrica a quella della Nonna in cui dormivo io oppure i parenti in visita e poi una grande stanza da letto, che era quella dove dormivi Tu e Papà. C’erano due letti, il vostro e uno vicino alle finestre che davano sulla strada, dove prima c’era stato il lettino azzurro per me e poi un letto più corto del vostro, che serviva ad ospitarmi quando c’erano parenti. Due finestre, i suoni della strada fino a tardi, la luce di un lampione che filtrava dagli “scuri” di legno e il cielo bene in vista quando d’estate le imposte erano socchiuse. Ero nato in quella stanza, di notte, con un viavai di parenti e dei vicini del piano di sotto. Mi raccontasti che era caldo e che tutto avvenne in fretta e con il dolore che non si poteva eliminare. E allora Ti intenerivi e forse quella casa la amavi un poco, perché era legata a me. Per Te era una costrizione e a parte la tua amica dal nome strano, Alba, nulla ti legava a quel posto se non gli amori profondi che tenevano tutto assieme e allontanavano le difficoltà.
Io invece quella casa l’ho amata. Quando era disabitata ho cercato di capire se si poteva affittare o addirittura comprare. Era cambiato tutto. Dalla camera si vedeva ancora il cielo ma un palazzo alto aveva sostituito i tetti a spiovere di fronte, il palazzo a fianco, nonostante avesse storia, un progettista del’600 e una imponenza non comune, oltre che di pregio, era stato abbattuto per farne un insieme moderno di appartamenti, negozi e finestre. Gli artigiani cacciati, il fiume interrato, le pescherie sostituite da un informe mescolanza di marciapiedi, alberi a casaccio, fermate di autobus. Interrato il ponte, scomparsi il panettiere, le osterie, il macellaio, il fabbro, il falegname, il verduraio, il pizzicagnolo. La casa era rimasta per ingordigia della proprietaria, ma si dissolveva nell’incuria. Guardavo gli “scuri” del secondo piano e immaginavo cosa doveva essere stata quell’estate degli strilli e poi i primi giochi, fino ai ricordi vaghi e le sensazioni. Te ne parlai più volte, ma oltre la nostalgia degli anni non c’era un sentire quel luogo come importante oltre a me. Tu stavi bene dov’eri e il ” casa or’è dove si vive” era il tuo luogo del presente. Del passato si poteva raccontare, sorridere, sentirne la pesantezza mitigata dalla gioventù e dalla voglia di vivere, ma tornare indietro no, non era possibile quindi molto meglio andare innanzi.
Non ho mai saputo bene che mestiere facesse Nini, perché qualche volta parlasse spagnolo inframezzandolo con il dialetto e a me sembrava che fosse una sola lingua. Non ho mai capito perché dovevo stare attento qualche mattina mentre lavavano il pavimento e c’erano tracce rosse nel secchio dell’acqua dopo una notte in cui le voci si erano alzate troppo e Tu avevi chiuso a chiave la porta della camera. Penso facesse il contrabbandiere, forse ricettava e qualche volta i conti non tornavano. Ogni tanto spariva o venivano a prendere informazioni, ma cosa facesse davvero non l’ho mai saputo e perché l’avvocato proprietario avesse affittato proprio a lui. A me voleva bene, diceva che gli portavo fortuna a carte, bastava che me ne andassi quando non era aria. Ma quello succedeva quasi ogni volta.




Complimenti
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Grazie Marina 🤗
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Perdo il commento ,proverò ancora sarà la terza volta . La tua casa è unica !
Il racconto mi è piaciuto moltissimo . Buon pomeriggio Willy
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Grazie Francesca, un po’ strana lo era, ma ci ero nato. 🤗
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Bel racconto!
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Ho perso di nuovo tutti i particolari ,non importa, provo ad arrivare al cuore :
…C’erano due letti, il vostro e uno vicino alle finestre che davano sulla strada, dove prima c’era stato il lettino azzurro per me…
Due finestre, i suoni della strada fino a tardi, la luce di un lampione che filtrava dagli “scuri” di legno e il cielo bene in vista quando d’estate le imposte erano socchiuse. Ero nato in quella stanza, di notte…
Ti intenerivi e forse quella casa la amavi un poco, perché era legata a me. Per Te era una costrizione
Io invece quella casa l’ho amata. Quando era disabitata ho cercato di capire se si poteva affittare o addirittura comprare. Era cambiato tutto. Dalla camera si vedeva ancora il cielo …
La casa e il luogo per eccellenza delle emozioni , soprattutto quelle nell’infanzia con tutta la famiglia di origine . Esse segneranno per sempre la nostra vita , sì io credo che l’intelligenza emotiva ci aiuterà a comprendere il ruolo che abbiamo avuto e che abbiamo ora . Fino a trovare la nostra casa !
Buona notte Willy💫
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Grazie Francesca, hai ben compreso, è così. Quella casa era unica per le emozioni che conteneva. Buona notte 🤗
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