Caro Dottore, ricorderà, giugno era la stagione dei temporali, violenti e pieni di grandine, sembravano gli sfoghi giovanili di una stagione riottosa, profuma vano di fresco, di calcia strappata ai muri e di vestiti bagnati. Ne ho visti tanti, ovunque, anche se quelli di casa avevano un sapore particore, quelli dell’acqua che si faceva strada dal tetto attraverso la soffitta, a quelle furie improvvise risalgono ricordi dei miei primi anni. Vedevo dalla finestra di casa, le saette che si scaricavano sui parafulmini dell’ Università, che era oltre al canale. Un lampo e il tuono quasi assieme, tremavano i vetri della casa in cui ero nato, mia nonna era tranquilla, mia madre molto meno. Si diceva che l’acqua attirasse i fulmini, quindi dovevamo essere tranquilli, ma gli scuri venivano sbarrati e lo spettacolo finiva. Poi il canale è stato interrato con i suoi ponti romani e la casa dove sono nato è ora una residenza di pregio dove di certo non piove dentro, ma i temporali non ci sono più. È rimasta la consuetudine di finire la scuola prima del Santo, il 13 giugno, e questo mese credo abbia la funzione strana di essere estate senza esserlo e di preparare la vacanza che non c’è ancora.
Noi due siamo abbastanza legati alle abitudini da rispettare questa consuetudine scolastica e gli incontri aspetteranno settembre, però sappiamo entrambi che il riposo è una conquista e una predisposizione. La predisposizione l’ho perduta per strada, con la giovinezza e così devo costruirla sapendo che la vacanza ha un bagaglio in più con sé: i problemi nostri o altrui ricevuti in dotazione, che ci accompagnano. Questo riguarda me, non lei che avrà altri pesi da scaricare ed equilibri da riconquistare.
Dovrei parlarle di quanto mi ha influenzato la casa dove sono nato. I ricordi che ne ho, sono frammenti naturalmente, un balcone su cui posa a il piatto e venivo imboccato, l’ottomana foderata di rosso bordeaux su cui dormivo in attesa di chi mi mancava, il secchiaio di granito vicino a una finestra. Le scale di pietra di Nanto consumate e il portone al centro del portico. Credo importi anche il fatto che ci sia un asse del camminare che unisce la casa a quella parte di città, a come sono cresciuto, cosa ho visto e capito allora. Questa relazione con quella casa ho tentato di riprenderla, ma la proprietaria, oltre a trattarmi in malo modo, mi ha rifiutato di venderla e temo, dal tono, che ci fosse qualcosa di personale. Forse l’attività politica o un bagno di realtà a fronte di una romanticheria. Comunque lle cose sono andate altrimenti dai desideri e a me restano i ricordi.
I giorni di vacanza da adulto, avevano bisogno di una settimana di decompressione. La chiamavo così come fosse un riemergere, perché in essa c’erano ancora tutte le presenze della vita ordinaria, il lavoro, le questioni aperte che riguardavano il personale e il collettivo, il telefono. Per anni mi sono lasciato prendere dal mito del non chiudere mai il telefono, di esserci sempre. Lo faccio anche adesso ma lo metto talmente distante da dove dormo che potrebbe essere spento, solo che superare questa abitudine mi costerebbe almeno una riflessione interiore che mi spedirebbe indietro nel tempo e ad alcuni miti che comunque ho lasciato si creassero. Quello del non dormire mai nelle ore canoniche, ad esempio, altrimenti come facevo a camminare di notte per la città o a rientrare che albeggiava da qualche incontro che era avvenuto a centinaia di chilometri di distanza. Conosco il canto dell’allodola ma non sono Romeo. Quella vita era intessuto di miti e deliri di onnipotenza che dovevano servire a rappresentare la responsabilità del capo ai miei collaboratori, ma in realtà penso che non solo non mi prendessero sul serio come esempio, ma che scuotessero la testa pronunciando qualche frase pesante nei miei confronti oppure che pensassero a qualche seconda vita che avrei vissuto a loro spese.
Lei ha già capito che questi non sono che in parte nodi che rimandano a un antico senso del dovere e alla cattolica etica del sacrificio, così come mi era stata insegnata, con le dovute trasgressioni. E’ l’idea del mare e della montagna, i comunisti al mare e i democristiani in montagna, poi non era così, ma tra un mare libertino e una montagna castigata era chiaro cosa doveva essere preferito. Al mare si andava con la famiglia o da malaticci, in montagna per scelta libera e autonoma. Io andavo al mare, da solo, in compagnia, con la famiglia, ma al mare. La libertà era ovunque ma bisognava maturarla questa libertà prima di poterla vivere e capire che per essere liberi non serve il consenso altrui. Questi nodi del dovere e del farsi carico rimandano a cose più profonde e questa è una lettera non è una seduta in cui lasceremo svolazzare questo nodo, che fortunatamente non è diventato scorsoio ma qualche danno l’ha fatto.
Il danno maggiore lo connetto alla difficoltà di mettersi davanti, a far emergere l’io come priorità e trarre da esso tutti quei no che dovevano essere pronunciati a tempo. Il mancato no è corresponsabile delle delusioni successive, ma non ne è l’artefice. Le delusioni nascono da una forzatura del reale, da una cecità e naturalmente, dall’idea di poter comunque risolvere i problemi. Parlare di delusioni mi sarebbe facile nella casistica che rimanda a ferite aperte, ricostruzione della fiducia, necessità di ricomporre le coordinate per ricominciare a camminare. Lei credo conosca Puer eternus di Hillmann e la sua spiegazione della delusione e del tradimento, pensi che quel libro mi convinse talmente che ne regalai almeno 5 copie. Forse era ancora quando pensavo che se un libro cambiava il mio modo di vedere l’avrebbe fatto anche con altri. Emergeva l’entusiasmo dell’adolescente che scopriva i sentimenti, ma non funzionava così e penso che chi lo riceveva non ne traesse alcun beneficio personale ma continuava nella sua vita reale. Se in Hillmann la delusione e il tradimento fa parte del rito di iniziazione ad un diverso rapporto con chi aveva avuto la piena fiducia, posso aggiungere che mentre nel racconto del rapporto tra la fiducia del figlio e il tradimento del padre, esso viene comunque controllato, ossia il figlio si fa male nella caduta ma non troppo, nel mio caso questo paragrafo era stato omesso e ogni delusione è stata senza paracadute. Poi si parla del tradimento e di come questo può/deve essere inglobato nel vivere attraverso una sua maturazione che non lascia le cose come sono ma le evolve. Beh la teoria taglia la carne e nell’inglobare queste piccole batoste le ho messe tra i fallimenti.
Non c’è titolo a questo sentire, è parte della vita, come non c’è un nome vero a ciò che fa male, è una sensazione negativa lunga che sembra aspirare la speranza che le cose mutino. Ho capito che non si può stare fermi e che camminare muta le cose, non in meglio o peggio, quello si decide dopo, ma la mutazione avviene. Star fermi invece non cambia nulla, semplicemente attende che si ripeta la delusione e al tempo stesso la nega. Andare avanti, contare su se stessi, cercare il nuovo che può accadere, senza rinunciare a nulla. Ho una immagine di me bambino che in altri modi si replica da adulto: sono sopra una montagnola ed è fatta di terra, radici, piante, trucioli e sassi. La salgo di corsa e altrettanto di corsa la discendo. Altre volte è un’alta d’una di sabbia da scalare e dalla cui cima si vede il mare prima di lasciarsi scivolare avvolto da mille granelli di luce.
Buone vacanze Dottore, ci sarà tempo per risentirci senza parlare.