Nel puntuto dolore alla schiena sento l’acqua che scorre, ancora pietosa, sui passanti, ma non per me. Una sera gialla di luci mal regolate, voglia di mettere ordine tra cose e carte sparse, impilare, scartare, fare posto. La vita non è forse, spargere e tenere, lasciare che con dovizia d’accoglienza si faccia strada ciò che importante lo è davvero. L’accumulare, aggiungere esperienze come pennellate distratte, tenere in troppo conto il piacere sino alla soddisfazione negata, confondono su di sé, mi pare impediscano, ad un certo punto, di provare davvero il nuovo. Come tutte le ossessioni. Non fanno forse questo gli psicologi che spingono all’assuefazione fino al suo rifiuto, per far toccare il limite, sondarne l’inconsistenza e poi tornare al vivere finalmente liberi? Dentro, mi dicono che son poco profondo con me, c’è un dialogo di voci. Sono succo di agrumi freschi e passati, possibilità, persone condotte per mano, presenze lasciate ad attendere e poi perdute, addii.
La scienza degli addii è il frusciare dell’acqua sul vetro, sullo scuro che avanza, sulla notte che scioglie le luci. La scienza degli addii è nei capelli pettinati con le dita aperte, nelle carezze trattenute, nei baci fuggiti come lampade di strade lungo i treni.
La scienza degli addii è il groviglio di rotaie luccicanti appena oltre le stazioni, il vetro che accoglie il naso e il fiato che si schiacciano, la bocca che manda i baci prima trattenuti, il silenzio che ingoia l’assenza e rattrappisce prima di alzare lo sguardo. Ora che non c’è pelle grata a ricevere carezze, posar di labbra, caldo improvviso e tempo breve, ora che nei pensieri d’aria si disegnano possibilità sfumate, acuto è l’addio che non ha mani da scambiare. Così sfuma verso l’ultima luce del giorno un rimpianto e resta l’assenza.
E’ allora che si vorrebbe aver imparato la scienza degli addii, l’arte di portare con sé il necessario per lasciare che ogni amore viva.