speranza è oggi

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Speranza è fare oggi le cose, cercare di mutare ciò che non va adesso. Non importa se poco o tanto, stabiliamo noi la misura, abbiamo un metro in dotazione che è molto preciso con noi stessi. Confesso la mia inanità di fronte ai grandi problemi, riescono solo a farmi star male e così la tentazione è di rimuoverli, come le cattive notizie. In fondo non ci si impiega molto, basta cambiare canale quando trasmettono la cronaca per radio o tv, leggere solo di economia, politica, sport e pochissimo di esteri o di società. Ma un povero alla porta è sempre qualcosa che urge alla coscienza, forse partire da questo non risolve e neppure è una compensazione, ma è un modo di fare. Devo anche dire che non mi piacciono le soluzioni pietiste, non devo scaricarmi la coscienza, non mi va la società così com’è fatta, ecco e non sono talmente abbacinato dalla miseria da non distinguere gli uomini. Se una persona ha fame bisogna rispettare questo bisogno, ma questo non fa né noi, né lui migliori. Ho smesso da tempo di credere che ci possa essere qualcosa che va bene per tutti e questo mi ha liberato dalla presunzione di essere dalla parte della verità, di confondere la capacità di acquisto con il benessere, l’organizzazione sociale occidentale come la migliore. Credo che il relativismo non sia quella bestia che i papi aborrono sentendo messo in discussione il dogma e le verità rivelate. Non lo credo perché anche le religioni hanno grossi esami di coscienza da farsi se il mondo è quello che è, molte domande vengono rimosse e forse non fanno un buon servizio al messaggio che trasmettono se tutto si riassume nella fede. Non mi piace neppure la pretesa che ha la scienza di rappresentare il reale in modo esaustivo. L’una e l’altra risposta, la fede e la scienza, tendono a fornire scialuppe alla solitudine dell’uomo di fronte a sé stesso. Una piccola risposta è fare qualcosa, non toglie la solitudine, ma fa sentire utili, non mette dalla parte del giusto, ma evita il lamento che accompagna l’attesa del fare altrui. Fare ha un contenuto rivoluzionario, non attende che sia l’istituzione a provvedere, bensì pone la propria coscienza avanti a questa. E vale ovunque, nella famiglia, nella politica, nel lavoro. Io che sono egoista perché voglio un po’ di soddisfazione auto procurata, penso di farlo per me, e che se riguarda altri è perché faccio parte degli altri. E se posso dirlo, questa sensazione ha un corollario, mi rende libero di fregarmene del giudizio altrui, è una cosa mia, la faccio perché sto bene, e se serve significa che qualcosa di quello che mi sta attorno lo capisco. Non risolvo nessun problema, se non quello piccolo-grande per me di sentirmi più leggero.   

mortificare come negazione del vivere

Quando qualcosa diventa altro, eppure questo qualcosa è ricompreso, nascosto in un insieme più grande, non e’ metonimia, ma è la mortificazione in agguato. Ed anziché una parte essere simbolo del tutto quella parte sta necrotizzando qualcosa, lo imprigiona e con esso imprigiona noi.

Ci sono infiniti modi di mortificare, scrivere al posto di vivere ad esempio, oppure pensare che il piacere duri all’infinito, forzarsi di vivere nel momento togliendosi il futuro, parlare di sé senza cogliersi e sapere che il particolare raccontato è il grande paravento. 

La mortificazione, tolta dalla disattenzione altrui, oppure dall’indebito rimprovero, è faccenda personale, passeggiare sul limite tra vero e falso, dove il falso non è così falso, ma solo una parte, una scorciatoia per non affrontare la difficoltà di vivere. Come una giustificazione per qualcosa che si farà, o ancor meglio, non si farà. 

C’è mortificazione quando, scientemente o meno, ci si toglie qualcosa perché sostenerla non è comodo, potrebbe mutarci. Faccio un esempio se lo scrivere è un piacere che dilata il mio sguardo, mi porta problemi e li risolvo dialogando con me e non solo con la forma, con la grammatica, sono meno attento al contenitore e molto alla mia verità nel contenuto, allora lo scrivere allarga la percezione, il dialogo non è solo un soliloquio. Se invece lo scrivere è un rifugio, un rinchiudermi nel mondo personale, anzi un chiuderlo ancor più, allora diviene mortificazione della possibilità e quindi mortificazione di qualcosa che ho dentro.

L’aggiungere diviene il discrimine tra ciò che amplia e ciò che rinchiude, e l’aggiungere non è il numero, ma lo sviluppo della possibilità, il lasciare ch’essa cresca, divenga parte di noi, piccolo passo avanti. Per questo penso che la lotta tra la mortificazione e la possibilità siano una costante forte del vivere che scende oltre la superficie, e penso altresì che la scelta non debba necessariamente essere mortificazione, ma quanto più vicina è a noi stessi, tanto più essa amplia e quindi è esattamente il contrario della mortificazione. 

Si dice spesso che la non scelta è una scelta e spesso di grande peso, ma nel non scegliere mortifichiamo e quindi diviene una scelta negativa peggiore di quella esplicita che evitiamo perché la consideriamo troppo contro noi stessi, troppo violenta nel suo rifiutare ciò che sentiamo giusto per noi.

Il mortificare è un topo furbo che si nasconde beffardo, è il rivolgersi in continuazione contro di noi attraverso l’ apparente piacere immediato, attraverso l’ordine esteriore, attraverso la rottura della regola per la rottura e non per l’emergere di una nostra regola interiore. Il dialogo con la mortificazione, con lo thanatos che ci accompagna è continuo, faticoso, estenuante spesso, se non affinando la capacità di non prenderci troppo sul serio, nel sorridere di noi con l’ironia dello sguardo che distingue tra ciò che ci fa bene nel tempo e ciò che ci fa bene immediatamente. Non è una posticipazione del piacere, sarebbe una visione molto deviata e fintamente cattolica dell’uomo, ma la sua tranquilla crescita in un progetto personale che comprende la vita come bene sommo e non persegue la sua costante negazione.

In fondo la vita è l’esplorazione di queste segrete stanze che conteniamo e il lasciarle aperte alla luce del nostro vedere.