L’aumento vertiginoso dei compro oro testimonia la miseria crescente e la grande quantità di contante che esiste ed è altrettanto presente. In altre mani naturalmente. Così piccole antiche fortune, momenti di tenerezza tangibile, affetti oggettivati, vanno sul bilancino e cambiano proprietario. La pubblicità di un orologio famoso, e caro, dice che non lo si possiede mai interamente, ma lo si trasmette, adesso non è più così per un italiano su quattro che affronta i problemi momentanei con quello che ha e aprendo la porta di un compro oro, ma non risolve la sua condizione che ha bisogno di ben altro intervento. Anche di consapevolezza. C’è una solitudine emblematica in chi entra in questi luoghi, invero squalliducci ed è quella di non essere assieme sui problemi veri. Ci si diverte assieme e si soffre da soli. Verità polverose, ma come mai emergono tutti questi soldi per comprare, e che fine farà tutto quell’oro, quegli oggetti, quelle pietre? Sembra non ci sia nulla di speciale, è tutto alla luce del sole, anzi pare serva una autorizzazione della Banca d’Italia, per fare questo lavoro. Sì, ma da dove viene tutto questo denaro?
Un paese sano è quello che conserva le proprie fortune, che costruisce su di sé e quindi tiene nelle case le testimonianze dei sentimenti e del benessere raggiunto con fatica. Un paese sano aiuta i propri cittadini a non scivolare nella miseria. Un paese sano segue la ricchezza e il denaro e chiede da dove proviene. Invece oggi più di ieri, sembra emergere una visione di potere del denaro e di equivalente debolezza di chi può contare solo su di sé. Si sono comprate anime, vite, adesso oggetti che verranno fusi, solo ciò che è più pregiato resisterà intero e verrà rivenduto come oggetto. Anche gli uomini? Miseria e ricchezza, impotenza e potere, possibile che non ci sia nulla da dire?
La sera si trasforma in notte. Le strade strette, quasi vicoli, pietre per terra che suonano nei passi, toc tac toc, rumori secchi che si rincorrono, scalano le pietre che salgono a costruire i palazzi, e poi si smorzano, rimandandosi di echi, tra loro, ai passanti, impermeabili. Case solide, scure, fortilizi di pensieri, passioni, dolori, gioie che non sfuggono dai muri. Mai un grido in più, una parola che oltrepassi il silenzio delle vite. Mai. Anche quando si urla le orecchie si chiudono, gli sguardi disapprovano, le vite devono restare impermeabili. Ora i passi si fanno più lenti, la mano passa tra i capelli a rastrellare pensieri, tiene un riccio sovrappensiero, e si distrae nella sensazione di pulito, di curato, di umido e di notte, reso tattile tra le dita.
Le vite realizzate hanno i loro usi e apparenze. Nelle donne un tocco di frivolezza e mistero, un accenno, un taglio di capelli, la fotografia di un voler essere a lungo cercato, un tacco scelto con cura, un particolare a suo modo sfacciato nel dire, un pensiero proprio da far affiorare. Negli uomini, un segno indossato, uno stile, il colloquio con il proprio viso, un taglio di barba, un talismano infilato da qualche parte che spinge ad essere qualcosa, a riconoscersi. Questo e altro per entrambi, non è questione di generi, ma di tenere assieme un’identità.
La sera è notte, umida come le città vecchie, e scura, nei passi c’è memoria del pensare che la vita s’è svolta e, forse, si svolgerà. Non basta aver fatto, essere stati, aver costruito, amato, fatto figli, voluto, non basta perché ogni azione ha contenuto un pezzo di contrario, l’ha accompagnato, coccolato e perseguito come rivolta al conformarsi a sé. E chi rallenta lo conosce e dispera il toglierlo, sa che è parte di sé e questo curva appena le spalle, rende umido il fiato, densi i pensieri. Di giorno, dopo l’ennesimo caffè, stravaccato di fatica e di noia, direbbe che è bile poco fluida, amaro che si fa sentire, ma è notte e la notte chiude, prima di riaprire.
Si torna a casa per non restare, si torna con il segno della vita addosso, non ora, ma c’è il ricordo di entusiastici ritorni, di cuore e pensieri traboccanti. E’ accaduto. Resta, sono eventi, succedono, magari si ripetono, non sono consuetudine. Consola che chi pensa di addentare il presente, addenta se stesso, provi adesso a sentire quel vago ricordo di cibo memorabile, quel vino unico, digerito in fretta, senta quell’amore che sembrava riempire ogni ora, riprovi la disperazione che ha chiuso il cielo. Aver coscienza che il presente è parte delle vite, non le subordina, non alleggerisce il passo, semplicemente fa sentire che c’è altro da tener da buon conto e alla fine fa concludere che il presente è in questi passi, in questa solitudine soddisfatta di risultati e corse, che ha trovato compimenti e sconfitte atroci, ma solo quando si sono vissute, poi non più, perché chi non vive solo di presente non è mai domo davvero. In questi passi, nella serratura che fatica ad aprire un portone pesante di legno, c’è il senso di un risultato, e il senso salirà le scale, aprirà un’altra porta, accenderà una luce cercando un’abitudine che soccorra, un gesto consueto, uno sguardo che rassicuri, che allontani la voglia d’altro, di tempo nuovo, di vita, di cose non ancora stropicciate di vissuto, di pagine scritte da ripensare, di atti e gesti più lenti, di respiro, di tempo.
Ricacciare la fatica del nuovo fa ripiombare nella coscienza che mai non finirà, che tanti eguali fanno le stesse cose, rallentano gli stessi passi, si pongono le stesse domande, eppure non sono un popolo, neppure si riconoscono, sanno solo d’esserci, distanti o vicino, non importa. Tu a Parigi, o a Palermo, io qui, lui al Cairo, chissà. Restiamo, impossibili nell’essere diversi, anche qui, domattina, già diversi perché il tepore delle pareti, l’odore dei tappeti, dei mobili, dei libri, ha confinato l’umido della notte. Stanchi, paghi, realizzati.
Forse per questo si scappa, Africa, oriente, nord Europa, ovunque, pur di non essere abitudine, vincolo, e si diventa altro, si diventa un posto in cui vivere, sembra, diversi. Ma anche senza spostarsi, anche qui, domattina, diversi, perché già il tepore ha confinato l’umido della notte, asciugato i capelli e riaperto la speranza d’essere altro. Forse. Ma, a volte, in una liturgia senza religione, si spegne la luce, ci si avvicina alla finestra, e si contempla il buio, le vite intuite nel giallo delle finestre, il cielo che riflette le luci di città, fuori e dentro, finché subentra una sensazione di pace avvolta di buio, quello alle spalle, denso e odoroso, e quello spanto di grigio che tempera le notti tra le case. Una vita vive perché sa che ci sono vite, e così rende tutto relativo, anche il realizzato che è sempre incompleto e urge e chiede ancora. Ricordi? dopo un esame subentrava una pace innaturale, un mondo che s’apriva potente, infinito, possibile, finché scoccava la domanda: e poi? Anche ora sappiamo che non si compie davvero nulla, si fa, e al più si transita per tappe successive.
Noi, così. Popolo che si lancia messaggi e poi si ritira, timido d’una risposta che aprirebbe altre richieste, domande, vorremmo solo, visto che ormai s’è capito come funziona, che chi contempla la propria altezza fosse conscio della sua insufficienza, della miseria che lo accompagna, per averlo amico in questa notte che finisce nella consapevolezza, che tiene il buio alle spalle come una coperta calda e sente e guarda bagliori paralleli, che si assomigliano e ci sono. Per fortuna ci sono.