alter ego

M’ illudevo che i pensieri obliqui, per loro natura poco consistenti, si accordassero col colore dell’inchiostro. Questo semplicemente, li accompagnava in infedeli traduzioni, ma allora, perchè era il colore che attirava l’attenzione? Son passato ai pennini: tagli dritti, obliqui, sottili dapprima, poi medi ed infine  larghi, da calligrafia, a scrivere su carte con porosità differenziate. Hanno lodato il tratto mentre le parole si svuotavano come palloncini.

Allora come un ascensore, ho provato a farmi carico, ma non ha mai funzionato come pensavo. Un poco sì, forse all’ inizio, poi le richieste aumentavano chiedendo di sostituirmi, di portare a spalla su scale ripide e poco illuminate.

 Ho trovato il tunnel tra il dover essere e la vita, nascondendo gli scartafasci, così a volte ho altre vie di scampo, anche se l’ardire maggiore è trasformare l’uscita di sicurezza nel portone sontuoso in cui fare ingresso.

Sarà per questo che adesso, sbrigativamente, mi va bene essere egoista.

O forse non mi è stato chiesto nulla e ho fatto tutto da solo?

il comunista

I sogni cambiano lentamente, quelli importanti almeno. Gaber dice quasi tutto d’una stagione che metteva i nomi alle cose. Essere di sinistra era poco, comunista era tutto, era un modo per dare concretezza alle speranze, la soluzione per il male che non era morto con la guerra. Era una questione di giustizia, di crescita, eravamo differenti ma tutti assieme. Anche gli altri avrebbero capito. Chi era riflessivo si faceva domande, trovava ragioni. Cos’era la libertà allora? Oggi per molti è libertà di parola, altri la fanno coincidere con una caricatura della democrazia, ma la libertà allora, e anche adesso per me, era poter crescere in un mondo in cui ci fosse posto per tutti, con diritti e opportunità eguali. Per le ragioni strane che albergano nella testa degli individui (bisogna pur distinguersi dai cervelli collettivi), gli avversari avevano dignità di battersi, a nessuno sarebbe mai passato per la testa di non riconoscere l’avversario. Non voglio ingentilire le nefandezze, ma scelta la parte in cui stare si procedeva di conseguenza. Ed era raro cambiare idea, qualche fascista o democristiano passava a  sinistra, ma era per seguire quello che già prima aveva in testa: dare un nome ai bisogni di giustizia, ad una speranza che si poteva realizzare. Chi se ne andava, nei socialisti o nell’extra sinistra, era fuori della casa madre e per i primi si scuoteva il capo dicendo: era un opportunista, per gli altri, che non capivano, che non bisognava affrettare i tempi, ma avremmo vinto, bastava aspettare e lavorare.

Chissà che vuol dire ora essere così? Per chi ha vissuto in quegli anni, dopo la delusione, i fraintendimenti chiariti con dolore, il riconoscimento che non era quella la strada. Dopo tutto questo è rimasta la pulsione originaria, che insieme si può fare, che il mondo può cambiare, che l’ingiustizia non può averla vinta. Mancano idee solide ora, qualcosa che infiammi i cuori e faccia pensare i cervelli, il sentirsi parte di un disegno più grande con la propria individualità.

Mancano, e chissà con che nome arriveranno.

 

migrare

 

Vorrei dedicare il 2009 al camminare, al migrare lento.

Camminare procura pace, equilibrio, libera dai pensieri circolari. Quando si cammina con lo zaino in spalla, quando gli alberghi sono dove si arriva, tutto viene ri-ordinato, le necessità si riducono ad una lettura per il riposo, un taccuino per scrivere, acqua e poco cibo. Le scarpe e i piedi sono il centro dei problemi quotidiani e la pulizia, l’abbigliamento vanno all’ essenziale.  Ma il mio migrare è un migrare da ricchi, fatto non di necessità, bensì di piacere vitale.

‘N Ballo è un signore straordinario, senegalese, che spiega con semplicità sia la banca delle capre della sua onlus, sia la spinta triste del migrare. Parla delle madri che chiedono ai figli di andare via dalla polvere del deserto che avanza, dalla miseria, dalla fame, dalle malattie. Racconta del denaro raccolto vendendo ogni cosa per pagare le traversate verso la Spagna, parla dei naufragi senza storia, del muoversi alla ricerca di un rifugio in un paese sconosciuto, del lavoro senza aggettivi, che faccia sopravvivere e poi mandare qualcosa a casa. Parla delle lettere che arrivano al villaggio, enumerando i morti, chi non si è salvato. Racconta del dolore vociante e muto, degli altri figli che faranno lo stesso tragitto. Non condivide la migrazione, ‘N Ballo, sente che il suo paese muore ogni volta che energie giovani se ne vanno, ribadisce che la legge e i codici si rispettano anche quando non si conoscono, che la clandestinità è un reato. Ma chi depreda il suo paese rispetta la legge? Anche chi in passato ha imposto lingua, religione e cultura, ha rispettato la legge? Qual’è la legge, allora? La storia umana è fatta di migranti, la civiltà è fatta di contaminazioni, la razza umana, habilis o meno, è uscita da foreste, inseguita dal clima, dalle disperazioni, dalle sconfitte e si è spostata cercando pace e vita. L’azzardo contemporaneo è che si possano gestire le migrazioni senza che la cultura dell’uno sopraffaccia quella dell’altro, che vi sia un moderato conflitto tra le diversità attendendo che emergano le bellezze condivisibili tra diversi. L’economia regola secondo utilità e rendere evidente l’utile è opera di misericordia: ti accetto perchè mi servi, perchè la mia ricchezza dipende da te.  Questa regola, molteplice quando interviene su più economie, si avvicina alla giustizia, alla legge, sviluppa il paese d’origine solo perchè l’interdipendenza serve ad entrambi.  Ma l’ interesse, la giustizia non devono essere buoni, solo equi. Ciò che non è accettabile è che trionfi la legge degli scafisti: chi attraversa il mare vivo e ha pagato per farlo, viene ributtato nel paese d’origine, dove poi ritenterà e pagherà nuovamente, perchè non ha alternative se non la morte. Allora chi viene favorito da una politica che semplicemente ributta a mare? Chi gestisce la traversata, chi lucra sulle vite, la corruzione dei doganieri del deserto, la ferocia di chi butta a mare vivi e morti. Questa condizione è ulteriormente ingiusta se pensiamo che riguarda solo il mare: per immigrare a nord basta prendere un treno e le frontiere sono senza pericoli.

Il 2009 sarà l’anno in cui ricomincerò a camminare, ma sarà un migrare sicuro, da ricchi. La mia cittadinanza farà scudo, sono un cittadino della parte giusta del mondo e quindi di tutto il mondo, sono altri i passaporti che non servono a nulla. 

La lentezza non mi impedirà di andare, mi aiuterà a vedere.

Vi auguro di uscire dalle case, di pensare all’aperto, di usare, come farò con qualcuno di voi, la lentezza per condividere e vivere. 

emersioni

Dagli scatoloni non aperti del trasloco, sono emersi i primi volumi delle opere mai seguitate. Una cultura monca racchiusa tra AA e Ar, con Aristotele a far da confine. Chissà cos’è accaduto poi, in filosofia? E man mano hanno rivisto la luce i dizionari delle opere e degli autori, qui siamo andati meglio, arriviamo a Camus. Sornione, tre enciclopedie mediche abortite rammentano ipocondrie fugaci: potrei valutare i miei mali sino  agli apparati, oppure oscillare tra candidosi e canizie, ma tutto poi  irreparabilmente sconfinerebbe nel contagioso dolente oscuro.  Un Arione, musico e poeta, inventore del ditirambo testimonia il limite d’interesse per  l’enciclopedia biografica. Mentre più preoccupante è la letteratura italiana  con due opere, sempre ferme al ‘200 e al placito di Capua. Sao ko kelle terre, che nostalgia per i nodari scrittori, precursori delle sintesi del blog e  i provenzali d’assalto sparsi per l’italia. Qui ci potevano stare Calvino e  Ariosto, il criterio cronologico ha devastato la cultura e il pensiero trasversale. L’arte sta ancora meditando sul pittore di Firenze, sesto secolo a.c. autore di un cratere, però ha avuto modo di incuriosirsi tra Boucher e Dosso Dossi, Caravaggio e Courbet.

Nel mio circondarmi di sapere rimandato, di curiosità sollevate in libreria, interrompere un’opera è stata una decisione non facile, una metafora del vivere. Chè tante ne ho interrotte, ma di più ne ho completate e quando una vita non basta, bisogna circondarsi di possibilità e scegliere, per non sentire l’obbligo senza amore.

Scartare, vedere il futuro delle cose, l’intreccio di queste con la vita.  Questo l’ho messo da parte perchè potrà servire. A cosa, a chi?

Vale anche per i doni: lasciare solo quello che è prezioso e tenere l’affetto. Sottrarsi all’obbligo di indossare, di ostentare un gradimento eccessivo se il piacere si è chiuso con l’attenzione. E’ ora di liberare il campo dai morti sorrisi, come le mie sconcluse enciclopedie raggruppate in un magazzino in attesa di macero o di ricicli altrui. Ora non ricordano più una possibilità interrotta, non sono state e basta.

Diverso quello che è nel cuore, quello non si conclude mai, e questo dizionario d’amore scrive ogni giorno pagine nuove e non scorda ciò che di buono è stato. Sembrerà strano, ma il buono è nuovo ogni giorno.

halleluja

In questi giorni pensavo agli errori, alle cose che non avrei mai voluto fare, alle persone a cui ho fatto male, a ciò che non ho fatto. Chè pure il non fare è un errore. E questa consapevolezza genera catene ben presenti, da cui è impossibile prescindere. Certo riconoscevo le cose buone fatte, la fortuna che mi ha portato dove si poteva sbagliare assai, ma anche rimediare un poco. Comunque mi pareva che la bilancia pendesse sempre troppo dalla parte sbagliata.

Questo pensavo.

Poi ho capito che gli errori sono frutto di un tempo diverso, di un amore che ha tentato di essere, dell’imperizia di chi apprende. E nel capire la necessità dell’errore per imparare mi sono usato misericordia. Continuerò a sbagliare e a cercare di fare le cose giuste, la vita sarà disseminata di eventi che non vorrò ricondurre a me, ma poi li accetterò e proverò a cambiarli in positività. Ci proverò, ri-sbagliando e sapendo di sbagliare, sperando che non sia come la volta precedente. Perchè ogni volta è nuova e questo è il senso del vivere.

Halleluja per i cinici mancati.

il ponte

L’auto si fermò sul ponte. Lui scese per primo, poi la bimba, il motore restò acceso. Il ponte era lungo, a metà cominciarono a guardare l’acqua fangosa. Il livello era sceso dopo la piena, ma la corrente spostava tronchi e grossi rami. Tutto roteava piano tra rive piene di alberi semi sommersi.

Spegni il motore, papà, per favore.

Lui non ascoltava, guardava l’acqua. La bimba ripetè, più piano, poi si appoggiò alla gamba del padre.

Le luci di posizione rosso scarlatto, occhi distanti, lui taceva, ma ora nella mano destra teneva una walther, nera, pesante, regolarmente denunciata.

Guardava l’acqua e pensava. La bimba, in silenzio gli abbracciò la gamba. Faceva freddo. Adesso sul fiume la luce calava. Il suo pensiero si soffermò sul vapore di un sospiro più lungo, poi un brivido.

La pistola era troppo pesante, se ne accorse, riponendola.

La bimba lo guardò. Si era sciolta la sciarpina colorata,  la sistemò con cura, le dita per un attimo sfiorarono il viso.

Poi, prese la bimba per mano. Una stretta lieve.

Andiamo a bene un latte caldo, vuoi?
La bimba assentì.

condizionale

Nel mio sciagurato apprendere, lo studio ha seguito scie ben diverse da quelle che dovevano essere percorse, così la grammatica, come ogni altro esercizio di paziente apprendimento, non ha ricevuto attenzioni, tanto che oggi tutto si confonde in un informe inviluppo di regole senza nè capo nè coda. Così è nato un legame tra grammatica, condizione del vivere e assenza di certezze che non si riferiscano a pochi radicati principi. Sussiste un sostanziale fastidio per tutto quello che si imbeve di sterilità apprese chissà quando e come. E penso all’eleganza del gesto che innova, alla solitudine che accompagna la rottura di un paradigma, alle forme che ammettono il dubbio e sfociano nel condizionale.

confessioni del mostro

Avete mai provato la sensazione di essere osservati? Quel guardarsi attorno per capire da dove viene lo sguardo e poi mettere a posto, inconsapevolmente una piega del vestito, scavallare le gambe. Ma ancora c’è la pressione sulla nuca e voi continuate a fare come niente fosse, tanto siete a posto, in ordine. Solo un poco a disagio e la conversazione prosegue come avesse un interlocutore in più, un convitato di cui tener conto. Ecco, mi è accaduto questo e può accadere a tutti. Esiste tutta una pletora d’atti che un tempo erano difficili e scorretti, ma ora diventano agibili; chessò, leggere la corrispondenza, magari in una memoria di cellulare, alimentare un sospetto attraverso la lettura attenta di un post, seguire le tracce di blog in blog per vedere cosa si è detto, quali confidenze sono in atto, perchè si adoperano toni affettuosi.

Perchè non mi scrivi le stesse cose? perchè non mi parli di ciò che senti? 

Provate a farvi la stessa domanda, perchè non raccontate le cose che raccontate in rete a chi vi conosce di più. Forse perchè in rete è più semplice mostrare il lato migliore? Oppure perchè, come tra amanti, mancano le colazioni e gli sbadigli? O forse perchè ci sono argomenti di cui parlate con sconosciuti, ma che annoierebbero gli amici? 

Magari avete qualcosa da nascondere. E chi non ha qualcosa da nascondere: una abitudine ridicola, un tratto del carattere da confessare solo a sè stessi, un desiderio difficile da condividere, un ricordo che potrebbe far male. E così, fino ad esaurire la gamma dei motivi per cui si tengono cose per sè ed altre si mettono insieme. Il diritto alla privacy dove finisce nei rapporti umani? Dove scelgo che finisca e cioè nel limite che metto nel dire e mostrare e se tu vuoi vedere di più allora violi ciò che pensavo fosse da mettere assieme. Come dire che raccontare tutto in ogni contesto, non funziona e spesso annoia.

E anche nella comunicazione, una delle pretese più assurde è quella di risolvere i problemi enunciandoli. Chi non ha problemi di comunicazione è un alieno, o un telepata e passa le cose con il pensiero. Il blog, al pari della scrittura, consente di precisare e capire meglio cosa si agita dentro la testa e la sua presunta pubblicità soddisfa al tempo stesso il narcisismo e la percezione dei propri limiti. Se poi aggiungiamo che l’interlocuzione è spesso libera ed educata, ma mai così profonda da sconvolgere un rapporto, una vita, allora è fatta. Questa è la fisiologia del blog che non è immediatamente applicabile ai rapporti fisici, perchè la parola nel blog è netta, priva dell’espressione corporea, del contesto, del vissuto comune. Per questo chi conosce legge diversamente le parole perchè il vissuto è un pregiudizio e i piani di lettura più circoscritti. In questo sta la forza comunicativa di questo strumento che può proseguire nello spazio fisico e in quel caso avrà altre regole e profondità e sorprese. Mi viene spesso da assimilare il blog ad una festa in cui ci si conosce per la prima volta, si agisce al buio e chi ci parla può essere qualsiasi cosa, poi con il tempo si imparerà a conoscerlo. Perchè il fascino è quello del carnevale del medioevo, vestiti e maschere con il mostrarsi quanto si può e vuole, ma poi pronti a disvelarsi. Chè di carnevale non si vive.

p.s. dovrei ringraziare chi mi ha spinto a riflettere sui piani comunicativi, ne è nato un pensiero che si complica perchè l’idea che prevale è quella che i legami deboli debbano essere investigati e che non siano così tanto deboli come pare. Poi penso che i ringraziamenti non sarebbero bene accetti perchè avvertiti come esclusione, anche se è curiosa questa posizione considerando che un amico o un’amica conoscono ben più di quanto non si dica in poche righe e che il vissuto è la migliore prova se esiste o meno il mostro.

Credo che tutti aspirino  a sentirsi dire: usciamo stasera, fammi le domande giuste, non essere geloso/a, guardami volare, ti guarderò volare.

libertà

Libertà è camminar per strada scegliendo quando voltare, libertà è scrivere senza attendere risposta, libertà è leggere negli occhi e stare zitto, libertà è dire nò quando fa bene dirlo, libertà è chiudere il blog e poi aprirlo, libertà è voler bene ad un’amica che ti racconta com’è il suo thè stasera, libertà è cercare tra le righe quella frase che ti ha rigato il cuore, libertà è piangere al cinema e sapere d’esser fragili, libertà è sapere di non assomigliare, libertà è quella forza che man mano scende dentro, ti rallenta il passo, rizza la schiena e fa guardare negli occhi anche un demonio. Libertà grandi e piccole, libertà da tasca, libertà di dire, fare, baciare. Libertà.

Stanotte la libertà è coccolata, cercata, amata e dormirà con me per camminare assieme; amica libertà. 

solo musica

La notte era fredda a Ferrara, con neve a chiazze lungo l’autostrada e in città, ma lunedì, il quartetto Emerson e la musica erano bellissimi. I pensieri si aggiravano, discreti, nell’armonia, tra il qui ed ora e le storie intuite ed ascoltate. Pensavo a chi sarebbe piaciuto questo concerto, a chi insegue la leggerezza, alle sensazioni che qualcun altro avrebbe provato.

La musica fluisce tra le parole che leggo e sento, scivola sulle persone come abito che scende dall’alto, si indossa. Sono pensieri da serate senza sfarzo, con i ragazzi del conservatorio in jeans a ripetere sottovoce un attacco. Solo musica? Nel programma era presente un tema leggerino: quello della morte e su questo vorrei soffermarmi, magari della musica parlerò altrove. Nel quartetto n.14 di Schubert,”der tod und das mädchen”, c’è la visione del fascino che la morte esercita sulla fanciulla malata. Il dormirai dolcemente tra le mie braccia, insinua il lasciarsi prendere dall’oblio, come se la morte potesse sanare, rendere dolce la vita. E’ un sentimento che si avverte nei momenti di maggior crisi e stanchezza, una diversa forma di suicidio, che lascia uscire la vita da sè perchè ciò che questa offre non ha più speranza di interesse.

Ieri, sentivo Cacciari dire che la speranza non appartiene a chi non crede e questa affermazione categorica mi sembrava azzardata, come se l’agnostico potesse solo esorcizzare la disperazione e la morte e le allontanasse con impegni fasulli per lo spirito, puntando sul transitorio, sull’edonismo, sulla motivazione momentanea che ottunde la percezione della propria solitudine senza dio. Gli amori totalizzanti, le passioni, i furori: tutto inconsistente se non assistito da un fine più grande ed immanente. Un vanitas vanitatis che cade come seta dalla vita orgogliosa che lo rimira a terra. A questa immagine dolente contrapponevo quella a me più vicina, del cavaliere emaciato del Settimo sigillo, la sua battaglia impari contro la negazione della vita. Ricordate il gioco e la dignità del non lasciare che la morte vinca? Il vivere è un impegno e un contratto, magari da emendare spesso, ma comunque da onorare con sè stessi. Quando, per un motivo qualsiasi, questa cognizione del vivere viene a cadere, sembra subentrare un modo parallelo del concepire la quiete, l’assenza del soffrire. Capisco molto questo sentire, che non è il mio, lo capisco anche sapendo che non è una alternativa lasciar cadere vita e pensieri in un basta definitivo, senza più luce. La morte diventa in questi casi la droga finale, priva di speranza e di umanità. E’ la perdita dell’umano, il lasciarlo uscire da sè, contrapposto all’umanità del non cedere, del non arrendersi, del riprendere la corsa.

Se la musica, alla fine, si è ripresa il suo posto, è perchè, come sosteneva Goethe, disturba i pensieri, ma aggiungo, rimette in ordine il mondo con la sua umanità che spiega e non accondiscende.